Rosario si avvicinò e la afferrò per i capelli: «Che fai, disgraziata?».
Non le diede nemmeno il tempo di reagire: «Lasciatemi».
Irene puntò i piedi per resistere, lui strinse la presa: «Vieni via».
«Non vengo da nessuna parte.»
«Invece sì.»
«Mi fate male!»
Irene morsicò il braccio che la tratteneva. Prese due calci. Si oppose, sputò, si liberò, cadde all’indietro e lasciò andare il corpo senza vita che stringeva al petto. «Perdonami» disse a Rocco, che precipitò faccia a terra. Lasciarlo così, tra la polvere, era come tradire. Si lanciò verso di lui ma due quattro cento mani la presero e la buttarono dentro l’Alfa Romeo di Ciddu u sacristanu, che partì sgommando. Rosario le infilò un cappuccio in testa, dopo essersi assicurato che fosse proprio lei la pazza mezza nuda, che si dimenava tra i sedili: «Lasciatemi andare».
«Non posso.»
«Patri» si ascoltò parlare. «Perché mi fate questo?» La sua voce era piatta. Orizzontale. «Rocco era gentile.»
«Sono cose da grandi.»
E tu sei fìmmina.
E piccola.
E innocente.
«Siete stato voi.»
«A fare che?»
«Non mentite.»
«Non so di che parli.»
«Siete stato voi ad ammazzarlo.»
«Chiudi la bocca.»
«Gli avete ammazzato il padre e poi lo avete lasciato solo, in questo mondo di mmerda.»
«Di che bestemmi, bambina?»
«Cos’era la vostra, una prova di coraggio?»
«Ccìtta.»
«Se parlo, cosa fate? Mi uccidete?»
I gnuri ascoltavano in silenzio dai sedili anteriori.
«Che fate? Non dite nulla? Difendetevi. Almeno giustificatevi. Avevate promesso alla vedova di avere cura di suo figlio.»
«L’ho fatto.»
«Come? Trascinandolo all’inferno?»
«Hai il diavolo in bocca.»
«Soffoco.»
«Piantala.»
«Devo vomitare.»
L’uomo le scostò leggermente il cappuccio e l’aria del finestrino le diede sollievo. Accanto a lei, Irene percepì una presenza. Un odore di urina le invase le narici. C’era qualcun altro inginocchiato tra i sedili dell’auto. Piegò leggermente il capo e intravide un’ombra. Poteva sentirla respirare. Allungò il collo, girò gli occhi a spiare. Il volto era coperto. Le mani legate dietro la schiena erano delicate. Mani da donna. Una corda le stringeva il petto, lasciando libero il grembo circolare. Un cocomero d’estate, con la buccia liscia e il ventre pieno di acciughe in pastella. Era lei, non poteva essere nessun’altra: era la prena.
«Dove stiamo andando?» domandò Irene.
«Tu, da nessuna parte» disse il padre, prendendole la testa tra le mani. Le si avvicinò all’orecchio e le sussurrò: «Sono io che me ne vado». Ciddu u sacristanu guardò dallo specchietto retrovisore, sul quale ballava il rosario di plastica. Accanto a lui, Arcuri u ragiuneri fumava.
«Nel frattempo, penserai alla famiglia. Ci siamo capiti?»
«Certo. Dirò a tutti chi siete. Nessuno sentirà la vostra mancanza.»
La prena fece un rumore di catene.
«Patri.»
«Che c’è?»
«Io l’ho vista» disse all’orecchio di Rosario. «È qui accanto a me.»
«Non so di chi parli.»
«Della prena. La posso sfiorare. Se Rocco non si sveglia più, mai più, vado dalle guardie e dico loro che l’avete presa voi, per portarla...»
Rosario schiacciò la mano destra di Irene sotto la suola della sua scarpa: «Ahi» reagì la ragazza. «Volete farmi stare zitta? Volete impedirmi di parlare? Non sto più ccìtta, lo giuro sulla testa mozza di Totonnu.»
U sacristanu diede un colpo di tosse. «La bambina mi sembra irriverente» disse. «L’educazione è una cosa importante. Ci siamo capiti, Rosario? O ci pensi tu, o ci pensiamo noi a darle una bella raddrizzata.»
«La bambina terrà la bocca chiusa. Metto la vita mia a pegno. Hai capito, Irene? La vita mia a pegno del tuo silenzio.»
Il padre le si avvicinò: «Ma tu, disgraziata, cosa ci facevi a Fosco?».
In quel momento Irene si ricordò della sorella. L’aveva lasciata in paese, tra le macerie della lavanderia. Per fortuna Lorenza era giudiziosa. Di certo era rimasta ben nascosta dietro il bancone, senza buttarsi nel pericolo: «Correvo appresso ai cotrari».
«Ha ragione tua madre. Tu si n’erba mala» disse Rosario. «Accosta, Ciddu. A piccirija torna a casa.»
L’auto rallentò, ma senza fermarsi. Il padre afferrò Irene per le braccia: «Scendi. Sai cosa fare».
«Non so nulla.»
«Meglio così. Chi ha la memoria corta, campa cent’anni.»
Rosario la spinse oltre la portiera. La ragazza rotolò lungo la riva del canale e si fermò tra l’erba alta di stagione. Si liberò dal cappuccio e abbracciò le gambe doloranti. Riconobbe il prato che precedeva la curva delle guardie e vide le luci delle sirene che illuminavano le camionette degli agenti. “Siete in ritardo” pensò. “L’inferno è già passato.”
Attorno a lei, il frinire dei grilli e l’umidità della campagna.
«Bastardi!» gridò.
Raccolse i brandelli della camicia da notte e li avvolse attorno alle cosce nude. Portò le mani al petto: «Non c’è più». Com’era possibile? Il chicco di riso era scomparso e Rocco se n’era andato insieme a lui. Sentì il quaderno arancione premere tra la carne e l’elastico delle mutande, e quella presenza, per un istante, la consolò della perdita. Le parole del padre le risuonarono nella testa: «La bambina terrà la bocca chiusa. Metto la vita mia a pegno.»
Cos’era, una minaccia? Il tentativo di obbligarla al silenzio?
«Patri, facitila ’nto culu!» gridò.
Lei, a Rocco, lo amava.
Lanciò in aria la disperazione, la lasciò cadere a terra e le scavò una fossa, per poterla soffocare. Mangiò una manciata di terra, si tappò il naso, provò a smettere di respirare. Che vile, che codarda. Non aveva neppure il coraggio di lasciarsi morire. Si graffiò la faccia con le unghie e il sangue prese a scorrere lungo le guance, al posto delle lacrime: «Patri, facitila ’nto culu!».
Io a Rocco lo amavo.
Hai capito?
Io, a Rocco, lo amavo.