Irene ne era convinta: il militare aveva «la faccia da Pascàli». Si chiamava così, Pascàli, un cugino di secondo grado di Nuzza, emigrato in Australia e tornato a Fosco da turista, con una foto di trent’anni prima in mano e i chili in eccesso dovuti al benessere. Pascàli e il militare condividevano lo stesso stupore. Non riuscivano a capire come mai gli abitanti di Fosco non fossero in grado di apprezzare l’evidente: «Una scala che non porta al mare?» si scandalizzavano. Per entrambi era un peccato mortale. Una scala del genere era un braccio sano che non voleva funzionare.
Irene si consultò con Rocco, intento a spazzare il pavimento della pizzeria: «Quando ne parlava, il militare si faceva tutto rosso. Non lo poteva accettare.»
«Non ha altro a cui pensare.»
«E se avesse ragione lui? Vedere il mare senza poterlo toccare è un atto di debolezza. La natura fa di tutto per dirci che esiste. Senti.»
La risacca sbatteva contro la scogliera. Irene si avvicinò alla finestra e disegnò un’onda sulla patina di sale che il mare depositava sui vetri. Lorenza disubbidiva ai divieti e si lanciava volentieri giù per il dirupo. Lei la seguiva, ma con meno convinzione. Il militare con la faccia da Pascàli si sarebbe indignato per quel comportamento stanco.
Rosario entrò nella stanza: «Allora, si perde tempo in chiacchiere?» la rimproverò. Contò l’incasso della serata, si ficcò le banconote nel grembiule e tornò nel retro.
«Dobbiamo rimediare» disse Irene.
«A che cosa?»
«Alla distanza.»
«Noi non abbiamo colpe.»
«Certo che le abbiamo. Restiamo sugli scogli e ci accontentiamo di guardare. E quando finalmente scendiamo al mare, lo facciamo di nascosto. Entriamo in acqua con tutti i vestiti addosso. Controlliamo a destra e a sinistra per paura che qualcuno possa andare a raccontare a Totonnu la nostra disubbidienza.»
«Così ci hanno insegnato.»
«Non ce l’hanno insegnato. Ci hanno detto: è così e basta. Io voglio una scala che mi porti al mare. La voglio per me, per l’allegria delle mie giornate. E la farò.»
«Certo, sul tuo quaderno arancione.»
«Prima sul mio quaderno arancione, e poi lungo il dirupo che scende alla spiaggia.»
«Non ne saresti capace.»
«Lo dici tu.»
«Ci vuole mestiere.»
«Due assi di legno e un po’ di buona volontà saranno sufficienti.»
«Chi minchiati.»
«Siamo in tre, faremo in fretta.»
«In tre?»
«Tu, io e Angiolino.»
«Certo, non vediamo l’ora.»
«Quando cominciamo?»
«Irene...»
«Fidati. Dobbiamo solo iniziare.»
Quando Irene voleva qualche cosa da Rocco, gli entrava dritta dentro i sentimenti. Si aggrappava ai suoi dubbi e faceva una carezza là dove il buonsenso suggeriva di frenare. E lui, sasso su un pendio, si sentiva rotolare. La storia della scala era una follia. Assomigliava a un capriccio.
«Rosario sta tornando. Sbrigati a sparecchiare.»
«Io non faccio proprio niente. Me ne sto qui con le mani in mano e aspetto una risposta.»
«La risposta è no.»
«Allora mi metto a disegnare.»
«Che cosa cambia?»
«Tutto.»
Aprì il quaderno arancione e disegnò Rocco con il naso a punta e le scarpe da gigante, incollate alla piazza deserta di Fosco.
«Guarda come sei» gli disse Irene.
«E come sono?»
«Uguale agli altri.»
Le sue insistenze durarono una settimana. Non ci vengo più con te sul tetto del magazzino. Nella vita ci vuole impegno. Aveva ragione il militare, che scandalo una scala che non porta al mare.
