In quegli anni, la natura aveva smesso di tracciare i suoi confini. Le città e le province erano semplici etichette. Erano le famiglie, e solo loro, a comandare e a segnare le appartenenze. Il paese di San Rotondo distava da Fosco un pugno di chilometri, nove in tutto, se si prendeva la via del mare. Piazza Roma, la piazza centrale, aveva un nome straniero e troppo lontano per avere significato. La chiesa era chiusa a doppia mandata perché il parroco, don Tiziano, se ne stava in canonica con un mal di fegato che lo costringeva a letto. Il male gli era arrivato durante i festeggiamenti di san Martino, mentre la statua del patrono girava per il paese e raccoglieva le offerte dei fedeli: «Don Tiziano,» si raccomandavano i masculi di casa Torsi «fermate il santo sotto le nostre finestre, così che il nostro vecchio lo possa pregare». La famiglia dei Lorida si risentiva: «Don Tiziano» diceva al prete. «La legge del Signore è uguale per tutti. Fermate davanti a casa nostra. Non mancheranno fiori, buste e benefici.»
Tempo prima c’era stato un matrimonio andato a male tra la figlia di un Torsi e il secondogenito dei Lorida. Quando il sangue si incrocia male, i legami slittano. Le due famiglie avevano cominciato a pretendere ciascuna un’attenzione particolare. «Don Tiziano, non vi dimenticate.»
«Don Tiziano, ricordate.»
Un suggerimento dopo l’altro, il parroco si era ritrovato un proiettile nella cassetta delle lettere e un coltello infilato nel tabernacolo, accanto al corpo consacrato. Il mal di fegato gli era salito in fretta. Il prete era diventato giallo e in processione si era fatto sostituire da due seminaristi.
I Torsi volevano espandere la propria influenza sulla provincia, e per farlo dovevano arginare i Lorida e le altre famiglie della zona. Tra tutte, i Rusto di Fosco erano i più autorevoli. I Torsi volevano eliminare zi’ Totonnu e prendere in mano i suoi affari. Controllavano un tratto di lavori sull’autostrada che non finiva mai e si erano messi in commercio con gente del Nord, che esportava filati in Centro America e importava prostitute a buon mercato. Avevano affidato il compito di eliminare Totonnu al loro uomo migliore, ma proprio quel giorno il Tìntu si era messo a tremare. Per punizione, gli avevano tagliato l’indice destro: «Così la prossima volta ti concentri».
L’agguato al campo di olivi aveva messo in allarme i gnuri di Fosco che, la sera stessa, si radunarono nel retro della pizzeria per organizzare la vendetta: «Mandiamo una squadra dei nostri».
«Mandiamone due.»
«No» sentenziò Totonnu, con il viso graffiato e il braccio destro appeso al collo. «Ognuno deve fare i conti in casa propria.»
«E come?»
«Chiamate i Lorida.»
«I Lorida?»
«Sì, che vengano qui, davanti ai miei occhi.»
I Lorida avevano un gene di famiglia che li metteva al mondo con la pelle scura e i capelli biondi. A Totonnu quella contraddizione dava un prurito al naso difficile da contenere. Il maggiore dei fratelli si chiamava Felice. Sedeva a gambe larghe di fronte al vecchio e si puliva i denti con l’unghia del mignolo: «Sono contento di vedervi in salute, zi’ Totonnu».
«Anche io a voi.»
«Ci avete fatto chiamare.»
«Avete saputo dell’agguato al campo di olivi?»
«Le voci corrono veloci.»
«Non dubitavo.»
«Come mai ci volevate vedere?»
«Vi chiedo di vendicare l’affronto.»
Felice strizzò gli occhi e liberò l’unghia dai denti.
«Perché noi?»
«Siete di San Rotondo, come i Torsi, e avete il sangue parente.»
«Per essere convincente, la vostra proposta deve fruttare.»
«Riscattate il loro giro di affari, a noi non interessa.»
«E poi?»
«E poi conservate il favore come un buono da spendere. Il tempo è dalla vostra parte, e dalla nostra. Sia benedetto Iddio.»
«Sfidare i Torsi è pericoloso.»
«Anche deludermi è pericoloso.»
I Lorida si congedarono: «Vi faremo sapere».
Felice Lorida chiese consiglio alla madre, che aspettava gli ottant’anni sulla veranda di casa, sotto una coperta di lana a scacchi: «Matri» domandò. «Cosa dobbiamo fare?»
«La giustizia degli uomini è la giustizia di Dio» disse la donna, baciando il rosario tra le labbra secche di tempo.
