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Una settimana dopo la sepoltura del padre, Rocco si presentò alla pizzeria.

«Hai sbrigato quello che c’era da fare?» gli chiese Rosario, senza ascoltare la risposta e lanciandogli una camicia senza collo e un grembiule.

«Sì.»

Il fratello di zi’ Ricu era arrivato dal Nord per chiudere bottega: «Qui non ci ritorno» aveva detto con una cadenza sporca, quasi cantata. Stava al Nord da più di trent’anni e aveva sistemato i suoi figli nella stessa fabbrica di automobili che gli aveva dato da mangiare.

«Vuoi partire con me?» aveva chiesto a Rocco, ma con un tremore nello sguardo che tradiva la preoccupazione di una risposta affermativa.

«No. Devo occuparmi di mia madre.»

«Porta anche lei.»

«Ha bisogno di una tomba sulla quale pregare.»

I giorni successivi alla morte di Ettore erano stati stranamente tranquilli.

Dopo la disperazione iniziale, Maria Catena si era chiusa nella stanza matrimoniale e aveva affastellato sul letto i vestiti che avevano colore. Quelli del marito erano rimasti al loro posto, nell’anta destra dell’armadio. I suoi, invece, dovevano espiare. Bastava anche solo una fascia laterale o il collo di pizzo color crema per far finire tutto in un sacco destinato alla Santa Carità: «Sabato lo portiamo a Reggio, con la corriera delle otto» disse Maria Catena al figlio.

Da quel giorno non avrebbe mai più dismesso il nero, se lo sarebbe portato addosso per difendersi dal mondo e per dire alla malasorte: «Stai lontana. Da qui sei già passata». La vita con lei era stata ingiusta. Se avesse rinunciato prima al colore, la Madonna delicata avrebbe premiato la sua remissione risparmiandole l’ennesimo dolore. Invece era stata vanitosa: «Sono stata vanitosa, figghiolu, e il cielo mi ha punita».

La sua vanità consisteva in una boccetta di acqua di viole e in una cipria color avorio che Ettore, anni prima, le aveva comprato per un compleanno. Di solito si limitava ad augurarle una buona giornata. Buona, per lui, significava speciale, ma quell’anno le aveva lasciato sul davanzale un regalo avvolto in una carta opaca. Rocco guardava la madre curioso e insieme risentito per quella attenzione particolare. Il suo quadrifoglio messo a essiccare tra le pagine dell’elenco telefonico sarebbe sembrato ridicolo, al confronto. Non glielo aveva dato, lo aveva buttato dal balcone, per poi pentirsene. La madre si era seduta accanto alla finestra e aveva aperto il regalo, nascondendosi tra le pieghe del vestito che sapeva di fritto e canfora.

La mattina di Pasqua e quella di Natale, Maria Catena si chiudeva nel bagno e si metteva dietro le orecchie e sui polsi due gocce di acqua di viole. La cipria color avorio le dava un colorito pallido e distante. Andava in cucina e preparava il caffè, senza mai staccare gli occhi dalla fiamma azzurra del fornello: «Buona giornata» le diceva Ettore prendendo dalla madia una tazzina di ceramica.

Giornata speciale.

Rocco sapeva che gli occhi di lei chini sul fornello erano una forma di devozione. Avrebbe voluto rompere i silenzi e protestare contro il legame che univa la madre e il padre. Era un’abitudine che lo escludeva. La bottega era il luogo dove il padre, insieme al mestiere, gli insegnava cose che era incapace di raccontare. Le donne, Rocco, sono una frase senza il punto. Una cerniera con il cursore lento. Un sofà sfondato dalla parte delle femmine.

Il giorno in cui Irene era venuta alla bottega a farsi battere il materasso, aveva una gonna gialla e i pensieri ammucchiati sulla fronte. Si vedeva che era arrabbiata. Nuzza le riempiva la testa di rimproveri: «Per farsi sposare ci vuole la voglia».

Irene guardava la luce che filtrava sotto la porta, attratta da quel filo di libertà che indicava una via di fuga. Rocco l’aveva vista correre sulle mura del castello, rincorsa dal cugino. L’aveva vista buttarsi giù dalla scala che non portava al mare, insieme alla sorella, per arrivare fino alla spiaggia. Era una ragazza coraggiosa e stranamente friabile, un castello di sabbia che rischiava di essere portato via dalle onde a ogni respiro di mare. Aveva capelli sottili, mossi da poco vento, e spalle ancora infantili che si curvavano a proteggere il quaderno arancione sul quale si fermava a disegnare.

