9

La Madonna delicata era una madonna incinta. Era la protettrice di Fosco e di tutti i fedeli nati dall’acqua e dal sangue. Le donne le portavano ghirlande di banconote e gerbere. Le promettevano doni in cambio di fertilità e coraggio. Le sfioravano la pancia per chiederle una maternità abbondante. Erano le stesse che, nella legge non scritta di Fosco, pretendevano dai figli maschi il dovere della vendetta. Proteggevano la vita ma erano disposte a svenderla, in nome dell’onore. Se una madre aveva un morto ammazzato in famiglia, trasmetteva al figlio l’obbligo di sbarazzarsi di tutti i maschi che portavano il cognome dell’assassino.

La Madonna delicata veniva festeggiata la prima domenica di agosto. I pellegrini arrivavano dall’intera regione e dall’estero. Chi aveva i parenti emigrati in Australia o negli Stati Uniti, preparava la camera degli ospiti e riforniva i frigoriferi di provviste. Le strade del paese si riempivano di acconciature voluminose e accenti stranieri. I bambini circondavano i nuovi arrivati per avere cinquanta cents o un cappello da baseball con le scritte in rilievo. Gli stranieri sfoggiavano completi chiari, con le spalle imbottite e le cravatte dalle fantasie originali. Masticavano sigari e parlavano il dialetto dei vecchi, misto all’inglese. Le americane avevano forme generose e le portavano a spasso dentro gonne aderenti e camicette senza maniche: «Buttane sono,» dicevano i gnuri «ma quasi quasi nci’a dugnu na botta».

Rosario Rusto teneva lo sguardo sulla mozzarella tagliata a dadini: «Ehy, guy» lo stuzzicavano le donne. Se sorrideva, la moglie gli faceva la faccia asciutta: «Svergognato!» lo richiamava, e attaccava a denti stretti la preghiera dell’irredento: «O Gesù, che bruciate di un sì ardente amore per le anime, vi scongiuro di purificare mio marito e tutti i peccatori della terra».

Sul quaderno arancione di Irene, gli emigrati erano alieni con un occhio solo e il sedere imbottito di banconote da cento dollari. Al posto delle bocche, avevano forni a legna dai quali uscivano pizze, patate fritte, caponata e un insolito gusto della vita che la lontananza aveva regalato loro, insieme alla sufficienza con la quale guardavano Fosco che non cambiava mai. Never ever mai.

Alcuni stranieri, i più imponenti, si sedevano con zi’ Totonnu e i gnuri nel retro della pizzeria, dopo l’orario di chiusura. Fumavano sigari e bevevano il bourbon portato direttamente dalle Meriche. Giocavano a carte, dollari contro lire, e le lire erano sempre le più piccole, sempre le più accartocciate.

Per il pellegrinaggio, i fedeli partivano da Fosco in piena notte e si incamminavano divisi per famiglie. Zi’ Totonnu comandava il drappello, con Angiolino per la mano che piagnucolava per il sonno e la fatica. Nell’aria c’era l’aroma del caffè e delle ciambelle fritte, che le donne tenevano nei panieri e distribuivano lungo il cammino.

Il furgone targato ZH guidava il percorso. Lungo le portiere scendevano i paramenti azzurri e dal megafono uscivano preghiere e litanie.

Durante il cammino i pellegrini pregavano, sbadigliavano, lanciavano un piede davanti all’altro nella speranza di arrivare in fretta. Gli stranieri erano i più sudati e stanchi. Era la piccola rivincita dei locali: «Andate, andate nelle Meriche,» dicevano con il loro passo spedito «che poi i vizi vi tolgono il respiro».

Il giorno coglieva i pellegrini sulle pendici del monte. Addolciva il freddo e dava il tempo di abituarsi all’altitudine. Il sole spuntava da dietro gli abeti e i cerri. Di fronte, il mare. Tutt’attorno la terra arida e marina, insieme aspra e verdeggiante.

Il giorno del suo primo bacio, Irene indossava il vestito bianco che zia Bruna aveva cucito, come ogni anno, con la stoffa benedetta durante la benedizione natalizia che serviva a conservarla illibata.

“Che sciocchezza” pensava Irene, guardandosi allo specchio. Per lei la purezza stava nel bianco che le illuminava la pelle. Fece due giri in tondo, accarezzò la veste e slacciò il bottone del colletto. Brillava, ed era lei. Immersa nel bianco, avrebbe potuto peccare. Nessuno se ne sarebbe accorto.

Uscì di casa e si unì al corteo: «Chiudi il petto» la rimproverò la madre, ansimando per la fatica del cammino.

