Irene, certo che mi importa.
Ti sei accorta che ci hanno rubato il mare? Ce lo hanno incartato in un divieto e ci hanno detto no, voi lì non ci potete andare. La scala che non porta alla spiaggia è una scusa, un modo qualsiasi per giustificare una decisione indipendente dalla nostra volontà. Viviamo su uno scoglio e da lì vediamo il mare fatto di onde, fatto di spuma. Non lo possiamo toccare. Scendere a riva è il gioco proibito di un bambino, è la disobbedienza di un figlio. Non è la domenica di una famiglia e neppure il rifugio di due innamorati. Troppo pericoloso esporre i sentimenti alle richieste di chi ha poco volto, nessun nome e la forza di uno stato. Prova, domanda, chiedi. Non troveresti uno solo dei tuoi conoscenti disposti a tradire. Tradire, da noi, significa rinnegare il Padre. Ecco perché abbiamo il dovere minimo di tacere e quello superiore di dare. È vero. Noi abbiamo riattaccato Fosco al mare, ma la scala è stata distrutta a colpi di martello, in pieno giorno e davanti ai nostri occhi. Non si sono nemmeno nascosti. L’hanno fatto perché potessimo vedere e imparare. Lo ha deciso Totonnu. A Fosco tutti lo rispettano. Lui è il fusto attorno al quale cresce l’albero. Contare, in questo mondo, è questione di vicinanza al capo. I rami più grossi decidono del sangue e del denaro. I ramoscelli più teneri sono i cotrari dai compiti semplici. Hanno rasoio per difendersi e specchio per guardarsi alle spalle. Hanno persino una matita. Non la usano per disegnare mondi possibili, come fai tu. La usano per segnare i traditori sul petto e non scordarsi di vendicare. I fiori sono i giovani che – per nascita o battesimo – hanno il dovere di sbocciare. Ma sono le foglie, Irene, a educare. Cadono in autunno, si posano ai piedi dell’albero e marciscono sotto le suole di chi le calpesta. I traditori sono foglie e pagano. Mio padre era un traditore. Me l’hanno detto i gnuri. Bevi il sangue, mi hanno obbligato, brinda alla salute di tuo padre. Era un traditore però stai tranquillo, tu puoi lavare il suo peccato. Lo puoi pulire con l’acqua della redenzione. Per farlo, devi giurare fedeltà al nuovo ordine e ricordare che l’infamia è punita con la morte. Hai l’età giusta per cominciare: se vuoi, puoi lavorare per noi. Ci sono dei passi da compiere. Per prima cosa ti manderemo nella capitale per una consegna. Roba facile. Che roba, non ti deve interessare. Trova l’indirizzo, suona e lascia. Se ti porterai bene, ti daremo un altro compito un altro e un altro ancora, fino a quando non sarai pronto per un’azione.
Cos’è un’azione?
È un atto di fede. Lo compi e puoi entrare.
Sono il figlio di uno sparato.
Lo sappiamo, ma zi’ Totonnu ha il cuore grande.
Non ho mai vendicato la morte di mio padre.
Non avresti potuto: ad ammazzare tuo padre siamo stati noi.
Lo stesso tono di voce, Irene, la stessa sicurezza.
D’estate fa caldo. Le mele crescono sugli alberi. Il formaggio si fa con il latte. Ad ammazzare tuo padre siamo stati noi.
Voi?
