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Irene e Rocco affidarono ad Angiolino il compito di vigilare sul loro primo bacio. Lei si era raccomandata: «Sarai il nostro palo. Ci aspetterai sul sagrato e, in caso di pericolo, batterai tre volte sul portone del santuario. Hai capito?».

«Certo che ho capito.»

Lino si era preparato davanti allo specchio del bagno. Era il custode ufficiale di un grande segreto e, in quanto tale, doveva tenere le spalle ben aperte e il mento sollevato. Doveva guardarsi attorno in maniera circospetta, con movimenti sicuri e impercettibili. Solo in caso di pericolo, doveva battere tre colpi con il bastone che usava per il pellegrinaggio.

Quale fosse il grande segreto da custodire, però, Lino non lo sapeva: «Perché volete restare soli nel santuario?» aveva chiesto ai due amici.

«Facciamo un voto alla Madonna» gli aveva detto Irene. Rocco aveva riso e dal suo volto, in quel momento, era passata un’espressione vicina all’imbarazzo.

Angiolino era pronto a rinunciare alle lungaggini e alle lamentele che di solito accompagnavano il risveglio notturno. Totonnu non l’avrebbe rimproverato, non gli avrebbe detto: «Svegliati, disgraziato, ché la Madonna non aspetta».

Invece, proprio quell’anno Lino saltò l’impegno e l’intera processione. Non salì al santuario. Non fu l’angelo del portale e neppure il custode del presente. Il padre entrò in camera sua, la notte prima del pellegrinaggio, richiamato da un eccesso di musica e allegria. Lo trovò dentro un abito a balze con la scritta PRINTEMPS ricamata sul petto, indossato per sbaglio dalla madre in gioventù e confinato in un cassetto. Lino si era dipinto le labbra di rosso e si era sistemato un foulard in modo che sembrasse una treccia di capelli corvini.

«Che fai, scostumato?» si era scandalizzato Totonnu.

«La Carmen, papà. L’ho vista in tv, l’altro ieri notte.»

«La Carmen?»

«Sì, la zingara. La cantante.»

«Ma che zingara e che cantante, sei la vergogna del mio cognome!»

Il vecchio aveva afferrato Lino per il braccio: «In bagno, subito!». Lo aveva costretto a lavarsi la faccia con l’alcol puro e a bruciare di suo pugno i vestiti del peccato, dentro la pentola che Bruna usava per cuocere il cavolo cappuccio.

Prima di partire per il pellegrinaggio, lo aveva legato al tavolo della cucina con una corda di iuta e gli aveva apparecchiato davanti al naso un vassoio con i dolci tradizionali della festa: «Guardali bene». La corda gli tagliava la carne: «Sono dieci biscotti e una ghirlanda. Al mio ritorno, voglio contare dieci biscotti e una ghirlanda. Se mancherà anche soltanto un pezzo, salirai alla Madonna delicata strisciando con la lingua. Ti faccio passare io la voglia di vestirti da femmina. Hai capito?».

«Ho capito.»

«Hai capito?»

«Sì.»

Totonnu andò alla porta.

«Patri?»

«Che c’è?»

«E se mi scappa da pisciare?»

«Falla nelle braghe.»

Lino rimase legato al tavolo, con la faccia nei biscotti. All’inizio il profumo gli dava ripulsione. Gli ricordava la madre, china a sbattere zucchero, farina e uova per il piacere del marito che, invece di mangiare, si ingozzava senza masticare. Poi il caldo si fece sentire e, con l’afa, arrivarono la sete e l’appetito. A Fosco non era rimasto nessuno: «Oh!» gridò.

La sua voce risuonò nella stanza e tra i vicoli deserti del paese.

«Oh» ripeté.

Lo fece per distrarsi.

Non aveva nessuna speranza di essere ascoltato.

Guardò davanti a sé. I biscotti all’uovo erano rotondi. Su alcuni di essi la madre aveva messo dei fiori di cioccolato celesti, in onore della Madonna delicata. La ghirlanda al sesamo aveva una pancia sul lato destro. Lino tirò fuori la lingua e leccò la deformità, nella speranza di ricondurla alla norma. Forse il padre non se ne sarebbe accorto. Contò da uno a centomila e da centomila a uno, per ingannare il tempo. Cantò a voce alta, fino a farsela mancare. Non ti fidar di un bacio a mezzanotte. Pensò al clima, alla Carmen e alle canzoni degli anni ’50 che piacevano alla madre. Si ricordò di Irene e Rocco, e si maledisse per non aver spiegato loro il perché della sua assenza. Di certo Irene aveva chiesto di lui: «Zi’ Totonnu, Angiolino dov’è?».

«A maturare.»

Gli venne da pisciare. All’inizio serrò le cosce e saltellò sulle natiche. Si strinse l’uccello tra le gambe e premette forte, per fiaccare l’istinto. Ahi che dolore, ma almeno lo sforzo gli fece dimenticare la fame.

