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Il prolungarsi della presunta malattia di Totonnu portò i primi malumori, che cominciarono a circolare tra gli abitanti di Fosco insieme ai chiacchiericci. Qualcuno si stancò di aspettare e si radunò davanti alla casa del vecchio. Girarono bicchieri di orzata e granite al caffè. Comparvero sedie pieghevoli e persino qualche ombrellone. Le donne si organizzarono con fette di pane nero e melanzane sott’olio. Peppantoni u citrata sistemò i tavolini del bar davanti alla casa del capo e servì caffè nero senza zucchero.

«Donna Bruna» si informarono i più arditi, aggrappati al davanzale della finestra. «Ci sono novità?»

«La febbre è scesa, ma lui resta debole.»

«Certo, l’influenza fuori stagione è la peggiore che esiste.»

La gente fingeva di credere al malanno, ma sapeva che la febbre era una scusa. I Lorida avevano fatto la voce grossa e Totonnu si era risentito. Doveva scegliere se accettare o rifiutare la decisione di Felice, che stava diventando troppo influente. Gli accordi tra famiglie smettevano di funzionare non appena i confini si allentavano. Nessuno aveva dimenticato l’agguato di qualche anno prima. Totonnu si godeva la domenica nel suo campo di olive quando uno dei Torsi gli aveva puntato una pistola contro. Il vecchio si era salvato ma i Lorida, da quel giorno, vantavano un credito da riscuotere. Coinvolgere Totonnu nell’affare della prena offriva l’occasione del risarcimento: «No» si opponeva il vecchio. C’erano dei limiti precisi. Decenze da rispettare. Una donna incinta era una Madonna delicata e non si doveva toccare. Se avesse accettato di nasconderla, avrebbe distrutto l’idea che aveva di se stesso: «Non si può forzare la misura». Se non avesse accettato, però, lo avrebbero spazzato via. I Lorida dicevano di voler guardare avanti. I loro cotrari andavano all’università, sapevano l’inglese e discutevano di cose che lui nemmeno immaginava. C’erano paesi, al di là dell’oceano, pronti a dare. In cambio però chiedevano a pila. I soldi. Tanti e subito. Puntuali. Il marito della prena avrebbe pagato. Niente vale più di una vita che racchiude un’altra vita. Dopo il colpo, i Lorida e i Rusto avrebbero cambiato stile. Basta affari tra poveracci. Il denaro proveniente dal riscatto serviva a fare il salto. Di quale salto parlano, questi disgraziati?

Totonnu si era preso il lusso di pensarci. Nella solitudine della sua stanza, sentiva il peso della vecchiaia. Le giunture appesantite e un’artrosi incipiente non gli permettevano il piacere di perdersi in fantasticherie. Era troppo stanco per osare.

Si rigirò nel letto.

Le persiane chiuse.

L’assenza di colore.

Il ticchettio della sveglia a molla, con il dorso color verde acqua e una gallina che beccava il grano tra le lancette.

Aveva poco tempo per decidere e lo avrebbe consumato piano.

Totonnu si coprì la testa con il lenzuolo di cotone che aveva perso la fragranza del bucato. In quel bozzolo fiorato c’era lui nel presente, così come si conosceva. Come era sempre stato. C’era lui nel futuro: un mucchio di ossa senza erede. Angiolino non era all’altezza del cognome. Tutta colpa di Bruna e di quelle canzoncine cu fìciru diventare ricchiuni.

Lo stomaco bruciava. Il gusto acido dei pasti consumati in fretta gli guastava la bocca. Si liberò dal lenzuolo. Pensò, pregò, cambiò idea, si ricredette. Non poter scegliere delle proprie azioni era la peggiore delle condanne e lui non c’era abituato.

Intanto le ore passavano e i Lorida aspettavano una risposta: «Allora, zi’ Totonnu» mandavano a dire tramite certi bigliettini infilati dentro due forme di pane al sesamo, omaggio per il malato con i migliori auguri di pronta guarigione. «Vi siete deciso? Vi diamo ancora tre giorni.» Poi vi facciamo la guerra.

