Rocco era più grande di Irene e Angiolino soltanto di pochi mesi. Eppure aveva il portamento di un adulto. Aveva mani grandi e dita leggere, che afferravano con l’idea di accompagnare e mai con quella, prepotente, di sottrarre. I capelli scuri si litigavano dentro un cumulo di riccioli. Il naso correva importante dall’attaccatura delle sopracciglia fino alle labbra, protette da una peluria sottile. Pareva che qualcuno, forse la matita dispettosa di Irene, gli avesse disegnato addosso i vestiti per dare a tutti la possibilità di immaginarne il corpo solido.
Rocco era il figlio di una vedova. Ettore, suo padre, era stato uno degli uomini più fidati di Totonnu. I gnuri gli avevano dato il compito di provvedere alla sicurezza del capo e lui non si era lasciato pregare. Arrivava per primo nei luoghi dove, da lì a poco, sarebbe entrato il vecchio: «Il tavolo accanto alla porta e zi’ Totonnu con le spalle al muro» ordinava. La schiena vicino alla finestra ce la metteva lui, Ettore Buoi: «Mors mea, vita tua» diceva con lo sguardo fisso su Totonnu, masticando al contrario quel poco di latino che aveva imparato da un prete di campagna.
Era venuto da fuori e aveva ritirato l’attività di zi’ Ricu che faceva il tappezziere. Zi’ Ricu non aveva figli e suo fratello lavorava al Nord, in una fabbrica di automobili. La bottega era una stanza senza finestre, ricavata da un garage. I gnuri ci avevano messo un po’ a fidarsi di Ettore, perché la gente di Fosco beveva caffè nero e diffidenza. Lui non aveva fretta. La mattina si sedeva all’ingresso della bottega, tra la macchina da cucire e i materassi messi a respirare. Si ritirava per il pranzo ed era il primo a riattaccare, dopo il riposo pomeridiano. Il figlio lo aiutava nel lavoro. Era bravo soprattutto con le imbottiture. Batteva la lana con un legno di frassino e la faceva riposare al sole, per darle consistenza. I cuscini erano il suo punto debole. Rocco si inceppava a ridosso delle cerniere. Il padre lo rimproverava: «Ma come,» si lamentava «quante volte te lo devo ripetere? Prima di cominciare, devi tirare la stoffa».
«L’ho tirata.»
«Non abbastanza.»
Il ragazzo si impegnava ma con le cerniere, chissà perché, non ne veniva a capo: «Patri, non sono capace».
«Tutto si impara. Nella vita bisogna saper chiudere.»
Ettore Buoi cuciva le cerniere con una mano sola. Creava l’imbastitura e bloccava la lampo puntandola sui due lati. Faceva scorrere la stoffa sotto la marcia regolare della macchina a pedale. Prima di arrivare alla fine della giuntura, abbassava l’ago e ruotava il tessuto di novanta gradi. Il punto più difficile era il cursore: «Spingi verso il basso e cuci attorno alla parte superiore. Non devi avere fretta, figghiolu».
La fretta, si sa, uccide.
Ettore sapeva attendere. Si guardava attorno, odorava. Calcolava e misurava. Era capace di prevenire. Totonnu si fidava di lui.
A Rocco, Ettore insegnava il mestiere e la pazienza. Se avesse avuto più possibilità, lo avrebbe mandato a studiare a Reggio o forse addirittura a Basilea, dai cugini della moglie che gestivano un ristorante di pesce in riva al Reno. Lui c’era stato in viaggio di nozze. Si era sposato con Maria Catena all’inizio di novembre perché lei era già di tre mesi e la gente parlava. A Basilea pioveva fitto e l’acqua ghiacciata faceva male alla testa. Non si era neppure portato l’impermeabile. Non ne aveva uno – al paese non serviva – e i negozi della città erano troppo cari. La giovane moglie si stringeva al suo braccio, avvolta in un giaccone di montone che faticava ad allacciarsi. Glielo aveva prestato la cugina: «Non lo sai che qui fa freddo?» l’aveva rimproverata vedendola arrivare con addosso un completo di lana e un paio di scarpe da fine estate.
«Il bambino si chiamerà Rocco» disse Maria Catena al marito che tentava di proteggerla dalla pioggia.
«E se nasce fìmmina?»
«Immacolata, come Nostra Signora.»
Lei si fece un segno della croce che, in terra straniera, apparve addirittura profano. Se non fosse stato per la pioggia gelata di novembre e per la sensazione precisa di essere un estraneo, forse Ettore si sarebbe trasferito. Il cugino della moglie aveva bisogno di un aiutante: «Non è il mio mestiere» aveva detto Ettore.
A vent’anni e con un figlio in arrivo, aveva bisogno di concretezza. Non voleva far crescere la famiglia in un posto dove la gente camminava in fretta e parlava una lingua incomprensibile.
