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Nascosta nel magazzino, Irene immaginava l’espressione della madre. Per Nuzza, i malanni delle femmine erano impicci da guarire con l’indifferenza. Infilata tra le casse di birra Lido, la ragazza sentiva le voci dei gnuri che arrivavano dal retro della pizzeria. Gli uomini urlavano di carte e mormoravano di affari. La voce di Totonnu sovrastava le altre: «Io ve lo dicevo che era una ’na minchiata

«Noi ci siamo fidati.»

«Trenta denari, per voi, erano sufficienti.»

«E adesso che facciamo?»

«Ci devo pensare.»

Irene sentì le sedie strisciare sul pavimento, seguite da un rumore di passi. Qualcuno, probabilmente Rosario, spense la luce e chiuse la saracinesca. La ragazza contò fino a sessanta, poi aprì la finestra. Rocco saltò dentro e si accovacciò al suo fianco: «Finalmente».

«Non la smettevano più di parlare.»

La vicinanza portava quiete: «Ti aspettavo».

«Sono qui.»

Irene prese le mani di Rocco e le intrecciò alle sue: «Il giallo e il blu, insieme, danno il verde.»

«E il rosso e il blu?»

«Viola.»

«Giallo più rosso.»

«Arancione, come il mio quaderno.»

La tenerezza era un pudore da proteggere.

«Rocco.»

«Che c’è?»

«È buio.»

«Ho la pila.»

«Allora non accenderla.»

Rocco accarezzò la fronte di Irene e si rese conto di quanto fosse forte la sua mano. Poteva usarla per difendere, umiliare o proteggere. Avrebbe voluto allontanarsi dalle cose del mondo per fare in modo che non spingessero sul presente, con la pretesa di entrare e costringerlo alla corsa. Da quando ne aveva memoria, chi gli voleva bene lo aveva forzato a un obbligo. La madre e il padre gli avevano regalato la vita e, con essa, la pretesa sotterranea di assomigliare a loro. Irene invece era fatta di cellule e tempo. Si sarebbe consumata, come fanno gli esseri umani. Ma il cammino che condivideva con lui, quel lasso prezioso tra l’arrivo e la partenza, era un piacere senza doveri, uno dei pochi che Rocco avesse mai assaporato.

Un fischio tremulo arrivò dal cortile esterno: «Hai sentito anche tu?».

«Forse.»

’Ngiulinu non sapeva fischiare.

«Quand’è che ti decidi a imparare?» lo rimproverò la cugina, non appena si incontrarono all’uscita posteriore del magazzino.

«Ccìtti. C’è il coprifuoco. Le guardie sono dappertutto. Non possiamo attraversare la piazza.»

«Certo che possiamo. Dobbiamo solo arrampicarci sul tetto e seguire il cornicione» disse Rocco.

«Seguire il cornicione? Si ppacciu. Io non vengo da nessuna parte» protestò Angiolino.

«Hai paura?»

«Certo.»

«Sali in spalla.»

«No.»

«Ti ho detto di salire.»

«Nemmeno morto.»

«E allora crepa.»

Invitare Lino all’ardire significava spaventarlo. Il ragazzo mormorò, brontolò, imprecò.

«Allora? Non possiamo stare così fino a domani.»

Alla fine, si rassegnò a consegnarsi a Rocco, che lo prese in spalla obbligandolo ad aggrapparsi al collo e ad affidarsi al suo petto: «Aggrappati».

«Maledetto a me quando ti ho fatto amico.»

Irene si arrampicò sul tubo della grondaia, seguita da Rocco e dal suo carico umano che non smetteva di lamentarsi: «Se me la faccio sotto...».

«Ti lascio andare, così la smetti di lamentarti.»

Arrivarono fino alla balaustra che delimitava il terrazzo sopra la pizzeria, la scavalcarono e alzarono gli occhi a cercare le stelle che erano là, dove erano sempre state.

La parte più impegnativa del percorso stava per incominciare. Angiolino si mise a pregare: «Madonna delicata, allontana la disgrazia».

«Lino, non bestemmiare. Chiudi gli occhi e fidati di me.»