Mi fate la guerra?

Sono io che vi faccio la guerra.

Si girò su un fianco.

Ma ho le ossa stanche e un peso sul petto che non mi fa riposare.

Si girò sull’altro fianco.

Ho bisogno di vedere il sole. Ho bisogno di respirare.

«Bruna» urlò come svegliandosi da un brutto sogno.

Spalancò gli occhi e si asciugò la fronte sudata. Buttò a terra i piedi scalzi. In canottiera e mutande, aprì la porta e si affacciò sulla soglia: «Il caffè!» tornò a gridare.

Aveva le guance punteggiate di barba e la carnagione malata. Aprì le persiane e vide i compaesani, accampati sotto le sue finestre: «Ah» disse. «Siete qui.»

Poi, rivolto alla cucina: «Bruna, che fai? Dormi? Metti a scottare il pane vecchio, ché ho la fame di un risorto!».

Totonnu tornau, si udì per le strade.

Tornau tornau.

Totonnu tornau.

Per riportare il paese alla quiete, Totonnu tornò alla quotidianità. Bevve il suo caffè, si spennellò la faccia con la crema da barba, passò il rasoio avendo cura di non ferire le guance smagrite dal tormento di quei cinque giorni di ritiro. Alle otto in punto sollevò la saracinesca della macelleria, si infilò il grembiule e affilò un paio di coltelli. Il mangiacassette di Bruna riprese a cinguettare di lune a mezzanotte: «Bruna» si lamentò il vecchio. «Smettila di arricchiunirmi.»

«Perché perché, la luna a mezzanotte» canticchiò la moglie, piegando la messa in piega a destra e a sinistra nel tentativo di tenere il ritmo.

Fuori dalla bottega, lo scirocco ricominciò a soffiare. Peppantoni u citrata sistemò i tavolini all’ingresso del bar e gli uomini si affrettarono a ordinare caffè doppio senza zucchero. La gente confluì da tutti gli angoli della piazza e si raccolse davanti alla vetrina. Si mise in fila davanti all’entrata, con la scusa di comprare due fette di manzo e un’occhiata curiosa. I gnuri si fecero largo ed entrarono in macelleria, per poi sparire nella cella frigorifera insieme al capo. Ne uscirono venti minuti dopo, con le labbra violacee e la fretta di partire. U spazzinu allontanò i curiosi: «Via» disse. «Tornate a casa vostra. Qui c’è da lavorare.» Inforcò l’Ape color carta da zucchero e tirò dritto per la strada principale.

«Va a San Rotondo» mormorò la gente. «Ad avvisare.»

Il ritorno del capo portò un’allegria incerta. Sul quaderno arancione, Irene disegnò una torta di compleanno con la candelina spenta e un pubblico misero, obbligato alla festa.

Era evidente a tutti.

I Lorida avevano lanciato una sfida e zi’ Totonnu aveva indugiato. Era un peccato mai commesso, una disillusione. Un capo aveva il dovere della certezza o quello, più necessario, della menzogna.

Invece lui si era messo a zoppicare. Qualsiasi decisione avesse preso, sarebbe sembrata parziale e insufficiente.

Per questo le cose faticavano a tornare all’ordine, nonostante l’apparente ritorno alle abitudini. Totonnu faceva come se nulla fosse stato. La mattina apriva il negozio, la sera giocava a carte nel retro della pizzeria. La domenica indossava i pantaloni da campo e si accaniva contro le mosche delle olive. Gli abitanti di Fosco continuavano a chiedergli favori perché Totonnu parlava la stessa lingua e poteva capire. La gente non aveva smesso di andare in chiesa – era un dovere – ma sapeva che Gesù Cristo fa un miracolo su un milione. Totonnu invece... Lui esisteva. Era padre ed era eterno.

