4

Angiolino, che avrebbe dovuto essere l’orgoglio del padre, gli procurava un susseguirsi di imbarazzi. Era timido, sgraziato e allo stesso tempo irriverente. E poi c’era la storia del cinque più due meno tre, che per lui faceva sempre quindici. La sera, i gnuri si ritrovavano nel retro della pizzeria e a qualcuno scappava un commento: «Oggi mio figlio ha fatto. Oggi mio figlio ha detto». Il petto si ingrassava di superbia. Era una piccola rivincita, un modo per far valere la giustizia della specie su quella più misera del paese. C’era poco da vantarsi o declamare imprese. Totonnu metteva tutti a tacere con uno sputacchio, seguito da un’affermazione: «Il caffè mi piace senza zucchero».

«Anche a me.»

«A me pure» annuivano i presenti, mentre Rosario si affrettava dietro il bancone. Tornava pochi minuti dopo, con le tazzine fumanti e una bottiglia di amaro locale. Totonnu era un uomo autoritario. La prepotenza, mormoravano le comari, avvelena il seme e il sangue. Ma nessuno aveva il coraggio di ripetere l’anatema ad alta voce. Totonnu nascondeva la preoccupazione per il figlio dietro l’indifferenza. Era convinto che il silenzio lo avrebbe costretto a cambiare. Si inventò un linguaggio fatto di gesti essenziali che utilizzava per rimproverarlo. Per mostrare disappunto, inarcava le sopracciglia fino a formare due pieghe che gli attraversavano la fronte in modo verticale. Per esprimere vergogna, usava una tosse superficiale. Per manifestare delusione, socchiudeva gli occhi e inspirava per gonfiare il petto. Il fastidio diventava uno schiocco di lingua sul palato, simile a un piccolo scoppio.

Angiolino coglieva i segnali, li decifrava ma non sapeva che farsene. Rispondeva con un risolino largo, vicino all’inconsapevolezza. Patri, diceva il suo viso, sono quello che sono. Totonnu era andato fino a Lamezia, per consultare i pianeti e farsi fare un giro di tarocchi: «Inutile» gli aveva confessato l’indovina. Morte capovolta. Il figlio aveva una tara nel sangue alla quale non c’era rimedio. Totonnu si doveva rassegnare: Angiolino sarebbe rimasto al suo posto nell’albero genealogico dei Rusto, a indicare una trasmissione fallace.

Di tanto in tanto il vecchio inciampava nell’illusione di una trasformazione possibile. Invocava il miracolo ad agosto, in occasione del pellegrinaggio annuale alla Madonna delicata, quando c’era da scambiare un’offerta in denaro con la richiesta di una grazia. Ci provava anche a capodanno, quando si sedeva a tavola e allungava un piatto dove ammiccavano, ormai ciechi, gli occhi di un maiale: «’Ngiulinu».

«Che c’è?»

«Mangia.»

Lino serrava le labbra.

«Sono buoni. Ti fanno venire la barba e il coraggio.»

«Non mi piacciono.»

«Apri la bocca.»

«No.»

«Ti ho detto: mangia» lo minacciava il padre. «O ti scortico vivo con queste mani.»

L’uomo tremava nel tentativo di contenere la rabbia. Il figlio, invece, tirava su con il naso e sfoderava il risolino largo. Dimostrava più fegato di tutti gli abitanti di Fosco. Guardava il padre in faccia e lo obbligava ad assistere al suo buonumore. Possibile che nessuno se ne fosse accorto? Lino era l’unico a disobbedirgli, il solo a sputare sulla mano che gli dava da mangiare.

Per ritrovare la calma, Totonnu si chiudeva in macelleria e aspettava che il freddo gli spegnesse i bollori.

Eppure l’ossessione del figlio lo perseguitava. Si insinuava sotto lo stipite della porta e viaggiava sulle onde sonore di certi motivetti anni ’50 che Bruna, la moglie, ascoltava seduta alla cassa della bottega.

Lino si era appassionato a quella musica da fìmmina. Batteva il tempo con le mani, scivolava sulle scarpe lucide e spingeva al cielo la voce: «Non ti fidar di un bacio a mezzanotte».

«Che fai?» lo rimproverava il padre. «Esci dal negozio ché i clienti mormorano.»

«E tu spegni» diceva alla moglie. «Gli riempi la testa di mundizzi

Bruna assestava le natiche sulla sedia di legno e alzava il volume del mangiacassette. La musica riempiva l’ambiente, in ritardo di almeno trent’anni sui gusti nazionali: «Se c’è la luna non ti fidar» canticchiava la donna, mentre sopportava.

«Bruna, fanci ’stu cuntu!» le urlava il marito.

«Bruna, mbuddurìacci ’sta carni!».

Totonnu la chiamava e lei lo lasciava fare, ciondolando la messa in piega a destra e a sinistra nel tentativo di tenere il ritmo. Nella macelleria, il vecchio sedeva a gambe larghe sul suo trono di carne, per scettro uno stinco. A casa era Bruna a comandare. Sul cibo, i mobili e il colore delle tende.

Il marito la rimproverava: «Che hai fatto ad Angiolino, per crescerlo così?».

«Così come?»

«Non sembra figlio a me.»

Bruna si risentiva: «Come ti permetti? Ti è uscita una bestemmia. Se la ripeti, prendo la creatura e la butto giù dalla scogliera».

E lo avrebbe fatto per davvero, pur di difendere il suo onore.