Si incamminarono lungo il cornicione. In bilico a sei metri d’altezza, le distanze erano infinite. Il cornicione era largo poco più di una spanna. Bisognava procedere un passo per volta. Se si fossero distratti, sarebbero precipitati a terra. Se le guardie li avessero scoperti, li avrebbero scambiati per gnuri e li avrebbero impallinati. Lino cominciò a singhiozzare: «Ho le vertigini».

«Statti ccìttu.»

«Eu staju ccìttu. È il mio stomaco che parla.»

Proseguirono, un piede dietro l’altro, respiro corto dopo respiro corto. Alla fine del cornicione c’era una cosa importante da fare, che dipendeva dalla loro capacità di rimanere in equilibrio. La paura bloccava. Loro, invece, dovevano continuare.

Un passo alla volta, arrivarono al fondo. Si aggrapparono al bordo del parapetto come se quel pezzo di lamiera e cemento fosse una madre ritrovata.

«Dobbiamo sbrigarci» disse Rocco.

Saltarono sulla tettoia antistante e su quella successiva, fino ad arrivare alla piazza. Terra. Terra. Terra. Dall’asfalto saliva il calore del giorno appena terminato. Erano salvi. Da lì, si arrampicarono sulle mura del castello e, a carponi, raggiunsero l’imbocco della vecchia scala. Si infilarono nella prima cavità a ridosso della scogliera, dove Rocco aveva nascosto gli attrezzi e il cemento: «Quando li hai portati?».

«Mentre dormivi, ’Ngiulinu.»

«Non ti hanno scoperto. Come hai fatto?»

«Ho trattenuto il fiato. Se trattieni il fiato, diventi invisibile.»

«Invincibile?»

«Proprio così.»

«Piantatela» li rimproverò Irene. «È ora di lavorare.»

Fino a quel momento, l’antica scala che non portava al mare era stata soltanto un cumulo di ipotesi. Trentadue ipotesi di gradini che si aggrappavano a un dirupo friabile. Le discese lungo quella via erano pure disobbedienze. Rocco accese la pila e illuminò ciò che restava del primo scalino. Misurò e si appuntò un paio di calcoli sulla mano.

«Passatemi il legno» disse.

Predispose tre piccole assi, le tagliò con un seghetto. Spianò il terreno dalle pietre e dalle radici. Fissò le assi con l’adesivo: «Reggerà meno dei chiodi, ma è l’unica possibilità». Non dovevano fare rumore.

Lino mischiò il cemento al terriccio: «Così può andare?».

«Aggiungi altra acqua.»

Rimestò nel secchio e colò il calcestruzzo nella struttura. Rocco lo livellò e levigò con la cazzuola. «Ah, la cazzuola» aveva detto il militare con la faccia da Pascàli. Strumento eccezionale. Impugnatura solida, becco compatto.

«Ora diamogli il tempo di asciugare.»

L’operazione fu ripetuta per il gradino successivo. Per il seguente. Per quello che veniva.

A metà percorso, Irene tirò fuori dalla sacca una bottiglia di caffè da masculi, nero e senza zucchero. La fece girare: «È disgustoso» disse Lino.

«Bevi, che ti dà energia e ti tiene sveglio. Abbiamo poche ore, prima dell’alba.»

I tre trascinavano gli attrezzi giù per la discesa e la calce si appiccicava alla pelle che trasudava sale. A ogni gradino, l’odore del mare diventava più presente. Non sarebbero riusciti a finire in tempo: «Abbiamo poco materiale».

«Facciamo i gradini più piccoli.»

«Facciamone uno ogni due.»

«Uno ogni tre. Potrà bastare?»

Giunsero alla spiaggia insieme al sole che spuntava. Radunarono gli attrezzi e si lasciarono andare sulla sabbia, mani e gambe al vento, con il solletico del mare sui corpi stanchi. Dammi la mano. Anche tu. Anche tu.

L’alba illuminava i loro sforzi. Il risultato era un’approssimazione, il gioco stravagante di un ideale. I gradini non avevano la stessa dimensione, neppure la stessa distanza. Insieme, però, facevano una scala.

«È meravigliosa» disse Irene.

«Lo è.»

Si addormentarono sulla spiaggia.

Avevano riattaccato Fosco al mare.