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A Rocco piaceva il sorriso. Quello di Irene più di tutti, e quello che lui stesso riservava alla sua giornata. Doveva nasconderlo, per non destare sospetti. Lo teneva impacchettato sulla faccia, legato da un nastro color corallo. A volte lo liberava. Il sorriso si apriva. Si espandeva fino a mostrare i denti. La vicinanza di Irene gli dava piacere. Lei si sedeva sul balcone con la gonna infilata tra le ginocchia e sventolava gli orli per farlo entrare tra le sue gambe esposte. Rocco guardava, Rocco desiderava. Irene gli chiedeva tante cose: «Com’è fatto il mondo?».

«È piatto e sa di formaggio.»

«Si può mangiare?»

«In un boccone. Basta aprire la bocca e masticare.»

«Com’è fatto il mare?»

«È una casa senza pavimento, fresca d’estate e accogliente d’inverno.»

«Hai mai visto la fine del mare?»

«Non esiste la fine del mare.»

«Com’è fatto il cielo?»

«È un pane di olive e stelle.»

«Perché cambia colore?»

«Per non annoiare.»

Rocco aveva sentimento e senno. Baciarlo nel santuario della Madonna delicata, per Irene era stata una disobbedienza destinata al ricordo. Per tutta la vita sarebbe salita lungo le pendici del monte, sarebbe entrata a pregare e avrebbe ripetuto a se stessa che sì, lei lì dentro aveva fatto qualche cosa di importante. Qualche cosa di suo.

Irene provava per Rocco l’amore gentile di cui sono capaci gli innocenti.

«Sgualdrina» la insultava la madre. Era diversa da lei e, quindi, irriconoscibile. Assomigliava alla nonna paterna, che aveva le gambe corte e il busto tornito. Aveva le cosce piene e il petto sfrontato, poco adatto alla sua età. L’abbondanza era la certezza della differenza. Nuzza era ossuta e secca e verde di poca luce. Irene invece era il giorno che nasce e l’appetito del mattino: «Svergognata» le diceva la madre. «Copriti che c’hai gli occhi addosso.» Sempre con la matita in mano, sempre con la testa altrove, così maledettamente densa di carne e polpa.

Nuzza mandava Irene da Totonnu, a comprare il filetto per u Prìncipi. Nella macelleria faceva sempre freddo. Dal neon arrivava un chiarore azzurrognolo che abbruttiva le espressioni. Le carcasse appese al soffitto avevano il colore viola del martirio: «Che ci fai qui tutta vestita?» la rimproverava lo zio. «Togliti quel foulard di dosso. Il freddo conserva e fa campare cent’anni, non te lo scordare.»

Bruna abbassava gli occhi. Il vecchio sfilava il foulard dalle spalle della nipote, sfregava due coltelli per affilarne le lame e grugniva da animale.

Irene infilava la porta e scappava correndo.

«Dove vai?» gridava Totonnu. «Hai scordato il filetto per tuo fratello.»