Ettore Buoi aveva insegnato a Rocco l’ubbidienza. Il giorno della sua morte, Arcuri u ragiuneri era passato dalla bottega: «Il capo ti vuole vedere» gli aveva detto. «Ti aspetta a mezzanotte dietro la curva delle guardie.» Lui non lo aveva neppure guardato. Aveva finito di fissare il cursore di una cerniera che aveva chiuso in fretta. Quella sera, prima di lasciare la bottega, si era raccomandato: «Qualsiasi cosa succeda, abbi cura di tua madre».
Disobbedire, per Rocco, significava deludere il padre e il ricordo della sua voce che gli diceva cosa fare. Eppure Irene era così bella. Correva a piedi nudi lungo le mura del castello, con ’Ngiulinu attaccato alle sue gonne scanzonate. Soltanto lungo il dirupo dubitava. Non aveva la sicurezza di Lorenza. Metteva le mani a terra, per non inciampare, e avanzava strisciando, un passo per volta. Non gli piaceva vederla esitare.
«Va bene» le disse. «Costruiremo la scala che porta al mare.»
La notte stessa Rocco rubò due sacchi di cemento da un cantiere. Recuperò qualche attrezzo e del legname dal magazzino della pizzeria. Per sei notti di fila, radunò il materiale in un ricovero nascosto, al principio della scogliera. Se Rosario se ne fosse accorto, ci avrebbe rimesso il lavoro e la reputazione.
«Allora?» gli chiese Irene.
«È tutto pronto.»
Non restava che incontrarsi. Per farlo, la ragazza doveva sfuggire ai lucchetti con i quali il padre la obbligava alla camera da letto. «Ci vediamo domani, dopo il lavoro.»
«Come farai a scappare?»
«Mia sorella mi darà una mano.»
L’indomani, Irene finse un improvviso mal di stomaco e se ne andò in anticipo dalla pizzeria. Cercò Lorenza e la trovò impegnata a cucinare: «Mi devi aiutare» le disse.
«Che succede?»
«Ascoltami bene. Adesso mi chiudo in camera e metto due coperte sotto le lenzuola. Poi esco dal retro e me ne vado.»
«Dove?»
«Resterò nel magazzino fino a quando farà buio, e da lì arriverò alla scogliera. Quando matri entrerà per la ronda serale, devi dirle che ho mal di stomaco e che sto già dormendo. Non si accorgerà di nulla.»
«Devo mentire?»
«Sei capace.»
«Perché dovrei farlo?»
«Perché sei mia sorella e sei più brava di me, a scendere al mare.»
«Che cosa hai in testa?»
«Devo fare un lavoro importantissimo.»
Irene tirò fuori il quaderno arancione dalla tasca del vestito. Lo aprì con cura. Sulla pagina centrale, mostrò Fosco così come se lo immaginava. Un agglomerato di casette colorate e sghembe, con gli aranci in fiore e i comignoli filanti zucchero. Sullo sfondo, alghe, tartarughe e coralli: il mare, a saperlo guardare, è verticale. La scala che dalla piazza arrivava alla spiaggia era di solido marzapane e aveva il corrimano di torrone. Lungo gli scalini di biscotto, le buone intenzioni rotolavano insieme a decine di olive danzanti e a una manciata di pistacchi in festa.
«Io, Rocco e ’Ngiulinu dobbiamo riattaccare Fosco al mare.»
Lorenza strizzò gli occhi. Si avvicinò alla pagina. Le sopracciglia si incresparono, portandosi appresso una ruga adulta e la perplessità: «Una scala di marzapane e torrone? Gradini di biscotto? Questo non è Fosco» disse restituendo il quaderno.
«Perché?»
«Le case di Fosco non hanno i comignoli.»
«E se io li vedo, a te che te ne importa?»
«Non è la realtà.»
«Per forza. Sul quaderno ci metto le visioni.»
«Che cosa sono le visioni?»
«Sono desideri utili.»
«E si possono realizzare?»
«Soltanto se mi aiuti.»
Lorenza sbuffò e il ragù borbottò nella pentola, per chiederle un po’ di attenzione e un colpo deciso di cucchiaio.