Lorenza si nascose dietro lo stipite della porta e, da lì, guardò la piazza. Dopo che il padre aveva strappato Irene da Rocco, il corpo del ragazzo era tornato tra le braccia di Angiolino, che provava a ricomporlo. Poco lontano, la testa di Totonnu osservava la faccenda, come se avesse ancora qualche cosa da dire o comandare. Attorno, le armi sparivano nei bauli delle auto, con un rumore freddo di metallo. Le portiere sbattevano e i motori si avviavano. I gnuri si lasciavano alle spalle Fosco e una decina di corpi senza vita, mentre le sirene annunciavano l’arrivo inutile delle guardie.
Ecco cos’era la guerra. Il professore di storia di Lorenza avrebbe voluto diventare un generale dell’esercito. Lo avevano riformato per un soffio al cuore, e lui si era accontentato di insegnare in una scuola di provincia. Ai suoi alunni diceva che la vita non è altro che una guerra. Ci si batte per conquistare o difendere. Lorenza era la migliore della classe: «Se la caverà lo stesso?» si era informato Rosario.
Le scuole stavano a Pescheto, un paese di duemila anime che distava quasi sei chilometri da Fosco. Lorenza ci andava con un pulmino blu, che faceva il giro del circondario. Micuzzo, l’autista, apriva le portiere: «Movìtivi, fuschitani,» si lamentava «ca siti ’nto culu du mundu».
L’autista aveva un neo sul collo e le dita gialle di nicotina. Quando saliva sul pulmino, Lorenza distoglieva lo sguardo da quei due particolari che la mettevano in agitazione. Chissà se sarebbero arrivati sani e salvi fino a Pescheto. Ogni volta che imboccava la curva delle guardie, Micuzzo accelerava e fingeva di investire i militari. Nessuno, oltre a lei e alle guardie, si accorgeva dell’intenzione. Irene dormiva sulla sua spalla. Angiolino provava a fare i compiti e Gianna si guardava compiaciuta da uno specchietto rotondo. Gli altri studenti si tiravano gomme da masticare e carte, mentre l’uomo alzava il volume per ascoltare Bollette e benzina, l’ultima fatica musicale del neomelodico Ciro Cicciolo.
Anche quella, in fondo, era la guerra. La guerra di Micuzzo era un odio sottile che prendeva la forma dell’indifferenza o quella più solida dello sberleffo. In fondo chi erano le guardie? Erano l’autri.
Anni prima, in quarta elementare, Lorenza era andata in gita a Reggio: «Viene il Ministro da Roma» fece scrivere la maestra sui diari. «Si deve fare. Partecipazione libera.» Era il periodo di carnevale. Per invogliare le classi, quelli del Tribunale chiesero ai bambini di andare mascherati. La maestra suggerì una semplificazione del mondo: «Scegliete. O poliziotti o carcerati» come se di quelle due specie fosse fatto l’universo. Metà classe non si presentò. L’altra metà era in maschera: erano tutti carcerati.
«È a mamma chi vozi ccussì» spiegarono gli alunni. Lorenza indossava un pigiama a righe che la faceva vergognare: «Non voglio» si era lamentata. «Ccìtta e tieni la testa alta» si era raccomandata Nuzza. «Non hai niente da nascondere.»
Il Tribunale era un palazzo imponente. Aveva decine di stanze con le finestre alte e le inferriate. La gente che si aggirava nei corridoi aveva un odore antico di cappotto. Il Ministro aspettava le classi nell’aula più importante, tra i flash dei fotografi locali. Sbiascicò due frasi lunghe, senza le virgole. Il Ministro si annoiava. Guardava l’orologio e parlava con la erre stanca. Subito dopo di lui, prese la parola un giovane con i capelli rossi: «Fatemi pure delle domande» disse.
«Che mestiere fai?»
«Il magistrato.»
«E che cosa fa un magistrato?»
«Si occupa della gente.»
«Anche di me?» gli aveva domandato Lorenza.
«Certo.»
«Chi ti paga?»
«Lo stato.»
«Chi è lo stato?»
«Il padre di tutti.»
«Come Totonnu?»
Lui le aveva guardato il pigiama a righe e lei aveva abbassato gli occhi: «No. Non come Totonnu».
Rosario e Nuzza le avevano insegnato che quelli, l’autri, facevano la guerra alle persone perbene. Eppure l’uomo con i capelli rossi sosteneva di fare il magistrato perché aveva fiducia nella giustizia.
«Cos’è la giustizia?»
«La possibilità di credere.»
«In Dio?»
«Nell’essere umano.»
Chissà cosa avrebbe pensato il magistrato dell’essere umano, se si fosse trovato nel mezzo della notte dell’abbondanza. Nella piazza di Fosco c’era stata la guerra e chi l’aveva combattuta aveva lo stesso accento, la stessa targa sull’automobile, lo stesso identico modo di impugnare un’arma. Tutti si erano bucati il dito indice con la punta di un ago e si erano scambiati il sangue. Sangu du me sangu. A scuola non glielo avevano detto, e neppure al Tribunale. Si può essere fratelli e farsi la guerra. Lei aveva dato un pugno a Irene, l’aveva spinta giù per il dirupo per incitarla a correre. L’aveva vista nascondere i trucchi di Gianna sotto il suo letto per fare un dispetto alla sorella, aveva provato a mettersi in mezzo tra la sua impazienza e i capricci di Sebastiano. Erano piccole battaglie tra fratelli, battaglie feroci e a tratti innamorate.
“Si comincia così,” si disse “e poi si finisce a terra come Rocco, come Totonnu, a rimpiangere la vita e la perdita dell’innocenza.”
Lorenza camminò in punta di piedi tra i vetri in frantumi e tornò a rifugiarsi sotto il bancone della lavanderia. Si rannicchiò. Si accorse di avere freddo.
Il lumino sempre acceso alla Madonna delicata continuava a brillare.