Sì. Ettore Buoi era dei nostri. Aveva il compito di proteggere il capo. Il pericolo più grande non sono le guardie, ma quelli uguali a noi. Le zone sono territori sacri. Chi invade deve essere respinto e chi respinge deve valutare il campo, pianificare le mosse, anticipare i cattivi pensieri. Accadde tre anni fa, prima della festa patronale. Il comitato raccoglieva i fondi per il pellegrinaggio e Totonnu si preparava ad accogliere le famiglie dei paesi vicini. Lo attaccarono di domenica, mentre era tra gli olivi. Ettore Buoi non fece nulla per fermare i nemici. Non diede l’allarme, non preparò la difesa. Così mi hanno detto i gnuri. Taci, Irene. Non mi importa se, la notte dell’omicidio di mio padre, Rosario chiuse la pizzeria e tornò la mattina seguente, con la mano destra ferita e il volto livido di botte. Diede il braccio a mia madre durante il funerale. Mi volle con sé, mi diede da lavorare. Ho bisogno della sua protezione, per poterti stare accanto. Quelli sanno tutto. Sanno delle nostre fughe sopra il tetto, delle mie mani sotto le tue gonne. Aspettano di vedere cosa sarà di me, per decidere di noi. Dobbiamo proteggere ciò che abbiamo, lo dobbiamo preservare. Il bacio sotto la panca ci appartiene. Non regaliamolo a nessuno, Irene, altrimenti non ci sarà salvezza. Sei arrabbiata, lo so, lo capisco. In questi giorni ho finto che tu non esistessi. Non avercela con me, non pensare che il mio sia un bene minore. Devo far credere che l’amore sia un difetto da fìmmina. Ai tuoi occhi sono un codardo, e me ne dispiaccio. Lo hai capito, vero? La storia del maiale estivo è solo una scusa per allontanare le donne e i bambini dal paese. È un modo per distrarre le guardie dall’obiettivo. Il pericolo è là, dove nessuno lo sta cercando. La prena è a Fosco, sopra il tetto del magazzino. In questo momento ha la schiena appoggiata all’abbaino, proprio come noi due quando abbiamo voglia di scappare. Lei però ha la pancia gravida e le caviglie incatenate. Di certo la sua paura più grande è che la creatura possa sentire la cattiveria e pensare che sia colpa della madre. Strano, vero, come i luoghi prendano l’odore degli umani? Risparmia la rabbia, Irene. Tienila per quando ci rincontreremo. Parto. Tra poche ore il marito della prena pagherà il riscatto e noi restituiremo la donna ai Lorida. No, non sono loro complice. Semplicemente devo andare per poi tornare a prenderti. Ho accettato le loro condizioni. Per firmare il patto ho squarciato la carne e bevuto il sangue del maiale. Solo in questo modo potrò togliere mio padre dal disonore e seppellirlo in una bara di noce. Mia madre non ne sarà contenta, ma tu dalle conforto e spiegale le mie ragioni. Tieni i nostri nomi nel caldo del tuo petto, regala loro una casa fatta di cose buone da mangiare. Io, a te, non ti dimentico. Ti prego, non essere triste. Dimostrare coraggio è il solo modo per poterti meritare. Se diventerò uomo agli occhi dei gnuri, potrò infilarti il mio cognome al dito come si fa con un anello. Saremo bellissimi, io e te. Vivremo insieme e cresceremo i nostri figli con il grano buono dei campi. Li porteremo al mare. Quando avranno l’età per camminare, li accompagneremo alla stazione e li aiuteremo a sistemare i bagagli per il viaggio. Li vedremo partire e li saluteremo senza lacrime. I nostri figli arriveranno in un posto dove il cognome sarà soltanto uno tra i tanti di un elenco. Alicati, Astolfi, Boni, Buoi. Diventeranno quello che vorranno essere. È per loro, è per te che partirò insieme agli altri. Succederà questa notte. Una notte sola sarà sufficiente. Lasceremo la montagna. L’auto di Totonnu viaggerà a fari accesi per confondere le guardie e ci darà il tempo di uscire dai cortili. Ci perderemo nei boschi per poi ritrovarci. Scenderemo nel paese deserto e riconsegneremo la prena ai Lorida. Il nostro compito sarà finito. Saranno loro a scambiarla con i soldi del riscatto. Sì, lo so. Un sequestro non è lo spazio adatto per immaginare il volto di un bambino, ma hai un’idea migliore rispetto alla rassegnazione? Un’idea utile, voglio dire, un pensiero che corrisponda a un’azione possibile. Noi siamo autorizzati a muoverci soltanto dentro un cerchio. Metti via quel quaderno arancione, per favore. Non voglio vedere i disegni. Le tue sono soltanto visioni. Fidati, tornerò a prenderti. ’Ngiulinu verrà con me. Il padre vuole che veda e conosca. Metterlo dentro un segreto sarà il modo di obbligarlo all’obbedienza. Chi parla condanna il proprio sangue, e l’unica possibilità, per Angiolino, sarà quella del silenzio. Sogna ancora di fare il cantante e il ballerino. Io, davvero, non riesco a dirgli che si sbaglia. Non farà il cantante e neppure il ballerino. Diventerà un infelice o un disgraziato. Non guardarmi così, sono lo stesso che ti sedeva accanto, con la schiena appoggiata all’abbaino. Irene, la tua carne è bianca. Nasconditi in questo angolo buio e lasciati portare. La schiena striscia contro la parete, la camicia da notte è morbida da arrotolare. Sai di buono, hai il profumo del sonno. Apri le ginocchia e fammi entrare. I nostri nomi sono scritti su un chicco di riso. Siamo salvi. Nessuno può rubarci il desiderio del mare.