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Angiolino, detto Lino, era il cugino di Irene. Figlio unico di Totonnu, aveva un ruolo che lo investiva di aspettative lontane dal suo essere. Era arrivato dopo il lutto di un bambino mai nato. Bruna, la madre, per preservarlo lo teneva meglio di un imperatore. Gli puliva la faccia con la saliva e gli leccava i capelli per farli stare in ordine. Lo aveva allevato con il latte di asina e il filetto di cavallo, eppure in quel figliolo c’era un inspiegabile timore del mondo.

Prima di chiedere la mano di Bruna, Totonnu aveva valutato con attenzione il cognome e i fianchi della futura moglie. La famiglia era perbene, gente che si era sempre dimostrata silenziosa. I fianchi di Bruna, che a quel tempo aveva diciassette anni, avevano la solidità di una cassapanca. Bassi di altezza e larghi di spessore, erano adatti a contenere la dote. Gli avrebbero dato tanti eredi quante erano le lenzuola con le cifre che la povera madre aveva ricamato personalmente sul lino fatto arrivare dal Belgio, dai parenti andati a lavorare in miniera. L’influenza di Totonnu era già importante, grazie al fratello di una zia che lo aveva scelto per regolare certi traffici dei quali non si doveva parlare. I figli, però, non arrivavano. Seme debole vigore spento, pensavano i gnuri. A ogni luna nuova l’uomo guardava con disprezzo la moglie, incapace di generare. Bruna, in cuor suo, covava il dubbio che fosse il marito a non essere sufficiente, e rinforzava la colazione con una dose di mandorle sgusciate che facevano bene al sangue. La prima gravidanza giunse alla soglia dei quarant’anni. Totonnu la accolse con un sorriso storpio, e il dubbio gli si ritorse contro. Il bambino si sciolse in un grumo denso: «È colpa tua» lo rimproverò Bruna. «Lo hai docchiato

La volta successiva, Bruna tenne per sé il segreto fino a quando la pancia non divenne evidente: «Statti ccìttu» ammonì il marito. «Se parli, il cielo ti punisce.»

Totonnu rimase alla larga fino alla fine della gravidanza. Attese il parto nella pizzeria di Rosario, insieme ai gnuri e a qualche sigaro. Per distrarsi, fece un giro di carte e parlò del tempo, sempre troppo afoso e caldo. Quando giunse la notizia dell’erede, si batté tre volte il petto con la mano destra, quella più vicina a Dio. Fece preparare un cesto di rose e biglietti da centomila lire, e salì a piedi scalzi fino al santuario della Madonna delicata, come prova di devozione e tempra. La nascita di ’Ngiulinu equivalse a un’incoronazione.

Negli anni, però, Lino si rivelò un bambino bizzarro. Parlava veloce come un treno in corsa e alternava le parole a singhiozzi inopportuni e grossi. Aveva i colori spenti di uno straniero. I suoi occhi rispecchiavano gli umori del cielo e brillavano sulla faccia ovale, appiattita dai doveri del cognome. Le spalle gracili reggevano il peso degli sguardi altrui. I piedi restavano piccini: «Come farà ad andare per il mondo» si domandava il padre vedendolo camminare dentro le scarpe lucide e sempre troppo nuove.

Rimase attaccato alle gonne della madre fino al distacco obbligato delle elementari. A scuola, Angiolino era nu ciùcciu, così pensava in cuor suo il padre. Cinque più due meno tre per lui faceva quindici e l’insegnante sosteneva che sì, ci provava, che con un piccolo sforzo prima o poi ce l’avrebbe fatta, che la matematica non era poi così importante per campare perché ormai esistevano le calcolatrici. Diceva così la maestra al padre, che l’aspettava fuori dalla scuola per interrogarla: «Allora?» chiedeva zi’ Totonnu, che per quel figliolo avrebbe dato una gamba.

La donna guardava a terra e balbettava: «Sì, va be’, però, insomma». Non era più la giovane diplomata, di buona famiglia e in attesa di marito: “Suo figlio è un gran somaro” pensava. E la sola idea la gettava in disgrazia: «È volenteroso» sussurrava. «Si farà.»

Quando zi’ Totonnu passava per la strada con il gran somaro per la mano, era tutto un inchinarsi e salutare. Angiolino era u masculu di zi’ Totonnu. Eppure quando giocava con Irene nel cortile del castello, era così imbranato da nascondere la faccia e lasciare scoperti i piedi: «Lino, ti vedo» gli diceva la cugina. «Nasconditi più bene!» E lui nascondeva i piedi e scopriva la faccia. Lei sospirava: «Sei proprio una zucca vuota».

