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Quando seppe della morte del figlio, la madre di Rocco impazzì di dolore. A vedere il corpo senza vita, si mise a bestemmiare e usò parole così irriverenti che c’era da averne imbarazzo. Ce l’aveva soprattutto con quella là, la Delicata, colpevole secondo lei di non essere stata abbastanza attenta. Eppure si era tanto raccomandata, aveva persino fatto voto di rinunciare agli uomini e al pellegrinaggio, pur di rientrare nelle sue grazie. Che poi, gridava, rinunciare al pellegrinaggio è facile ma accantonare gli uomini è una gran fatica per una carne così giovane, per ’sti minni i petra, per queste cosce ancora fresche. Guardate, guardate, si agitava strappandosi i bottoni della veste: «Chi ha lo stesso ben di Dio? Chi tra voi, fottutissime zzòcculi?».

A un certo punto la fecero tacere.

La presero in quattro e lei a offendere: «Tutti bastardi,» scalciava «tutti assassini». La caricarono su un’auto e la portarono in città. La lasciarono, così com’era, davanti all’ospedale.

Maria Catena riapparve per il funerale. Indossava una casacca grigia che non si sarebbe più levata. In chiesa, Irene si sedette lontano da lei: «Dalle conforto» le aveva chiesto Rocco. «Spiegale le mie ragioni.» Maria Catena aveva gli occhi color nocciola del figlio, lo stesso profilo regolare. La perdita l’aveva resa gracile. Irene non possedeva parole capaci di consolare. Non aveva nessuna scelta utile da raccontare, nessun sacrificio nobile che potesse giustificare il danno. Era arrivata alla cerimonia trascinata da Angiolino, con i capelli in disordine e l’abito bianco del pellegrinaggio. Dentro quel vestito era stata felice. Irrimediabilmente. Si strinse al braccio del cugino e non poté neppure inginocchiarsi per una preghiera. Non c’era tempo, disse il prete. C’erano altri undici funerali da celebrare. L’uomo teneva l’aspersorio appoggiato al petto e ruminava parole con il disinteresse di chi ha poco da dire e lo dice male. Il nostro fratello nella pace, nell’eterna e divina luce della speranza, l’anima sua affidiamo al tuo conforto, apri per lui le porte del riposo eterno. La chiesa era deserta. Oltre il portone principale, un’altra bara spingeva per entrare. E dello Spirito Santo amen, tagliò corto il prete. Irene guardò Maria Catena, aggrappata alla cassa nel tentativo di trattenerla a sé. Le lasciò l’ultimo abbraccio. Tutto era lontano, distante. Non sapeva che farsene di quel pezzo di legno che, di certo, non assomigliava a Rocco. Al suo Rocco. Uscì. La bella giornata le sembrò una punizione. Sarebbe stato meglio se gli uccelli avessero smesso di cantare, se l’erba si fosse seccata e il cielo le fosse caduto in testa. Invece tutto continuava, le dicevano i forestieri insolitamente abbronzati che avevano il compito di trasportare la bara. Erano eleganti e ben pettinati, quasi sorridenti. Per forza, la giornata fruttava loro dodici funerali e altrettante ricompense.

La disgrazia altrui era la fortuna loro. Si affrettarono fino al camposanto. Posarono la bara nella fossa e sfilarono le corde. Maria Catena gettò una rosa e minacciò di lasciarsi cadere. I forestieri la afferrarono per le braccia: «Andiamo a casa» disse Angiolino. Non c’era nulla da vedere. Accompagnò Irene, la aiutò a togliere il vestito bianco e le offrì un bicchiere di acqua e zucchero, prima di farla coricare.

«’Ngiulinu. È proprio vero che ci sei, respiri, vivi, ami e un attimo dopo non ci sei più. Non respiri, non vivi, non ami?»

«È proprio vero, sì. Avevano ragione quelli della setta: la fine del mondo è arrivata.»

«Quelli della setta, però, non ti avevano detto che la fine del mondo è per chi rimane.»

«Forse c’è un senso da trovare.»

«Adesso no, non ne sono capace. Riesco solo a piangere.»

«Piangi, Irene. Per guardare in faccia i dolori, bisogna attraversarli.»

«Non ce la faccio a venire al funerale di Totonnu.»

«Nessuno ti porterà rancore.»

«Tua madre?»

«Non se ne accorgerà neppure.»

A Bruna toccò il compito di rappezzare il corpo del marito. Non le avevano detto che fosse finito così, peiu du porcu. Di ritorno dalla montagna, Bruna prese la testa tra le mani e la pulì dalla polvere. Le chiuse gli occhi sbarrati e riassettò i capelli sconvolti dalla morte. Accarezzò il cimelio, per convincerlo al sonno eterno. Si chinò sul corpo nel tentativo, inutile, di farlo tornare all’interezza. La bara fu sigillata con la fiamma ossidrica e si incamminò per il viaggio finale. Il funerale non fu il trionfo di popolo che la vedova si aspettava. Lei fece del suo meglio. Si batté il petto in modo ostinato, si scarmigliò la chioma, implorò Dio e tutto il firmamento. Nuzza le diede conforto, piangendo e gridando al suo fianco. Lorenza, Gianna e u Prìncipi seguirono il carro funebre e osservarono incuriositi l’ostentazione del dolore. La perdita, a Fosco, era una condizione naturale. Quando le campane del paese suonavano a lutto, il nome del defunto correva di bocca in bocca. I bambini non domandavano «Com’è morto?» ma «Chi l’ha ucciso?». La natura scompariva dentro l’abuso umano degli atti.

Per l’addio al padre, Angiolino indossò una giacca a quadri e si pettinò i capelli all’indietro, con due noci di brillantina. Furono i becchini a sollevare la bara. I gnuri sopravvissuti al massacro non si esposero. Preferirono non professare l’antica fede nel vecchio che, ormai, valeva quanto una moneta di sabbia. I Lorida chiusero il magro corteo. La loro presenza segnava la fine di un’era. Il messaggio era chiaro: «Totonnu se n’è andato. Adesso ci siamo noi, che simu genti giusta». Avrebbero sostituito il vecchio e riscattato Fosco dall’infamia. Gli abitanti erano stati ricoperti di fango. I giornalisti si erano inventati il legame tra il rapimento della donna e la decapitazione del capo. «Guardate pure il telegiornale» disse Felice Lorida risalendo sull’auto scura che lo riportava a San Rotondo. Di solito era peccato mortale, ma quella volta potevano fare un’eccezione. «L’Italia intera parla di voi.»