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La passione per il disegno, a Irene, era spuntata insieme ai denti. Nuzza la guardava di traverso perché non c’era nessuno, in famiglia, ad avere lo stesso difetto. Comunque non dava troppo peso alla questione. Aveva un lavoro e altre due figlie alle quali pensare. Per fare stare buona la maggiore, le allungava la carta velina con la quale impacchettava i vestiti delle clienti. Irene si accomodava nel retro, sulle scatole mai aperte di appretto Stiro!, e disegnava per ore, senza disturbare. All’inizio usava dei monconi di cera trovati in una scatola di scarpe. Li afferrava vicino alla punta ma la velina era troppo delicata per sopportare la pressione della mano. In pizzeria il padre aveva un quaderno arancione dove teneva i conti. Le pagine, ruvide al tatto, chiedevano al colore di insinuarsi tra le imperfezioni che rendevano quei fogli così difficili da conquistare. Bisognava toccare la carta, ascoltarla con le dita là dove si incespicava su se stessa e diventava, insieme, interessante e ostica. Irene calcava e cercava una direzione.

Rosario finì col lamentarsi: «Che fai, bambina? Mi rovini i conti».

Comprò una scorta di taccuini per la figlia: «Li voglio arancioni» si raccomandò Irene. Come il sole quando si sveglia e si addormenta, le carote che fanno bene alla vista, la spremuta di arancia e il randagio che, ogni mattina, si stiracchia davanti alla porta di casa.

Irene disegnava linee e testoni, cieli a metà, fiori sospesi e mani giganti. Quando cominciò la scuola, zia Bruna le regalò una scatola di pastelli, pregandola, in cambio, di badare ad Angiolino. Irene si fece carico del cugino e, allo stesso tempo, imparò a distanziare la mano dalla punta, per tenere sott’occhio l’insieme. Bianco come un lenzuolo, livido di rabbia, rosso come un peperone, arrabbiato nero erano espressioni che riempivano il parlato della gente. Eppure il rapimento del pastello rosa, avvenuto in seconda elementare per mano di adulti incapaci di spiegarne le ragioni, suggerì a Irene la possibilità di andare al di là dell’ordinario. Si disegnò gialla e libera. Macchiò di verde i denti di zi’ Totonnu, colorò di vermiglio i capelli di ’Ngiulinu e trasformò la madre in un essere blu. Dopotutto i cibi blu erano artificiali, come le pastiglie che curavano i malanni nei giorni senza fame.

A vedere tutta quella confusione cromatica, Nuzza si rimproverò il forcipe. Avrebbe dovuto sopportare e spingere, invece non c’era stato niente da fare. La piccola le si era ancorata tra le gambe e la liberazione era costata dieci giorni di letto e un risentimento all’inguine che faticava a spegnersi. Con tutta l’energia che ci aveva messo a partorire la figlia, la donna si mangiava il fegato a vederla così bislacca.

Eppure Irene sembrava indifferente al suo rancore. Estromessa dal grembo materno, cresceva attaccata al quaderno arancione.

Superati gli scarabocchi, si dedicava a improbabili mariti e mugghieri. Nei suoi disegni, cantanti ciccione si sposavano con musicisti affusolati, ateniesi si accasavano con spartane, pesci siluro si innamoravano di platesse, e via così, in una composizione bizzarra di forme e provenienze che si tenevano per mano, soprattutto quando erano senza braccia, e non si urlavano le male parole, come facevano Rosario e Nuzza.

Poi ci fu il periodo delle case. Volanti, sull’acqua, su prato, a un piano, a dieci piani, isolate, raggruppate, di sasso gomma pioggia o fango, le case erano cubi, cilindri, piramidi e coni dove le porte e le finestre erano segni da indovinare. Alle case seguirono i collage. La camera divenne un cumulo disordinato di giornali, ritagli e scarti. Lorenza e Gianna faticavano a ritrovare ciascuna il proprio letto: «Irene».

«Che c’è?»

«Occupi una stanza intera.»

Lei continuò, imperterrita, a ritagliare. Il quaderno arancione si gonfiò al punto che la copertina si accasciò a terra, orizzontale, e i fogli del mezzo si aprirono a ventaglio. Irene li chiuse con lo spago. Nessuno, oltre a lei, doveva entrare nel suo spazio.

Era quasi un’adolescente quando fece la scoperta più importante: u lapis. Le matite non erano tutte uguali, nonostante la leggerezza con la quale Nuzza liquidava le sue richieste: «Altre duemila lire per comprare che cosa? Scordatelo. Una vale l’altra» diceva la madre. Invece si sbagliava. U lapis era un nome unico che racchiudeva in sé una varietà sorprendente di possibilità. C’erano matite dure e morbide, e infinite vie di mezzo. La dura era la migliore per imparare. Obbligava la mano a usare un tratto delicato ed era indulgente con gli errori. La matita morbida, invece, aveva bisogno di una mano più esperta. Sprofondava nel foglio e lasciava un segno indelebile. Per temperare, Irene usava una lametta: punta non troppo corta, perché possa durare, non troppo lunga, per evitare che si spezzi. La misura va trovata. Quando correva sulla carta, la grafite faceva un rumore di scoperta e aveva una voce onesta che assomigliava a una parte profonda di lei – del suo insieme. Era il vento in faccia, una radice di liquirizia tra i denti, l’odore dolciastro del gelsomino e quello estivo del ficarazzu andato a male per eccesso di sole e indifferenza.

A quindici anni, Irene aveva già riempito due pile di quaderni. Arancioni, certo. A fogli ruvidi.