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«Figghioli, i frittuli sunnu pronti!» annunciò zia Cuncetta.

L’uscita dei frittoli era il segnale: iniziavano i tre giorni dell’abbondanza. La famiglia intera si accomodò nel garage, per il banchetto che apriva la festa. Quell’anno i tavoli furono messi a serpente. C’erano zii, cugini, amici dei cugini e parenti alla lontana. Sembrava che l’intero paese si fosse trasferito in montagna, insieme ai militari che, dalla strada, tenevano sott’occhio la situazione e ascoltavano incuriositi il gran menare di lingue e posate.

Rocco si sedette lontano da Irene, al tavolo dei cotrari. La ragazza fece scorrere il chicco di riso tra le dita. Non se l’era inventato: c’era. Esisteva, e raccontava di un tempo che non era passato.

Angiolino si accomodò a destra della madre, intenta a lisciargli i capelli e a sistemargli il colletto della camicia: «Bruna, piantala. ’U ’rricchiunisci» la rimproverò Totonnu. La donna scrollò le spalle, si passò la lingua sul palmo della mano e continuò a lisciare.

Infastidito, il vecchio si alzò in piedi e fece tintinnare la forchetta sul bicchiere: «Un momento di attenzione».

Gli invitati si zittirono.

«Vi chiederete come mai il piacere di una festa inaspettata» proseguì. «Vedete, a volte il cielo ci parla e noi dobbiamo imparare ad ascoltare. Come sapete, ho avuto l’influenza fuori stagione.»

«Evviva la salute ritrovata» gridò una voce che il capo mise a tacere con una brutta occhiata.

«Durante la convalescenza ho avuto il tempo di riflettere. Capita così di rado. La malattia è uno stato di grazia. Mi ha fatto ricordare che l’esistenza di ciascuno di noi ha una data di scadenza. È la vita, quella da festeggiare, non la sua mancanza. Quindi, che ci importa che sia estate o sia inverno. U porcu muore perché l’uomo possa campare. Brindiamo alla morte sua e alla salute nostra.»

I gnuri alzarono i bicchieri, le donne e i bambini applaudirono.

«Stiamo allegri. È tornata l’abbondanza.»

Cuncetta servì l’ossu du culu, il primo boccone, a Totonnu. Il vecchio lo gustò e piegò la testa di lato, in segno di assenso. Il suo gesto benediceva il pasto: «Presto» si affrettò Cuncetta, invitando le donne a entrare con vassoi colmi di polpette fritte, pasta al ragù e mezze penne con porcu e peperoncino. Gli invitati mangiarono nel silenzio sferragliante di posate. A seguire, arrivarono certi stinchi così grossi da strapparne la carne con i denti fino a ripulire l’osso. I commensali abbandonarono le posate e la tavola divenne un trionfo di mani unte e grasse. Gli involtini di zi’ Cuncetta – foglie di verza ripiene – furono salutati con un brindisi in onore della cuoca. U sangunazzu fu dedicato alle donne incinte. Al momento dell’amaro, il cugino Vittorio si alzò in piedi e declamò i soliti detti che parlavano di mogli e condanne: «Cu si marita è cuntentu nu jornu, cu ’mmazza nu porcu è cuntentu tuttu l’annu». Gli ospiti li conoscevano a memoria, ma non risparmiavano gli applausi.

Quell’anno, Irene non riusciva ad appassionarsi. Eppure aveva sempre rispettato il rito con il quale la famiglia si ritrovava attorno al maiale. Per tutti, i tre giorni dell’abbondanza significavano festa e l’obbligo dell’allegria.

«Che hai?» le chiese Lorenza, vedendola rigirare la carne con la punta della forchetta.

Niente.

«Non me lo vuoi dire?»

Non riuscirei a spiegare.

Senza le attenzioni di Rocco, era straniera e strana. Lui mangiava e beveva con gli altri cotrari, diventati all’improvviso suoi amici. Eppure a Fosco ne stava alla larga. Diceva a Irene di guardarsene, ché quella era gente buona solo alla remissione. Quel giorno, invece, Rocco sedeva alla tavola dei cotrari e condivideva con loro il pane, il vino e la solidarietà maschile che si esprimeva con pacche vigorose sulle spalle e risate grossolane legate al sesso.

«Tutta colpa di Alfonso u spazzinu» disse alla sorella.

«Che cosa ha fatto?»

«Ha distrutto la nostra scala che portava al mare.»

Irene sentì la sua prima gelosia da adulta. Prima di allora, era stata gelosa di una bambola dagli occhi verdi, finita nelle braccia di Lorenza. Era stata gelosa di Rosario, del suo ansimare tra le gambe di Nuzza quando ancora la figlia non conosceva il perché di quell’affanno. Era stata gelosa della vanità di Gianna e delle attenzioni riservate a u Prìncipi. Durante i giorni estivi dell’abbondanza, invece, scoprì che la gelosia degli adulti può essere mortifera. Confonde i sensi, totalizza i desideri, oscura i propositi. Lei era gelosa di Rocco. Ciò che più la feriva era la perdita della devozione totale. Aveva negli occhi la memoria dello sguardo in cui tante volte si era ritrovata unica e straordinaria. Ripensava al bacio proibito, alle carezze sopra il tetto del magazzino. Pretendeva di tornare nello spazio esclusivo della sufficienza. Voleva tornare subito a Fosco: lei e Rocco si sarebbero ritrovati con le schiene contro l’abbaino, Irene gli avrebbe rinfacciato la mortificazione. Immaginava la rabbia, il pianto e la consolazione che sarebbe venuta poi. Gli abbracci, le scuse e le promesse.

«Mangia qualcosa» disse Lorenza.

Non aveva fame. La fame apparteneva al momento e Irene aveva perso il presente. La carne nel piatto era senza profumo, le persone attorno a lei erano figure senza ombra.

Rocco dormiva sotto la tettoia del cortile, su una coperta buttata a terra. La notte stessa sarebbe scappata per andare da lui. Si sarebbe infilata tra le sue braccia e avrebbe preteso di sapere i motivi della sua indifferenza. Gli avrebbe permesso di mentire, pur di non darle un dolore. L’amore ha bisogno di buone scuse e di poche ragioni.

«Rocco, svegliati.»

«Che c’è?»

«Ho bisogno di parlarti.»

«Cosa vuoi sapere?»

«Se ti importa.»

Le occorreva un sentimento semplice, così come se lo ricordava.