Al rientro in Italia, zi’ Ricu gli aveva telefonato per dirgli che si era fatto vecchio e lasciava la bottega. Il fratello era al Nord e non voleva tornare. Sarebbe stato un peccato buttare via una storia. Perché un mestiere, figghiu meu, è un pezzo di vita con una storia dentro. Lo diceva a Rocco, mentre disfacevano la lana e la mettevano davanti all’uscio, a respirare.
Era stato Totonnu a cercarlo: «Venite da me domani» gli aveva detto. «Ho necessità.» Bruna si era appesantita e l’imbottitura del sofà cedeva dal lato delle femmine; il vecchio chiamava così il posto dove la moglie era solita accomodarsi per guardare la televendita serale.
«Rocco,» disse Ettore «prendi le misure e mostra a donna Bruna il campionario.»
«Voi intanto gradite un caffè?» lo invitò Totonnu.
«Senza zucchero.»
«Naturalmente.»
«Da dove venite?» si informò il vecchio.
«Da Palmi.»
«E di cognome come fate?»
«Buoi.»
«Come vostro zio. Un uomo di poche parole, un gran lavoratore. È lui che vi ha insegnato il mestiere?»
«Me lo ha insegnato mio padre, che lo ha imparato dal padre.»
«Le mani buone sono di famiglia.»
Rocco entrò in cucina con il campionario di stoffe sotto il braccio: «Non ti ho educato a bussare?».
«Scusatemi, patri.»
L’odore del caffè si mischiava a quello di un disinfettante e a quello più fragrante di una ciambella messa a cuocere nel forno.
Totonnu guardò il ragazzo: «Quanto ha?».
«L’età di vostro figlio.»
Il corpo di Rocco, però, era adolescente e fiero. Sul volto dell’uomo passò una nuvola da temporale.
Rocco aveva intravisto Angiolino sulle mura del castello, mentre correva appresso alla cugina. Era un ragazzino gracile e imbranato: «Ireee’,» gridava «aspettami».
«Impara il rispetto» lo aveva rimproverato il padre schiaffeggiandogli la bocca con la mano sinistra.
«Che cosa ho detto di sbagliato?» si era azzardato a domandare Rocco.
«Non hai detto ma hai pensato. Ricordatelo bene. I pensieri sfacciati parlano.»
L’imbottitura del sofà di casa Rusto rimase com’era, sfondata dal lato delle femmine. Da quella visita in poi, però, Ettore Buoi cominciò a frequentare i gnuri.
La sera Maria Catena serviva la minestra e qualche fetta di salame: «Non aspettarmi» diceva Ettore alla moglie che faceva la faccia risentita.
Prima di uscire, lasciava mille lire sul tavolo, accanto al piatto di Rocco.
«Che ci fai con tutti questi soldi?» chiedeva al figlio.
«Ci faccio una bottega nostra, con tre vetrine.»
«Se ti facevo nascere in Svizzera» disse l’ultima volta, prima di non tornare più.
Lo disse senza punti di sospensione, quasi fosse un’affermazione. Dentro quelle parole c’era una forma indecifrabile di affetto, quasi un messaggio destinato a trasformarsi in una frase di scuse per essersi sbagliato. Se ti facevo nascere in Svizzera.
La notte stessa Ettore finì sparato con il colpo in bocca destinato agli infami. Glielo tirarono dietro la curva delle guardie. I suoi assassini volevano che i militari sapessero. Rocco non se l’era mai spiegato: «Dicono che quando muori così» raccontò a Irene mesi più tardi, ai tempi del loro amore «è perché hai fatto qualcosa che non dovevi fare. Io non ci credo. Mio padre era una persona onesta».
C’era un’antica faccenda che sporcava la sua reputazione. Un’unica disattenzione, pesante come una vita di sbagli. Come ogni domenica, Totonnu se ne stava nel suo campo di olivi e saggiava la qualità del futuro raccolto. Era stata la sola volta in cui aveva avuto paura della morte. Ricordava una 128 bianca ferma sul ciglio della strada e uno sconosciuto che, dal finestrino abbassato, gli puntava una pistola contro. Il vecchio si era buttato a terra ed era rotolato tra gli alberi, strisciando sui gomiti fin dietro il muretto a secco. I proiettili si erano conficcati nel fantoccio che serviva a confondere i predatori di olive: PROPRIETÀ PRIVATA diceva il cartello attaccato al collo del manichino. Pericolo di morte e infamia. I due sicari venivano dal paese vicino di San Rotondo, si seppe poi. Erano della famiglia Torsi, che rivaleggiava con i Rusto per il controllo del territorio. Se i Torsi avevano tentato di eliminare il capo, significava che erano pronti alla guerra.
Il compito di Ettore Buoi era quello di proteggere il capo. Aveva fallito. La sua vita valeva meno della banconota da mille lire lasciata sul tavolo, accanto al piatto di minestra.