Erano nella stessa classe, con l’insegnante che veniva da Firenze e parlava un italiano che a Fosco non si era mai sentito. Angiolino sedeva da solo davanti alla cattedra. Era il primo a ricevere il buongiorno dal preside e la benedizione pasquale dal parroco. Era il primo a entrare e a uscire dalla classe. Gli altri seguivano a distanza.

Eppure, nonostante le aspettative e le attenzioni, Angiolino cresceva soffice come un pan di spagna.

C’erano cose che zi’ Totonnu non si spiegava.

Fin dall’inizio della scuola suo figlio aveva mostrato una propensione che – per decenza – non si poteva nominare. Non era un’inclinazione qualunque, non era un attaccamento e neppure un vizio. Era pura passione. Nonostante le pistole giocattolo e le ore dedicate ad accoltellare quarti di vacca, nonostante le docce fredde e il tempo perso per insegnargli a sparare, Angiolino adorava il pastello rosa. Dipingeva qualsiasi cosa con il pastello rosa. Scriveva le lettere dell’alfabeto con il rosa. Faceva i conti con il rosa. Si puliva le orecchie con il rosa. Dipingeva i prati di rosa.

La maestra, all’inizio, lo guardava sudando: cosa avrebbe detto il padre, sfogliando i quaderni? E alla fine qualche cosa gliela disse veramente: «Signorina» la chiamò. «Mi sembra che il bambino abbia in testa delle idee un poco strane.»

«Ma no, signor Totonnu.»

«Come un appannamento, una confusione. Ascoltatemi. Il prato è verde e il cielo è blu. Avete capito, signorina?»

«Certo, certo, signor Totonnu.»

«Antonio Rusto.»

«Come dice?»

«Chiamatemi don Antonio Rusto.»

«Mi scusi, signor Totonnu.»

«Non c’è di che.»

Nel giro di una settimana, dall’astuccio di Angiolino sparirono il pastello rosa e quello rosso che, usato delicatamente, riportava al colore indemoniato. Lino dava le spalle alla maestra: «Mi presti il pastello rosa?» domandava ai compagni, che erano abituati a dirgli di sì. «No no no» si agitava l’insegnante, pulendosi le mani sudate dentro il grembiule.

Il rosa e il rosso sparirono dagli astucci di tutta la scuola. Irene protestò con la maestra e tirò il libro di lettura in testa al cugino. Per punizione, il padre le fece bere l’acqua con il bicarbonato, fino a quando anche lei non si rassegnò alla privazione. In realtà, quella rinuncia la obbligò all’ipotesi che le persone potessero essere arancioni, verdi e anche un po’ blu. E lei, occhi nuovi, cominciò a dipingere.

Lino, invece, accettò la scomparsa del pastello rosa come una delle tante – inspiegabili – punizioni paterne. Alzò le spalle e continuò a crescere mingherlino e incerto. Restò il ragazzino di sempre, con la paura di correre, cadere, sporcarsi e toccare. Davanti alle minacce, usò la frase che aveva imparato a memoria: «Ce lo dico a mio padre».

Lino fu il primo mistero con il quale Irene dovette confrontarsi. Era nato per essere, così come chiunque al paese. A Fosco si veniva al mondo con una propria origine e un proprio destino, e non c’era da aver voglia di cambiare. Era così e basta. A suo modo, però, il figlio di Totonnu era un rivoluzionario. Diceva sempre: «Ce lo dico a mio padre» ma del padre gli importava poco o niente. Regalava le sue pistole giocattolo e si agghindava con certe collane di pasta che lui stesso confezionava. Sorrideva al presente, strizzando gli occhi e sollevando al cielo il naso a punta.

Una mattina Gerardo, il figlio del verduraio, alzò la mano in classe: «’Ngiulinu è nu ricchiuni» disse. Lo disse così, senza troppe spiegazioni, tra un esercizio di matematica e l’ora di disegno. Lino si girò a guardare: «Che cos’è nu ricchiuni?» domandò. Irene chiuse il quaderno. Gli alunni restarono immobili ai propri posti, senza fiatare. L’insegnante si lasciò andare sulla sedia coi braccioli e mandò a chiamare il bidello: «Un bicchiere d’acqua, presto». Gerardo non tornò più a scuola. Qualcuno disse che lo avevano spedito da una zia di Reggio, dopo che il padre verduraio era stato investito, per sbaglio, da un furgoncino targato ZH.