Irene si fece il segno della croce. Nel nome del Padre, del Figlio e. Il figlio inciampò e rimase impigliato tra i suoi seni di donna. La madre, dalla vergogna, distolse lo sguardo.

Durante il tragitto, molta gente si avvicinò a zi’ Totonnu per parlargli nell’orecchio, ma lui tirò dritto e restò concentrato sulla meta.

Nell’unica strada che conduceva al santuario confluirono i pellegrini dell’intera provincia. A un paio di tornanti dall’arrivo, si creò un ingorgo che obbligò a rallentare. Il sole era già alto. Le donne sventolarono i veli per asciugare il sudore dai visi stanchi, gli uomini fumarono e i bambini si aggrapparono alle gonne delle madri. I locali pregarono il Santissimo e gli stranieri invocarono il loro esotico God. Le voci dei fedeli si impastarono alle zampogne e ai tamburelli. Tutto era sacro e tutto era gente, in quella mischia di preghiere e balli. U mastru i ballu interruppe il rosario per chiamare la ronda e inaugurare un giro di tarantella: «Fora u primu» gridò, e scelse un uomo che lo sfidasse – mani alte, petto aperto e piedi svegli – in quella danza di coltelli immaginari. Le donne ballarono con le mani sui fianchi. Volarono sulle gambe grosse e sulle calze smagliate. Si mostrarono, si ritrassero ed ebbero, per un istante, il diritto di decidere del proprio piacere.

La musica si infilò nel santuario insieme ai canti. La confraternita più meritevole sollevò la statua della Madonna delicata, distribuendo il peso tra le spalle volenterose degli affiliati. Nelle loro tuniche bianche e azzurre, i confratelli portarono in trionfo la Madonna dall’altare al sagrato, dietro zi’ Totonnu che aveva l’onore di dare il passo alla processione. I pellegrini ricoprirono la statua di oro e centomila lire. Quando i confratelli sollevarono al cielo la Delicata, i fedeli esplosero in un applauso. La banda suonò con baldanza di trombe e tromboni, mentre i sindaci con le fasce tricolore al petto liberarono le colombe bianche.

La statua della Madonna delicata restò sul sagrato per l’intero pomeriggio e, attorno a lei, proseguirono le danze. Le preghiere scemarono soltanto all’ora di pranzo, sostituite dai brindisi e dai fumi delle grigliate. Era l’ora della soddisfazione: «È pronto» chiamò Nuzza, riunendo la famiglia attorno a salsicce e peperoni arrostiti. Irene disegnava. «Chiudi quel maledetto quaderno» la rimproverò la madre.

«Perché? Non mi guasta la fame.»

«Questo è sicuro. Si cchiù grossa i Peripla.» La scrofa di zia Cuncetta, che abitava ’nta muntagna.

Nel pomeriggio, zi’ Totonnu ordinò ai gnuri di seguirlo nel santuario. I carabinieri, che fino a quel momento avevano scortato il vescovo, seguirono a distanza, in cerca di qualcosa che non sarebbero riusciti a trovare. La gente si disperse tra i balli e il riposo. Lorenza e Gianna si addormentarono sulla coperta di lana dove Nuzza cullava u Prìncipi.

Rocco masticava pane e salame tra i rami di un castagno. Irene si voltò verso di lui e strizzò un panno bagnato sul petto. Lo fece lentamente, perché l’acqua scorresse dentro il vestito bianco. Si buttò sulle spalle uno scialle di cotone: «Dove vai?» le chiese la madre.

«In cima al monte.»

«A fare che?»

«A cogliere l’origano.»

Invece la ragazza si infilò dietro il chierico che chiudeva il portone del santuario. Rocco la aspettava, nascosto dietro l’ingresso. La prese a sé, la spinse delicatamente lungo la navata e, premendole la mano sul capo, la invitò ad accovacciarsi sotto una panca. I passi del chierico si allontanarono. L’aria era satura di incenso e dell’odore volgare degli esseri umani passati di lì per domandare. Le zampogne e i tamburelli risuonavano in lontananza, però la luce delle candele non danzava. Rallentava, correva, a volte si fermava. Si preoccupava soltanto dei due corpi nascosti sotto la panca: «Come sei bella» disse Rocco.

Lo sai?

Lui odorava di pane e salame, di sudore fresco e di emozione. Non ci furono altre parole. Le labbra si avvicinarono. Le labbra si dischiusero e afferrarono. Le labbra nelle labbra tremarono. Le labbra nelle labbra sorrisero. Le immagini che Irene era solita disegnare sul quaderno arancione si affollarono nella sua testa. Cavalli con le pinne, coccodrilli alati. Braccia fiorite, teste zoppe. Bocche ciliegie schiocchi e lo scalpitio di mani imbarazzate e sveglie. Un bacio era qualche cosa di importante, un’attrazione potente verso la vita.