Due notti dopo, i figli, i nipoti e gli amici dei nipoti imbracciarono le armi e sfondarono porte, rivoltarono coperte, macchiarono innocenze. Entrarono nelle case ed eliminarono tutti i maschi dei Torsi fino all’ultimogenito. Il più piccolo si chiamava Franco Maria e aveva un ciuffo di peluria in testa che pareva una virgola.
In quella notte di mattanza, anche i Lorida persero sette vite, quattro delle quali portavano il cognome di famiglia. Un prezzo alto a fronte dell’esistenza di un vecchio che si andava consumando.
L’episodio delle olive creò un precedente. Totonnu era abituato a girare da solo, ma contava sulla protezione invisibile dei suoi. Eppure quella volta era rimasto scoperto. Qualcuno aveva mancato. I gnuri si giustificarono: «Non è colpa mia».
«Io non c’entro.»
Ettore Buoi era l’incaricato. Avrebbe dovuto intuire il pericolo, avvisare, pianificare la difesa. Non si era accorto di nulla o – i gnuri non esitarono a ipotizzare – aveva osato tradire il capo.
«Tradire il capo?»
«Non è possibile. Tra tutti, lui è il preferito.»
«E allora? Pure Giuda Iscariota era un figlio amato.»
«Ascoltatemi» disse Arcuri u ragiuneri che, tra gli uomini di Totonnu, era quello che faceva di conto. «Ho più anni di voi e l’esperienza insegna.» Ettore Buoi andava eliminato il giorno stesso, con il proiettile in bocca destinato agli infami.
Durante la discussione, il capo rimase in un angolo a fumare. Ascoltò in silenzio.
«Che facciamo?» gli domandarono.
Il vecchio era indeciso. Ettore Buoi gli aveva sempre dimostrato una fede che andava oltre la ragione. Metteva la vita sua davanti alla propria per proteggerlo dalle brutte sorprese. Aveva un figlio ritto e sano e lo avrebbe sacrificato volentieri: «Prendi Rocco,» gli diceva «fanne l’erede tuo. È un bravo ragazzo. Ti darà soddisfazione».
Totonnu sapeva che i gnuri gli stavano mentendo. Scrutò gli infami. Alfonso u spazzinu aveva una macchia rossa in fronte che pareva una denuncia. Ciddu u sacristanu era asciutto come un atto penitenziale. Arcuri u ragiuneri era rimasto basso. I suoi lo avevano portato addirittura a Brescia, per farlo allungare. Non c’erano riusciti. Lo avevano fatto studiare per dargli almeno un mestiere e lui, a fatica, si era diplomato. Tutti, senza eccezione, avevano la pelle ispessita dal sole, anche Arcuri che tirava i suoi conti in una stanza con poca luce. Totonnu li aveva scelti perché imparassero l’obbedienza. Se l’erano cavata. Adesso tra di loro c’era qualcuno di marcio che voleva far fuori il preferito, per toglierlo di mezzo.
Il vecchio avrebbe lasciato fare. Solo attraverso il peccato, avrebbe scovato il peccatore. Gli dispiaceva per Ettore Buoi ma la vita, dopotutto, era soltanto una partita a carte destinata al pareggio.
«Va bene» disse, sorseggiando il caffè.
«A chi l’onore?» chiese Ciddu.
«Cugino» chiamò il vecchio. L’uomo comparve sulla porta del retro, con le guance pallide e un piatto vuoto in mano.
«Hai da fare?»
Rosario rigirò il piatto tra le mani.
«Allora, ti è cascata la lingua?»
Non aveva mai detto a Totonnu che gli spari gli mettevano il singhiozzo. Quando si ritrovava la pistola in mano, non guardava il bersaglio. Fissava l’impugnatura, quel suo modo instabile di stargli tra le dita.
«Portami un altro caffè nero e bevine uno anche tu. Devi stare sveglio. A mezzanotte incontrerai Ettore Buoi dietro la curva delle guardie.»
Il piatto cadde a terra e rotolò sotto il tavolo, senza rompersi. Totonnu rise, i gnuri con lui: «Mani di mmerda» disse guardando oltre la finestra. «Quand’è che ti fai grande?»
Rosario tornò in cucina e prese a calci un sacco di farina. Il singhiozzo, quel maledetto singhiozzo. Un uomo non può ammazzare un altro uomo e singhiozzare: è come mancargli di rispetto.