“Come sei bella” aveva pensato Rocco. Avrebbe voluto dirglielo. Si era limitato ad aprire il materasso e a sfaldare la lana un fiocco alla volta. L’aveva lasciata al sole un giorno più del necessario e, al momento di rinfilarla, aveva nascosto due sacchetti di lavanda nel mezzo. La lavanda pulisce l’aria dagli incubi. Voleva che lei facesse sogni gentili.

Irene non si era accorta di lui. Non l’aveva neppure notato. All’inizio del suo primo giorno di lavoro in pizzeria, le aveva detto il suo nome come si fa con un estraneo: «Mi chiamo Irene. E tu?».

Io so già che esisti.

Avvicinarsi era stato il gioco di due ragazzini che si guardavano da lontano, lungo il diametro di un cerchio.

Il lavoro era impegnativo. Rocco impilava le casse di birra Lido, puliva a terra, lavava i piatti e sopportava i malumori di Rosario che lo rimproverava per il clima, i capelli, la pulizia delle orecchie e la campagna acquisti della Reggina: «Rocco!» gridava. Era colpa sua se il mondo andava a rotoli e la birra Lido aveva il gusto del sapone.

L’accanimento di Rosario era dato dal bisogno dei sottomessi di sottomettere, e in parte dalla strana gelosia che l’odore della giovinezza altrui fa nascere nei corpi già maturi. Rocco taceva e portava rispetto. Dopotutto il capo gli dava da mangiare. E poi.

C’era anche un poi.

Aveva la pelle profumata e la matita sempre in mano. Si chiamava Irene. Quando si muoveva tra i tavoli era lì, presente, per poi sparire subito dopo dentro una pagina a quadretti. Quando suo padre la rimproverava, arrotolava il quaderno e se lo infilava nel grembiule o sotto l’elastico della gonna. Lo faceva con un movimento preciso delle spalle, che si alzavano e si abbassavano in fretta come a dire: «Che c’è?».

Qualche volte sorrideva, di un sorriso infantile fatto a scarabocchio. Aveva occhi caldi, leggermente allungati, e un petto già da madre. Roba da confondere, da evitare di guardare per non diventare rossi e sciocchi. Prima di Irene, per Rocco le donne erano soltanto madri, madonne o pensieri da vergogna che arrivavano la notte insieme all’agitazione del sonno.

In pizzeria Rocco poteva starle accanto. Irene scostava i capelli dalla fronte con una carezza data con il dorso della mano. Sbadigliava senza nascondersi. Si aggiustava in vita la gonna con uno schiocco festoso dell’elastico. Lei gli piaceva. Un’attrazione vicina all’imbarazzo lo portava a cercarla. Voleva vederla. Voleva sfiorarla. Studiarne il profilo, camminarle alle spalle per confondersi con la sua ombra. Rincorrerla lungo il perimetro del cerchio per poi invertire all’improvviso il senso di marcia. Camminare verso di lei, andarle incontro e leggere nei suoi occhi vivi l’allegria. Lei fingeva di evitarlo per poi trovarsi gomito contro gomito con lui, cellula su cellula, spalla su schiena, mano contro fianco. Si sistemava i capelli, si pizzicava le guance e bagnava le labbra perché sembrassero più vive. La figlia di Alfonso u spazzinu si era comprata un rossetto. Nuzza invece aveva detto no: «I peccati del mondo cominciano dalla vanità delle femmine». Per darle un dispiacere, Irene si colorava le labbra con le ciliegie. Prendeva i frutti e li schiacciava tra le dita, per far correre la buccia sulla bocca socchiusa. In Rocco, lo stupore prendeva la forma timida dello sguardo. Per Irene, era una cesta traboccante frutta e sorrisi.

Gli adulti non si accorgevano della loro attrazione, presi com’erano dagli affari miseri del presente. La loro vita era così com’era sempre stata, segnata da un lavorare lento e interrotto solo dalla necessità del cibo e del sonno.

