Irene si portava addosso un peso e una preoccupazione. I Lorida avevano rapito una prena e chiedevano ai Rusto di nascondere la donna. C’era qualcosa di sbagliato in quel segreto che non si doveva raccontare, per non fare sgarbo a zi’ Totonnu. La Madonna delicata era una madonna incinta. Era adorata, servita, rispettata. Guai a nominarla invano o a mancarle di rispetto. Una prena di carne, invece, valeva meno agli occhi di Dio e si poteva prendere e spostare. Si poteva privare del pane, della luce, del figlio che si portava appresso. Irene aveva visto suo padre dentro il santuario e sapeva che era complice della scomparsa. Se Nuzza ne fosse stata al corrente, avrebbe dato ragione ai gnuri ché «hanno la testa buona e si sanno portare». Si sentiva inquieta, come se quella faccenda avesse a che fare con un peccato mortale.
Voleva parlarne a Lorenza. Era cresciuta con lei e, nonostante i litigi e gli sgarbi tra sorelle, era la sola alla quale aveva rivelato il nascondiglio dei quaderni arancioni. Sapeva che lei non l’avrebbe tradita. L’unica preoccupazione era l’incapacità della sorella di accettare i fatti: «I gnuri hanno rapito una prena».
«Una prena?» avrebbe domandato sputando fuori gli occhi a palla. «Non è possibile, non si può.»
Una donna incinta è un frutto appeso all’albero, è una Madonna delicata da adorare. Persino zi’ Totonnu si era indignato davanti alla provocazione ed era rimasto in bilico tra l’agire e il rifiutare. Lorenza era più giovane di Irene, ma aveva un senno particolare. Di certo sarebbe filata dritta alla macelleria, per chiedere conto al vecchio delle sue intenzioni: «Pentiti» gli avrebbe detto, puntandogli contro il dito indice. E i gnuri l’avrebbero presa per i capelli, legata a un albero e infilzata con un ferro rovente.
Lorenza aveva coraggio e lo dimostrava dal modo in cui scendeva la vecchia scala che non portava al mare. Si sporgeva al principio del dirupo e si concentrava sul primo scalino. Metteva il piede a destra e bilanciava il peso a sinistra. Si lanciava sul successivo, che mancava del piano orizzontale. Si appoggiava ai residui di cemento e via, un salto alla volta, calcolando la tenuta di ciò che restava in un gioco di spostamenti calibrati. Poteva addirittura scendere e correre senza farsi male. Teneva le ginocchia alte. Lo aveva imparato nel pollaio di zia Cuncetta, che stava ’nta muntagna. Le galline alzavano una zampa e la portavano al petto, prima di ricadere con delicatezza sul terreno. Lorenza sollevava un ginocchio alla volta e saltellava in punta di piedi. Giunta alla fine della scalinata, correva nell’acqua con l’orlo della gonna ficcato dentro la cintura. Guardava i rari panfili con le straniere nude, appollaiate sulla prua: «Buttane» diceva, come faceva Nuzza davanti alle femmine che mostravano la carne. Non era l’espressione della madre, la sua: erano soltanto le stesse parole. Si arrabbiava perché quelle donne erano nel mare.
Nel suo mare.
Lei, invece, si doveva accontentare della riva e non lo poteva accettare. Aveva un’idea personale di che cosa fossero il bene e il male. Il male era la rassegnazione. Il bene aveva a che fare con la coerenza. Non si trattava di essere conformi a una legge o una mentalità: era questione di scegliere ogni volta il proprio modo di stare nel mezzo, valutando l’insieme.
«Se tu fossi un angelo,» aveva chiesto una volta alla sorella «chi butteresti giù dalla scala che non porta al mare?»
«Gli angeli non buttano nessuno giù dalla scogliera» le aveva risposto Irene.
«Lo dici tu.»
Aveva il piglio secco di un’adulta e la frangia di un’adolescente educata.
Prima di conoscere Rocco, Irene le raccontava tutti i suoi segreti. Ho trovato mille lire e le ho nascoste nel libro di geografia. Sono stata con Lino sulle mura del castello. Mi è venuto il sangue e muoio. Di lui, però, era stata incapace di parlare. Ogni volta che provava a spiegare, le sembrava di tradire. Lorenza aveva capito. Si limitava ad aspettarla, la notte, di ritorno dalle sue fughe sul tetto: «Sei tu?» le chiedeva sentendola socchiudere la porta.
«Sono andata sul terrazzo sopra il magazzino, a vedere i sogni» avrebbe voluto dirle Irene. Perché i sogni esistono e si possono addirittura sfiorare.
Invece le mancava la voce. Si infilava nel letto e si girava su un fianco.
No, non le avrebbe detto nulla della prena. Mettere Lorenza a conoscenza di un segreto equivaleva a pensarlo. Significava privarlo della sua parte di emozione, disgraziata e tenera.