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Fu colpa del maiale.

I riti non si cambiano. È come strappare il velo alla Madonna o congelare il mare per impedire che ondeggi. È come dimenticarsi di respirare o far lievitare il pane con mezzo litro di vino. È impossibile. Non si può.

Il porco si ammazza dopo Natale perché cu ’mmazza lu porcu a capu d’annu è cuntentu tuttu l’annu. Lo diceva zia Cuncetta che, per la mattanza, ogni anno ospitava Totonnu a muntagna, al primo piano della sua casa di vedova. Rosario e Nuzza si accontentavano del pianoterra. Per le loro figlie, la montagna era una festa: «Posso andare a giocare con a nivi?» chiedevano. A nivi era un regalo. All’inizio il cielo la buttava giù a granelli. Polvere sulle automobili scure. Poi la tirava giù a manciate. Zucchero a velo. Alla fine il cielo era la neve, e se qualche pino provava a sollevare i rami per dire io resisto, il cielo gli prendeva la cima e se la stringeva al petto: dormi, figghiu meu, ca a primavera è luntana. In quei giorni, nessuno provava compassione per la fine prossima del maiale. Era cosa buona e giusta perché così era scritto, in saecula saeculorum. La sola autorizzata a resistere all’inverno era la scrofa Peripla. In primavera partoriva i cuccioli che Cuncetta vendeva alla fiera provinciale. La zia teneva per sé un unico piccolo, quello che portava i segni della grazia. Testa grossa, muso corto e chiappe tornite erano le benedizioni di sant’Antonio. Durante l’anno, il cucciolo correva appresso alle gonne della padrona e agitava il codino, in cerca di un futuro che non gli sarebbe stato concesso. Il porcile stava a lato della casa, esposto al sole e al riparo dai venti troppo freddi. La mattina Cuncetta accendeva un mucchio di foglie secche e spargeva olio e sale, per liberare l’aria dalle invidie dei vicini. Lei, con i maiali, ci parlava. Con Peripla discuteva del tempo, del prezzo delle uova e dei figli che non danno mai le soddisfazioni che un genitore si aspetta. Al piccolo invece rivolgeva incitamenti e auguri, perché potesse crescere in salute e in misura. Lo nutriva con brodo e crusca, ai quali aggiungeva avanzi e foglie di cavolo. D’estate gli buttava la frutta marcia e in autunno lo deliziava con ghiande e castagne, per farlo ingrassare. Non doveva affezionarsi, altrimenti la macellazione le sarebbe sembrata un tradimento.

Cu ’mmazza lu porcu a capu d’annu è cuntentu tuttu l’annu. Anche Nuzza lo sapeva. Per questo si oppose al marito, che le ordinava di preparare i bagagli: «Non è stagione».

Rosario alzò la voce: «A muntagna ci andiamo lo stesso».

«A fare che?»

«A festeggiare la salute ritrovata di zi’ Totonnu.»

«Chi non rispetta la tradizione, si condanna ai patimenti.»

«Così è deciso. Il resto non conta.»

Rosario aveva in faccia la contraddizione. In lui si manifestava con una ruga che dall’occhio sinistro si arrampicava sulla fronte, portandosi appresso qualche falsità e la fatica dell’obbedienza.

Irene recuperò la valigia verde dalla pila di borse che ingombrava il corridoio. Fece saltare la chiusura a scatto e tolse l’abito del pellegrinaggio. La madre non l’aveva lavato: «Altrimenti la benedizione si cancella». Tra la stoffa bianca ritrovò il sapore di Rocco, accovacciato sotto la panca di legno. Pane e salame, sudore fresco ed emozione. Si ricordò dei discorsi dei gnuri: «Chi parla fuori da queste mura è infame e traditore».

Chissà come stava la prena, nel suo nascondiglio di rami e foglie.

Irene tolse la scatola con i regali dei parenti e la nascose tra il materasso e le lenzuola. Infilò in valigia un paio di ricambi e tornò a chiedersi il perché di quel viaggio inaspettato. Forse andavano dalla prena. «So dov’è» aveva detto Rocco. «L’hanno portata a muntagna.» No, i gnuri erano troppo svegli. L’esercito era ovunque, di certo i militari avrebbero seguito la carovana di automobili che da lì a poche ore sarebbe salita lungo i tornanti. E allora perché tutto quel movimento? La voce del Belletta squillava dai televisori accesi. Fidatevi, signori, alta qualità e basso prezzo. Gli esseri umani invece tacevano e i bagagliai delle utilitarie si riempivano. Bruna attaccò sulla porta della macelleria il cartello NDI VÌDIMO. Nell’aria si levarono improvvisi i colpi di un martello.