In quel momento preciso e insieme lunghissimo, la sola cosa esistente era un mondo di luce dietro quattro occhi serrati.

Dalla sacrestia giunse, improvviso, il rumore sordo di una porta. Irene e Rocco aprirono gli occhi e si scostarono l’una dall’altro, per poi tornare a cercarsi. Mano nella mano, si sdraiarono sul pavimento e videro zi’ Totonnu che entrava in chiesa a passi grandi, in compagnia dei gnuri e di un gruppo di forestieri. Gli uomini attraversarono la navata centrale e non si fecero neppure il segno della croce.

Ma come, si risentì Irene. Fino a poche ore prima, la Madonna delicata era stata accanto all’altare. Poche ore più tardi vi sarebbe ritornata. Quando la chiesa era gremita di gente, zi’ Totonnu si inchinava fino a terra e i gnuri si battevano il petto con tutte e due le mani. Quel giorno, invece, gli uomini attraversarono la navata centrale immersi in un chiacchiericcio che aveva poco a che fare con la devozione. Non si inginocchiarono, non pregarono. Si infilarono nella porta che dava sul chiostro. Rocco provò a convincere Irene: «Andiamocene».

Se l’avesse costretta a scappare, i due avrebbero strisciato sul marmo color mattone fino a raggiungere la sacrestia, per poi sbucare all’aria aperta. Invece la ragazza si intestardì: «Restiamo. Sono usciti, non torneranno».

Si sbagliava. I gnuri rientrarono dopo pochi istanti: «Maledette guardie figghi i buttana, pensavano di farci fessi?» disse Totonnu. «Sigaretta!»

U spazzinu tirò fuori una nazionale e la infilò tra le labbra del vecchio. Arcuri si affrettò ad accendere. Zi’ Totonnu diede le spalle all’altare e, quando ebbe finito di fumare, buttò il mozzicone a terra: «Ci sono almeno trenta guardie sopra il tetto del chiostro. Non daremo loro la soddisfazione di partecipare ai nostri discorsi».

Gli uomini risero: «Basta» li zittì Totonnu. «Quello che è detto, rimane. Chi parla fuori da queste mura è infame e traditore. Avete capito bene?» chiese incamminandosi verso il fondo della navata. Irene seguì i passi del capo e dei gnuri. Rosario doveva essere tra loro. Irene immaginò la sua furia nello scoprirla sotto una panca del santuario, con il figlio di uno sparato: “Se ci trovano, è finita” pensò.

Lei sarebbe stata confinata a muntagna. Lorenza avrebbe preso il suo materasso e anche la sua parte di armadio. Si sarebbe impossessata dei sandali con il tacco largo e della sottoveste di pizzo della dote. Per fortuna il quaderno arancione era con lei. Poteva sentirne la consistenza, sotto la cintura del vestito.

I passi si fecero vicini, sempre più ingombranti. Totonnu si accomodò sulla panca e le sue scarpe schiacciarono l’orlo bianco di Irene. Il piede di Rosario strisciò fino alla faccia di Rocco, appiattita sul pavimento nel tentativo di farsi sottile. Uno dopo l’altro, i gnuri si sedettero sulla panca che nascondeva i due ragazzi. Irene vedeva le loro suole consumate dal tempo: “Zitta,” si diceva “non fiatare. Se ti muovi, se ti sposti, se starnutisci piagnucoli o fiati sei finita. E Rocco con te.”

«Allora, che cos’è questa storia?» chiese zi’ Totonnu ai forestieri in camicia e cravatta. Erano rimasti in piedi. Indossavano mocassini lucidi e senza stringhe.

«È soltanto un’idea.»

«Qui dentro, sono io il solo ad avere le idee.»

«Lo sappiamo, per questo siamo venuti a parlarvi. Si tratta di un affare da considerare. Non saremmo i primi: lo hanno già fatto.»

«Non sono le nostre regole.»

«Le regole cambiano.»

«Le regole sono di chi le fa.»

«Il tempo passa, zi’ Totonnu. Dobbiamo fare i conti con il presente.»

«Ccìtti. Siete uomini senza tradizione.»

