L’uccisione del maiale aveva qualche cosa di vicino all’esistenza. Era un rito necessario, uno spargimento di sangue che portava con sé un invito. Ci sarebbe stato da mangiare, ci sarebbe stata l’abbondanza. In vita il maiale era la bestia più disprezzata, sempre pronta com’era a rotolare nello sporco e a nutrirsi di immondizia. A llu porcu la mmerda non puzza. Con la macellazione, la mmerda si trasformava in manna. Al predestinato era riservata una fine piena di patimenti. Forse Peripla, la scrofa, raccontava al figlio il destino che lo aspettava, oppure c’era una memoria portata appresso dalla nascita e della quale il porco era consapevole, mentre gli uomini lo trascinavano sulla madia per la mattanza. Il prescelto si dimenava, grugniva e ci volevano le corde e la forza di sei uomini per tenerlo a bada.
Il maiale estivo, invece, accettò tranquillo il suo destino. Fu sufficiente un incitamento debole per convincerlo ad attraversare il cortile e a stendersi sulla madia, con il collo esposto a sud. Totonnu finse di non vedere i cattivi presagi legati alla remissione: «Andiamo a fare u porcu» disse ai gnuri, arrotolandosi le maniche della camicia sopra i gomiti. Appoggiò lo scannaturi a doppio taglio sulla gola dell’animale e sgranchì le dita lungo l’impugnatura. La montagna intera si zittì, in attesa del momento. Il vecchio caricò il peso sul coltello e si lasciò cadere. La bestia lanciò un grido acuto, interrotto da un colpo deciso e dallo scorrere della lama sulla pelle.
Gli umori del maiale schizzarono fuori dal corpo e inondarono la faccia di Angiolino, bianca di spavento. Totonnu si affrettò a raccogliere il sangue in una tazza sbeccata. Ne bevve un sorso. Passò il recipiente al figlio: «Bevi» ordinò. Il ragazzo lo afferrò controvoglia. Cercò lo sguardo della cugina, accovacciata ai piedi della madia insieme alle altre donne impegnate a recuperare il sangue.
Irene, per piacere.
Che c’è?
Portami via.
Lo farei volentieri, ma non saprei dove andare. Saremmo anime perse, io e te.
Rocco non voleva vedere la pena dell’amico. Osservò la tazza passare di mano in mano e, quando fu il suo turno, la prese con entrambe le mani, la appoggiò alle labbra e mandò giù in un fiato. Era masculu tra i masculi, così ritto e fiero, così capace di fingere che Irene non fosse lì, per terra, a raccogliere gli avanzi. Lei lo scrutò ma Rocco si finse indifferente. Ehi, sono io. Sono qui. Mi vedi? Lui le diede le spalle. Come si permetteva di mancarle di rispetto? Irene non riusciva a comprendere le ragioni di quel comportamento. Fino al giorno prima Rocco era lungo il dirupo, a costruire la scala che portava al mare. Di certo era colpa dello spazzinu, che nel viaggio verso la montagna gli aveva riempito la testa di discorsi da masculi che iniziavano con non bisogna non si deve non si può, e finivano tutti in un dovere. Ma che cosa gli aveva detto Alfonso di così importante da allontanarlo da lei? Gliele avrebbe cantate, di ritorno al paese. Gli avrebbe rimproverato il timore e la distanza.
Da quel comportamento inaspettato, Irene trasse la convinzione della differenza: la fragilità degli uomini stava nell’incapacità di godere pubblicamente della tenerezza. Per Rocco l’amore era qualche cosa di privato, mentre per lei era un tratto evidente di matita che trasformava le giornate. Lui conservava il loro legame in un vaso sigillato, e Irene non capiva il perché di quel riserbo. Sognatrice e irruente, desiderava alzare il calice e brindare al futuro e al presente: «A noi, a quello che sarà». Invece si doveva accontentare del silenzio.
I gnuri presero ad affaccendarsi attorno all’animale. Ricoprirono il corpo di acqua bollente e lo raschiarono con lame ben affilate. Bruciarono gli ultimi peli con un ramo di ulivo infuocato, lisciarono la pelle e incisero le zampe posteriori. Sistemarono tra i tendini un paranco di legno che permise di issare il maiale in verticale. Il corpo fu strofinato con sale grosso e limone, usato al posto delle arance invernali. Nessuno si fece avanti per stimarne il peso, com’era vanto nella macellazione tradizionale. Pochi mesi e poca carne erano facili da indovinare. Zi’ Totonnu finse di non preoccuparsene, impegnato com’era ad affilare lo scannaturi: «Rocco» chiamò. Era la prima volta che gli parlava davanti a tutti. Il ragazzo lo guardò e Totonnu gli lanciò il coltello che di solito spettava all’erede. Angiolino seguì il volo della lama senza invidia o dispiacere. Il gesto del padre era uno sgarbo, ma gli avrebbe risparmiato il tormento del primo taglio.