Irene li sentì e subito si precipitò in strada. Vide Angiolino e Rocco, appollaiati sulle mura del castello: «Che succede?» chiese correndo da loro.

Rocco avrebbe voluto risparmiarle il dispiacere. Puntò l’indice verso la scogliera: «U spazzinu».

«Che fa?»

«Distrugge la scala che porta al mare.»

Come osava, il maledetto? Irene si arrampicò sulle mura e vide l’uomo che smussava gli angoli e crepava le superfici. Irene non ci poteva credere. Quel gesto era un’altra ingiustizia, la peggiore. Ci avrebbe pensato il Padreterno in persona a punire l’affronto e lei lo avrebbe consigliato. La sera stessa, sul quaderno arancione, Fosco si sarebbe aperto in due per poi sprofondare all’inferno.

«Che mi importa di voi» gridò la ragazza. Dei vostri schifosi giudizi.

Rocco la afferrò per il polso e la trattenne: «Ccìtta».

«No, non sto ccìtta, non più. Smettila di dirmi che cosa devo dire e pensare.»

«Non l’ho mai fatto.»

«E allora non incominciare.»

«Loro sono più forti di noi.»

«Per questo dobbiamo rinunciare? Io non rinuncio.»

Il martello risuonava nel silenzio di quella giornata particolare, per ricordare a tutti l’obbligo dell’obbedienza.

Irene guardò Rocco: «Tu invece che fai?».

Si sentì chiamare: «Disgraziata, sei uscita di cervello? Scendi. Vieni giù. Sbrigati, dobbiamo andare». Rosario la minacciava, sventolando la mano destra al cielo.

«Non vengo da nessuna parte. Io resto qui.»

«Ti ho detto di scendere.»

«No.»

Rosario afferrò la figlia dall’orlo del vestito. Lei perse l’equilibrio e Rocco la strinse a sé: «Lasciami» gli disse Irene.

«Via da qui, in fretta» ordinò Rosario. «È ora di partire.»

L’uomo trascinò la figlia fino all’automobile e la costrinse nel sedile posteriore, in mezzo alle sorelle. Assicurò u Prìncipi tra le braccia della moglie, sfregò la medaglietta della Madonna delicata e si infilò in bocca una caramella alla menta, come faceva ogni volta che partiva per un viaggio. Lorenza sfiorò la mano di Irene, senza distogliere lo sguardo dalla piazza. Lei rispose sospirando. Dimmi la verità, Lorenza, non ti viene mai voglia di scappare? Forse, ma non so com’è fatto il mondo. Se non ce ne andiamo, come facciamo a saperlo? La Cinquecento si mise in moto e arrancò tra i vicoli. Superò il cartello all’ingresso del paese e passò davanti alla curva delle guardie. I militari li osservarono a mitra spianati, ma Rosario e Nuzza si mostrarono stranamente indifferenti. Lui guardò l’orizzonte, lei pulì la bocca du Prìncipi, che sputava saliva e briciole di biscotto.

Durante il tragitto, la Cinquecento fu superata dal camioncino di Alfonso, che parlava e parlava mentre Rocco, seduto accanto all’autista, sembrava ascoltare con attenzione e un po’ di sgomento. Che cosa aveva da dire a Rocco, al suo Rocco, un essere disgustoso come u spazzinu? Era stato lui a distruggere la scala che portava al mare. Se solo avesse potuto, Irene lo avrebbe punito picchiato cacciato. Il pomeriggio stesso, sul suo quaderno arancione, lo avrebbe trasformato in una serpe velenosa da decapitare. Rocco si girò verso di lei. Aveva gli occhi opachi. Poi fu la volta della 128 di Totonnu. Rosario lasciò passare e Angiolino, spalmato contro il lunotto, agitò le mani a salutare.

Quell’anno, la salita a muntagna fu diversa dal solito. Il cielo non sapeva di Natale. L’aria era tiepida e i pini erano verdi d’agosto. Il mistero del viaggio pesava sugli umori. Pecchì avimu a nchianari a muntagna ’nta stagiuni? Il maiale non era abbastanza grasso e i gnuri avrebbero avuto poca carne da gustare. Le donne avrebbero fatto gli scongiuri. I bambini non avrebbero messo le bucce delle arance accanto al fuoco, per profumare l’aria d’inverno. I vicini non si sarebbero congratulati e u scarparu avrebbe rinunciato ai peli e alle unghie, ancora troppo morbidi per farci pennelli e ditali. C’era una cosa che, più delle altre, preoccupava Irene. In una data così imperfetta, le grida dell’animale sarebbero risuonate sinistre: la montagna non tollera un sacrificio che anticipa una festa fuori stagione.