Totonnu si alzò, mosso dal disappunto: «Vedete questa giacca?» disse. «E questi pantaloni? Li ho da quarant’anni. Mia moglie Bruna è una donna saggia. Per lavare i panni, usa l’acqua alla giusta temperatura e mette poca polvere, altrimenti la fibra si rovina. Bruna mi ha insegnato che bisogna avere la misura. Io pratico il suo consiglio, per questo la gente si fida di me. Mi conosce. Sono Totonnu, u bucceri. Nella mia bottega, tolgo l’osso prima di pesare. I clienti sono contenti. Questo non mi frega, pensano. Questo ha a cuore il bene suo e il bene nostro. Ve lo ripeto: non si può forzare la misura.»

«Zi’ Totonnu, l’affare ci porterà nu sacc ’e pila

«Eeeh, nu sacc ’e pila, nu sacc ’e pila... Vi mancano forse i soldi per mangiare? Non mi sembra. Guardatevi. Avete le pance gonfie e le cravatte di seta. Profumate come donnicciole di strada. E volete di più? Ancora? Ascoltate zi’ Totonnu, che ha il senno degli anni: cu mangia cu ddu ganghi, s’affuca

«Zi’ Felice vi manda a dire che abbiamo già deciso.»

«Che me ne importa? Voi a casa vostra, noi a casa nostra.»

«Vi sbagliate, Totonnu. Non dimenticate che ci dovete un favore. Sette morti ammazzati valgono una ricompensa.»

«Il sangue ha memoria. Siete qui a presentare il conto?»

«Zi’ Totonnu, le cose cambiano. Abbiamo l’acquisto grosso da fare, quello dall’altra parte del mondo. Se non paghiamo, ci bruciamo l’affare. Lo sapete anche voi, i forestieri vogliono i contanti.»

«Aspetteranno.»

«Non aspetteranno, venderanno a chi ha le tasche più piene.»

«Dite di no. Non si può fare.»

«Ma zi’ Totonnu!»

«Ho detto no. Non voglio più parlarne.»

«Ci spiace. Non possiamo più tornare indietro.»

«Io dico di sì.»

«Lo abbiamo già fatto.»

«Che cosa?»

«L’abbiamo presa ieri mattina all’alba. Era in casa con il marito. Abbiamo forzato la porta e l’abbiamo portata via così com’era, con la camicia da notte addosso. Ve la consegneremo questa sera, prima del tramonto. Noi Lorida siamo sotto gli occhi delle guardie e sapete anche voi com’è fastidioso avere attorno gente che si impiccia. Nascondetela per noi, fino a quando la situazione non si sarà raffreddata.»

Zi’ Totonnu si alzò in piedi. Da sotto la panca, Irene vide le suole sporche di fango: «Di quanto?».

«Cosa?»

«Di quanto è?»

«Sei mesi e una settimana.»

«Ha pianto?»

«Perché, è importante?»

«Bruna, a quel tempo lì, stava nel letto a riposare.»

«Totonnu, l’età vi fa sentimentale. A voi spetta la custodia della donna. Vi salderemo il disturbo. Se il marito non paga, saremo noi a trasferirla e a cedere il credito legato al riscatto. Vista la situazione, però, i soldi arriveranno in fretta. Il marito pagherà di tasca propria o chiederà aiuto al suocero. Al vecchio non mancano i quattrini. Così potremo saldare i forestieri e far partire il carico. È roba grossa, roba internazionale. Se l’affare va bene, facciamo il salto e vi portiamo appresso. Non possiamo tirarci indietro. Vi ricordate, zi’ Totonnu? Dovete restituire un favore.»

«Che avete in testa, disgraziati! Nel giro di una settimana arriverà l’esercito. La regione si riempirà di guardie. Si impicceranno degli affari vostri, e anche dei nostri. Non ci avete pensato?»

«I vantaggi sono superiori ai rischi.»

«Andatevene.»

«Zi’ Totonnu...»

«Ho detto: andatevene! Via anche voi, gnuri inutili e ignoranti. Via, ho detto.»

Le bestemmie di zi’ Totonnu profanarono il santuario. Una panca volò dal fondo della chiesa fino all’altare laterale, quello dedicato a san Giorgio. Il drago tremò sotto il piede del santo che, impaurito, scese dal piedistallo e andò a rifugiarsi dietro il tabernacolo. San Cirillo lo seguì, caricandosi in spalla un Cristo impacciato dalla croce. Gli apostoli si nascosero sotto la tavola dell’Ultima cena. Santa Marina si trascinò appresso il piccolo Fortunato e trovò riparo in sacrestia. La colomba dello Spirito Santo volò da una parte della navata centrale e i gigli bianchi si gettarono a terra, decisi ad appassire: “Adesso tocca a noi” pensò Irene. “Zi’ Totonnu prima ci scopre e poi ci ammazza.”

Invece all’improvviso tutto tacque.

Il vecchio uscì dal santuario.

Irene e Rocco ricominciarono a respirare.