Il fatto che avesse indugiato, però, lasciava intravedere la sua natura umana. Chi dubita, vive. Chi vive, muore. Di certo da qualche parte esisteva già un altro capo, più potente, più capace e forse addirittura immortale. Ciò suggeriva una possibilità che metteva in subbuglio i corpi e gli animi: Fosco non era u centru du mundu.

Che bestemmia, che mortificazione. Fosco non era il centro del mondo?

No, affermavano i cotrari di San Rotondo che, a bordo dei loro motorini, invadevano ogni giorno la piazza con la sfacciataggine di un’altra, più robusta protezione. No no, i cotrari si sbagliavano. Totonnu tornau e avrebbe zittito i forestieri. Avrebbe sgozzato il maiale e tracciato un cerchio di sangue attorno a Fosco, per renderlo inespugnabile. Ci sarebbe stata l’abbondanza, ci sarebbe stato di che mangiare.

Eppure qualche cosa bolliva sotto la superficie degli sguardi e indicava un pericolo imminente.

Persino Rosario tentennava. Il cugino si era permesso di sparire e di lasciarlo da solo, ad affrontare l’invasione dei Lorida. Da lì a poche ore, il paese sarebbe stato espugnato. I Lorida avrebbero imposto la loro presenza e avrebbero cancellato le abitudini, le certezze, il flusso naturale degli ordini. Totonnu avrebbe dovuto accettare subito la proposta di nascondere quella donna, quella gran buttana. Invece i suoi dubbi avevano fatto tremare il paese intero. Rosario doveva difendersi, doveva agire. Per proteggere il suo microscopico mondo, sprangò gli ingressi e le finestre di casa. Fermò le persiane. Spinse una credenza contro l’uscio principale e ordinò il coprifuoco alla famiglia: «Tutti a letto, dal tramonto fino all’alba».

«Non posso» protestò Irene. «C’è la pizzeria. Devo lavorare.»

«Sono io che decido di te.»

«Patri, che vi prende?»

«Nulla.»

«Guardateci. Stiamo peggio che in prigione.»

«Obbedisci e taci.»

«Cosa succede?»

«Ho detto: obbedisci e taci.»

«No.»

«Fai quello che ti dico o ti lego al letto con queste mani.»

Sul quaderno arancione spuntarono una fila di sbarre e le sorelle Rusto come elefanti tristi.

Durante la prima notte di quell’assurda prigionia, Irene si accanì sul lucchetto che bloccava la finestra della camera da letto. Rocco la aspettava sul tetto del magazzino e lei voleva andare.

«Torna a letto» le disse Lorenza. «Il ferro non si rompe con le mani.»

«Tu che ne sai?»

«Non sono più una bambina.»

«Che peccato.» Come me, sei destinata alla nostalgia.

La ragazza diede un calcio alla parete e spinse la porta chiusa. Si attaccò alla maniglia della finestra, nel tentativo di forzarla.

«Vai a dormire» ripeté Lorenza.

«Fùttiti

Nonostante lo sforzo, dovette rinunciare. Non era più possibile uscire di casa. Da quella notte, smise di incontrare Rocco sul tetto del magazzino e, per vederlo, dovette accontentarsi del giorno. Mentre lui impilava le casse di birra Lido, lei apparecchiava i coperti. «Sbrigati» diceva il padre. «Piega il tovagliolo a ventaglio e mettilo nel bicchiere. Il coltello a destra» e la pazienza tutta intorno, a decorare. Il desiderio era un temporale estivo, che promette di arrivare. Nessuno, oltre a loro due, sapeva cosa fosse una mano che sfiora, un occhio che cerca, un sorriso che si traveste da indifferenza per non doversi svendere.

Irene, le sussurrava Rocco spazzando il pavimento, le stelle hanno figliato. Che dici? Stanno in cielo. Tra poco scenderanno sulla terra e noi le potremo mangiare. E se ci vengono addosso? E se ci fanno male? È impossibile: le stelle sono come i ficarazzi, cadono dalla pianta e si lasciano ammaccare. Mi manca il tuo corpo, mi manca poterti accarezzare.