Rocco afferrò l’impugnatura e ne saggiò la consistenza. Fissò il peso del proprio corpo sui talloni, caricò le ginocchia e si lanciò in avanti. Conficcò la lama nel maiale. Fece forza con le mani e incise una linea verticale che dal collo arrivava fino ai genitali. La carne si squarciò e il ragazzo si ritrasse. Pulì il manico nei pantaloni color crema e restituì il coltello a Totonnu.
«Bravo, vedo che ti sai portare» disse il vecchio. Fece tre passi indietro, sputò a terra e si abbatté sull’animale con una furia che eccedeva lo scopo. Aveva le mani gonfie e una vena che gli pulsava impazzita sul collo. Uno due, dieci tagli, continuò a colpire fino a quando la testa del maiale non cadde a terra. Si chinò, afferrò il trofeo e si girò verso il figlio: «La vedi questa?» gli sussurrò avvicinandogli la testa del maiale. Lino si allontanò, il padre lo trattenne per i capelli: «Ringrazia sant’Antonio per l’abbondanza e ricordati: megghiu porcu ca carabinieri. Ripeti».
Patri, non mi tormentate.
«Ripeti! Megghiu porcu ca?»
«Ca carabinieri» disse Rocco, per togliere l’amico dall’imbarazzo.
Il vecchio lo mise a tacere con uno schiaffo: «Stai fuori dalle cose mie, figghiu ’nfami».
Rocco si fece rosso. Le sue orecchie si fecero rosse, le guance le pupille le spalle si fecero rosse. Rosso. Rosso fuoco rosso sangue rosso inferno.
«E tu, Irene, che ci fai ancora qui?» la rimproverò lo zio. «Vattene di là. Sei fìmmina e il tuo posto è tra le fìmmine.»
Lei fece per rispondere, ma un’occhiata del padre la convinse a tacere. Sentì una tristezza improvvisa scenderle nel petto. Si affrettò a raggiungere le donne che portavano il sangue nel cortile per preparare u sangunazzu. Entrò nella stanza dove le anziane leggevano la sorte nelle viscere dell’animale: «Cuncetta dice che le budella asciutte sono segno di sventura» annunciò Gianna, correndo incontro alla sorella. Confessarlo al vecchio, però, era dargli un dolore. «Ccìtta,» la rimproverò la zia «se parli troppo ti si annoda la lingua.»
Quella notte Irene si accomodò sul divano, dove dormiva in mezzo alle sorelle. Nel torpore che precede il sonno, pensò che lo schiaffo di Totonnu equivaleva a un marchio: era una punizione oppure un battesimo. La remissione iniziale del maiale era soltanto un inganno. L’animale aveva lanciato un grido acuto per dire a tutti che no no no, non voleva morire. No no no, e con quel grido chiedeva il perché di un simile dolore. Perché a me. Perché proprio adesso. Perché non aspettare il maledetto Natale. Rosso il sangue dentro il tenue riposo di Irene, rossi i pensieri, rosse le ciliegie di un’estate stanca. Rosse le dita di Totonnu, rosso il segno della scelta. In quel preciso momento Rocco riposava sotto la tettoia del cortile. Si rigirava, pensava, dormiva? Senza l’idea di lei?
Irene si alzò e si affacciò alla finestra. Il buio le impediva di intravedere il corpo del ragazzo, disteso su una coperta buttata a terra.
Si assopì all’alba.
Fu svegliata dal canto tardivo di un gallo. Il sole era alto e filtrava dalla tenda a mezza finestra. Le sorelle si erano già alzate. Si vestì in fretta e scese la scala che portava nel seminterrato. Trovò gli uomini impegnati a sezionare la lombata, la coscia, il capocollo e la costata. U ssaggiaturi girava tra le carni e decideva la quantità di sale, per impedire che il macinato si guastasse. Le donne mischiavano la trita al peperoncino e ai semi di finocchio, e la spingevano dentro le budella. Una volta preparati gli insaccati, li appendevano sopra i fuochi accesi per affumicare. Le anziane giravano le cotiche nella caldaia e disegnavano il segno della croce nel grasso messo a bollire. Facivanu i frittuli. La loro uscita dalla caldaia inaugurava la festa del maiale.