Buttò giù mezza bottiglia di amaro. Attese la mezzanotte per chiudere la saracinesca della pizzeria e salire a bordo della Cinquecento. Ettore Buoi lo aspettava dietro la curva delle guardie, nascosto dietro una quercia secolare: «Sono qui» fece cenno alzando la mano destra. «Totonnu mi ha cercato.»
«Ti ho visto» rispose l’altro, prima di girargli attorno e afferrarlo per le spalle. Ettore reagì, provò a liberarsi dalla stretta di Rosario che gli stringeva il collo. Ci furono due pugni, uno schiaffo e il colpo sordo di una caduta. Ettore estrasse un coltello dalla tasca posteriore e fece scattare la lama. La puntò verso Rosario, che rispose con una ginocchiata al petto. La pistola brillò nella notte, sotto i fari di un’auto che correva sulla curva delle guardie. Nel momento esatto in cui riuscì a sparare, Rosario singhiozzò e attese che Ettore cadesse a terra: «Così mi hanno ordinato» disse.
Si chinò sul corpo sfigurato, si assicurò che fosse senza vita e lo trascinò fino alla curva delle guardie.
«Addio» disse, facendolo rotolare lungo il pendio che finiva nel canale. Mentre la vicina caserma si risvegliava, Rosario salì in macchina e si diresse verso casa. Voleva farsi una doccia e filare a letto. Aveva ancora un paio di ore di sonno prima di tornare al lavoro.
Irene lo sentì rientrare e bussò alla porta del bagno: «Patri».
«Che c’è?»
«C’è del sangue nel corridoio.»
«Sono caduto dalla scala che non porta al mare.»
«Cosa ci facevate lì?»
«Pensavo.»
«A cosa?»
«Al niente.»
La notizia della morte di Ettore arrivò la mattina stessa, insieme alla brezza che soffiava dalla baia, nel tentativo inutile di consolare. L’urlo di Maria Catena si alzò dritto al cielo, dritto a Dio. Nessuno ebbe compassione della vedova perché il colpo in bocca non lasciava dubbi. Ci sono segni che equivalgono a giudizi. Ettore Buoi era un infame.
Rocco preferì non vedere il corpo straziato del padre. Voleva ricordarlo mentre appoggiava le mille lire sul tavolo, accanto al piatto di minestra. Se ti facevo nascere in Svizzera. Le cerniere, pensò. Adesso che suo padre se n’era andato, avrebbe dovuto imparare a cucire le cerniere per tenere gli estranei lontani dalla sua vita e da quella della madre. La bara non era ancora stata sigillata e già i creditori suonavano alla porta. Volevano soldi, presentavano ricevute e conti che non tornavano.
«Andatevene» li cacciava Rocco. «Non vi conosco.»
In cuor suo sapeva che l’anima di Ettore non avrebbe trovato pace, fino a quando non si fosse liberata dalle cose del mondo.
Rosario Rusto fu il solo a presentarsi al funerale. Per l’occasione indossò un abito elegante, da persona perbene, e diede il braccio alla vedova perché non si dicesse che il morto l’aveva lasciata senza onore. Le morti, al paese, odoravano di crisantemi e zucchero. C’era l’usanza di regalare pacchi di zucchero per addolcire l’addio ma, quel gusto stucchevole mischiato al pianto, era soltanto l’ennesimo trucco utilizzato per nascondere.
Il carro funebre attraversò il paese, scortato dalle tre anime e dalle loro ombre. Alle finestre, soltanto occhi che spiavano dalle persiane chiuse. Rocco sentiva i passi di quel magro corteo sull’asfalto della piazza. Indossava scarpe nuove, comprate per l’occasione, con la suola di cuoio e le stringhe di pelle nera. Non le avrebbe mai più portate, pensò mentre il prete biascicava una benedizione stanca. Alla fine della cerimonia, Rosario accompagnò Maria Catena a casa e si accomodò in salotto. Mentre la donna preparava il caffè, Rocco aspettava: «Da domani dovrai pensare a tua madre» gli disse Rosario.
«Lo so.»
«Devi chiudere la bottega, e in fretta.»
«Perché?»
«Tuo padre aveva dei nemici. Non ti lasceranno in pace.»
«Chi sono?»
«Non fare domande. Sbriga quello che devi e poi vieni da me, in pizzeria. Ti darò da lavorare, ma non aspettarti la compassione.»
«Non la voglio.»
«Meglio così.»
Rocco accettò, lo fece per sua madre. Maria Catena voleva che si salvasse. Dopo l’omicidio del padre, del fratello e del marito, quel figlio era tutto ciò che le rimaneva. Avrebbe risparmiato alla madre il dolore di un altro lutto.