Capitava che, dopo l’orario di chiusura, zi’ Totonnu e i gnuri si chiudessero nel retro della pizzeria in compagnia di un paio di forestieri in camicia e cravatta. Zi’ Totonnu indossava la solita giacca a scacchi e i pantaloni da campagna. Lui se ne fregava della camicia e soprattutto della cravatta. «A dormire» ordinava Rosario. Irene si toglieva il grembiule e lo appendeva alla porta della cucina. Saliva le scale di casa insieme al fumo delle nazionali.

Rocco portava al tavolo le carte da gioco e serviva da bere. Quando gli uomini parlavano di affari, si sedeva sui gradini dell’ingresso e fumava una cicca lasciata a metà da qualcuno degli ospiti: «Ehi» lo chiamava Irene dal balcone sopra la pizzeria.

La ragazza si sporgeva dalla ringhiera e sperava che, sotto la luce della luna, la camicia da notte diventasse trasparente. Lui la fissava come si fa davanti a un desiderio. Non c’è niente di più bello di ciò che esiste e sta per arrivare. Lei lanciava ciliegie dal balcone. Aveva quindici anni e non aveva mai baciato. Un bacio era qualche cosa di importante, un’attrazione potente verso la vita.

A Rocco serviva il coraggio. Gli mancava un solo passo per incontrare Irene lungo il diametro del cerchio. Quella notte in cielo c’era una fetta di luna rossa, incapace di risplendere. Si sarebbe arrampicato lungo la grondaia e sarebbe andato da lei. Strinse le mani e le ginocchia attorno al tubo e cominciò a salire. Ogni spinta era un pensiero, il tentativo goffo di non sembrare invadente.

«Irene!» sussurrò afferrando la ringhiera del balcone che affacciava sulla camera da letto.

«Che fai?» chiese lei, aprendo lentamente la persiana.

«Sono venuto a prenderti.»

«Dove mi vuoi portare?»

«Sul tetto del magazzino.»

«Perché?»

«Perché da là si vedono i sogni.»

Ce ne stiamo io e te, lassù, dove comincia il mondo. Chissà se vediamo anche da dove iniziamo noi.

La notte. Uno spicchio di luna debole. Due corpi vicini e i respiri in ascolto. Il canto acuto di un barbagianni.

Irene?

«Come sei bella.»

Lo sai?

C’erano poche stelle in cielo, e l’aria fresca di inizio estate. L’aria di inizio estate è una storia ancora da inventare.

La luce del corridoio si accese all’improvviso. Le persiane della stanza accanto si spalancarono. Irene spinse Rocco giù per la grondaia e la mano di lui le scivolò nel petto. I capezzoli si rizzarono, gustosi e scuri come frutti di mare.

«Figghia! Che fai?» domandò la madre.

«Prego la Madonna delicata perché mi dia giudizio» rispose la ragazza, sistemandosi la camicia da notte. Nella sua voce c’era un turbamento sconosciuto, che la faceva accelerare.

«C’era qualcuno?»

«No.»

«Ho sentito un rumore.»

«Lo sapete anche voi. Ci stanno i gatti.»

Nelle notti successive, per stare insieme e togliersi l’ingombro dei grandi, Irene e Rocco si ritrovarono di nascosto sopra il tetto del magazzino. Era un terrazzo ampio, con quattro piloni di cemento che suggerivano la possibilità di un altro piano. Nello spazio vuoto, c’erano soltanto l’antenna della televisione e un filo per stendere, abbandonato. Loro ci andavano di notte, quando gli adulti erano distratti o addormentati. Si arrampicavano lungo la grondaia che, dalla casa dei Rusto, arrivava fino al tetto. Irene e Rocco appoggiavano le schiene all’abbaino. All’inizio, vicini l’uno all’altra, diventavano introversi. Il silenzio era la voce del benessere. I corpi invece si chiamavano: «Sono qui» si dicevano.

«Avvicinati.»

Un centimetro alla volta. Non era mai abbastanza.

Il tetto del magazzino non sarebbe stato sufficiente.

Per un bacio, per il primo di altri baci, occorreva un luogo dove l’innocenza si mischiasse al peccato. La festa della Madonna delicata sarebbe stata l’occasione giusta. Irene lo propose a Rocco: «Ci incontreremo nel santuario».

«Sarà pericoloso.»

«Correremo il rischio.»

«E se i gnuri ci scoprono?»

«Diremo loro che stavamo pregando.»

Non sarebbe stata una bugia. Nulla è sacro come un sentimento.