Poco prima delle cinque del pomeriggio, la porta di casa si aprì. Il padre entrò sbraitando: «Bruna! Sbrigati! Metti via il rosario e fammi una limonata bollente». Il vecchio era tornato in anticipo dal pellegrinaggio, e sembrava avere la testa piena di fastidi.

«Patri!» chiamò Angiolino.

Totonnu sparì in camera e la moglie, al seguito, poggiò il foulard e la borsa sul divano. Si precipitò in cucina, aprì l’acqua e si mise a spadellare. Il rubinetto ebbe un effetto deflagrante: «Patri!» chiamò Angiolino a voce alta, per farsi sentire fin nell’altra stanza. «Ho avuto giudizio.»

La madre andò su e giù per la dispensa come se il figlio fosse inesistente. Lino incrociò le gambe e buttò gli occhi al cielo: «Patri, per favore! Devo pisciare».

Contò fino a cento pecore, fece un fioretto alla Madonna delicata, saltellò da una chiappa all’altra nella speranza di distrarsi.

Alla fine si arrese. Rimase zitto e la lasciò andare. Il rivolo fumante imbrattò i pantaloncini, strisciò lungo le cosce e si allungò fino alle ciabatte della madre. Un rigagnolo, un ruscello, un fiume dal letto irregolare. Un balzo, una cascata e infine un ingresso deciso nel mare: «Che fai, disgraziato» si infuriò Bruna. «Totonnu, vieni a vedere. U figghiolu se l’è fatta nelle braghe!»

«Chi se ne fotte» gridò l’uomo dalla camera da letto. «E muoviti con la limonata, che mi si spacca il cervello.»

Nei giorni successivi il vecchio non si fece più vedere in paese, con la scusa misera di una malattia: «Donna Bruna, come sta Totonnu?».

«Ha l’influenza fuori stagione.»

Le serrande della macelleria restarono abbassate e la gente mormorò di un fatto grave, successo durante il pellegrinaggio. Una chiacchiera di troppo, un invito, forse una pressione? Il capo aveva lasciato il santuario prima della benedizione e la Madonna delicata – sacrilegio – si era ritrovata orfana del suo saluto finale. Seduti al bar della piazza, gli uomini chiacchieravano inquieti. Una cosa del genere non si era mai vista. La terra gira, le api fanno il miele e zi’ Totonnu c’è e comanda. Questa è la natura. Non si cambia.

Ogni due ore, Rosario usciva dalla pizzeria con i pantaloni bianchi di farina e uno straccio bagnato in testa: «Ancora niente?» domandava ai gnuri.

«Dice che ha l’influenza fuori stagione, di ritornare.»

Rosario chiedeva a Irene: «’Ngiulinu che racconta?».

Dice che suo padre è un prepotente. Lo ha legato alla sedia. Gli ha storto un braccio e gliel’ha fatto livido, a furia di botte: «Sono tre giorni che non lo vede».

«Pure lui?»

«Pure zia Bruna. Gli lascia la cena fuori dalla porta e va a dormire sul divano. Lui non ce la vuole, nel letto.»

«Oh Beata Vergine. La fine del mondo sta arrivando. Preghiamo, Irene. Preghiamo.»

La notte stessa, Rocco caricò Angiolino in spalla e lo portò su per la grondaia, fino al tetto del magazzino: «Ti fa male?» gli chiese sfiorandogli il braccio.

«Soltanto se piango.»

«E allora ridi.»

«Infatti rido.»

Per trasformare la prepotenza, bisognava canzonarla.

Irene aspettava gli amici con la schiena appoggiata all’abbaino: «Come stai?».

Angiolino mostrò il braccio: «Benissimo».

«Cosa è capitato?»

«Facevo la Carmen, invece Totonnu pensava che gli facevo un dispetto» disse sedendosi accanto alla cugina.

«Non gli piaceva la Carmen?»

«Per niente. Per punizione, a settembre mi manderà in collegio. Vuole che studi da meccanico. Quello è un mestiere, dice, un mestiere da masculu con la fatica del fare.»

Silenzio.

«In collegio ci sono i barnabiti. C’è anche un coro. Forse mi faranno cantare.»

Silenzio.

«Be’, tutto qui? Non siete contenti per me?»

No, Irene e Rocco non erano contenti. Erano quello che gli altri decidevano che fossero. Quella notte Angiolino non cantò e i grilli, lì attorno, si domandarono il motivo di tanto tacere. I tre amici stavano diventando grandi, insieme al dubbio che la ragione e il torto fossero questione di appartenenza. Non avevano scelto i loro cognomi, ma forse c’era un modo di decidere almeno delle proprie esistenze. Irene, a Rocco, lo amava e lo avrebbe lasciato libero di andare. Se lui le avesse detto «Me ne vado e non ritorno», lei non avrebbe dubitato.

«Vai» lo avrebbe incoraggiato.

Siamo quello che scegliamo di essere.

La luna splendeva, bocca all’ingiù e semicerchi a segnare la tristezza. L’indomani avrebbe cominciato a calare.