Per quell’unico notiziario pubblico, Peppantoni u citrata sistemò l’apparecchio nel centro della piazza. Arrivarono le famiglie, quel che restava di loro dopo il lutto. I bambini si accomodarono per terra e le vedove ordinarono gassose al caffè: «Silenzio, sta per cominciare» si rimproverarono a vicenda. Subito dopo la sigla, un giornalista stempiato annunciò la liberazione della prena.
Eccola, quella buttana.
La donna nascondeva la pancia sotto un giubbotto dell’esercito: «Guardate come corre!». Si districava tra i flash e i microfoni per tornare presto a casa. Aveva molto da fare. Doveva stringersi al marito e, soprattutto, spiegare al suo bambino che avrebbe potuto nascere finalmente in pace. Quante volte, durante la prigionia, lo aveva sentito scalciare. Il piccolo aveva assorbito ogni respiro colmo di spavento. Per proteggerlo, la prena aveva chiuso gli occhi e immaginato prati in fiore e pascoli. Aveva cantato nenie che raccontavano di arcobaleni, cuccioli e stelle. Si era accarezzata la pancia in ogni momento, a ogni ora, per regalare l’illusione della quiete. Ninna nanna, ninna oh. Questo bimbo a chi
lo do. Lo do al mare, alla fortuna, alle braccia della luna.
I gnuri l’avevano costretta in un buco umido, tre metri sotto terra. La donna si era accovacciata sulle caviglie incatenate e si era interrogata. Perché quella punizione? Il padre l’aveva cresciuta nella fabbrica di mobili e lei aveva imparato ad andare in bicicletta sul piazzale della ditta, tra i camion che ogni giorno partivano per le consegne. Sapeva distinguere un’anta laccata da una rivestita di carta di resina. Chiamava il legno per nome e conosceva la procedura di una buona verniciatura a polvere. Il padre le aveva insegnato che la qualità è un vanto, per questo ha un prezzo. Si era sposata con un impiegato dell’ufficio spedizioni. Lui all’inizio non l’aveva neppure guardata. Era troppo figlia del capo. Era stata lei a insistere. Lo aveva portato a pranzo in un parco giochi, dietro la fabbrica. Aveva steso una coperta di lana e aveva tirato fuori due panini con il taleggio. Si erano sposati senza troppe feste. Lui era arrivato in chiesa con la madre, un donnino di quaranta chili e dagli occhi nebbiosi di timidezza. Per dovere, il padre aveva accompagnato la sposa all’altare. Se ne era separato strappandole la mano dal braccio. La figlia sapeva che l’avrebbe perdonata. Il bambino che portava in grembo era destinato al sorriso. Gli avevano preparato una cameretta bianca. A lei non piacevano l’azzurro e il rosa, le sembravano scontati. Il marito era d’accordo. Diceva no soltanto ai suoi capricci. No a una macchina nuova, no a una casa ancora più grande. Per questo se n’era innamorata. Sapeva dirle di no. Era un uomo dai bisogni onesti. Di certo era preoccupato. Chissà se gli aguzzini avevano chiesto di lui o dei soldi di suo padre. Sperava che non lo avessero umiliato. Sarebbe stata forte. Avrebbe fatto del suo meglio per tornare a camminare, dopo quei giorni passati all’inferno. Il dottore si era tanto raccomandato: frutta, verdura e formaggio magro. Invece lei si era nutrita di pane duro e acqua.
La guerra era arrivata all’improvviso. L’avevano tirata fuori dalla terra e l’avevano costretta su un tetto, vicino a un abbaino, con la solita catena che le stringeva la caviglia. Quando era scoppiato l’inferno, si era rannicchiata attorno al ventre. Erano venuti a prenderla e lei se l’era fatta addosso. Si era vergognata del suo odore di ammoniaca. Gli aguzzini l’avevano caricata su un’auto, obbligandola a viaggiare accovacciata sul sedile posteriore. Dopo ore giorni o secoli, un uomo le aveva tolto il cappuccio e l’aveva spinta fuori dall’auto, finalmente. La luce del giorno le feriva gli occhi, l’aria sapeva di terra da nutrire. Aveva camminato in mezzo al mais, convinta che solo la natura potesse proteggerla. Un contadino armeggiava attorno al suo trattore: «Aiutami» lo aveva implorato.
«Chi sei?»
«Voglio ritornare a casa.»
Abbracciare il suo uomo era stato un sollievo. Non me ne vado più. Non ci provare. Mi sei mancato. Anche tu. Sono una pessima madre. Sei una madre e basta. Che i giornalisti li lasciassero in pace, lo aveva chiesto il marito durante la conferenza stampa: «Abbiamo bisogno di essere dimenticati». Perché dimenticare è compito nostro e chissà se ne saremo capaci.
Le immagini della donna con addosso il giubbotto dell’esercito furono trasmesse a ripetizione su tutte le reti nazionali e locali, insieme alla richiesta del silenzio: «Abbiamo bisogno di essere dimenticati».
Dando la notizia della liberazione, il giornalista del primo canale suggerì un collegamento tra il rapimento e la strage dell’abbondanza. Riunite in consesso davanti al televisore di Peppantoni, le vedove si lamentavano. Quelli – l’autri – erano buoni soltanto a calunniare. Ecco Fosco, guardate! La televisione mostrò i segni dei proiettili sui muri, le persiane chiuse e le chiazze di sangue che insozzavano le strade. Tutto lì? Era quello il loro paese? Le immagini non rendevano giustizia. A Fosco c’era un castello. C’era addirittura il mare. Per scendere alla spiaggia c’era da rompersi l’osso del collo, ma l’aria buona arrivava comunque.
«Ccìtte» si lamentò u citrata.
Il telegiornale mostrò il funerale di zi’ Totonnu. Donna Bruna si scorticava viva per farsi bella davanti alle telecamere. Che superbia. Che presunzione. Dimenticava che anche le compaesane portavano il lutto? A Fosco c’erano stati altri undici funerali e le campane del paese avevano suonato ogni ora, per un giorno intero.
Le vedove avevano tolto il saluto alla moglie di Totonnu. Quando il marito comandava, Bruna dava ordini e si pavoneggiava peggio di una regina. Il turno del vecchio, però, era finito. Cominciava un’altra epoca, qualche cosa di differente. Totonnu era stato ammazzato perché non era stato capace di guardare al di là dei propri olivi. I figli dei Lorida invece si vestivano con la camicia elegante, avevano l’orologio d’oro al polso e parlavano l’inglese. Sì. Li avevano mandati addirittura a studiare nelle Meriche. Uno viveva a Nuova Iorche, un altro se n’era andato a Milano dove c’erano le università che insegnavano a fare bene i conti. A Totonnu l’aveva ucciso la mentalità e Angiolino, di certo, non lo avrebbe riscattato. Così mingherlino com’era, pareva proprio nu ricchiuni. Molti anni prima Gerardo, il figlio del verduraio, aveva osato pronunciare quella parola. Il ragazzino era stato spedito a Reggio e il padre era stato investito da un furgone targato ZH. Adesso invece si poteva parlare a voce alta. Ricchiuni. U ricchiuni. E allora? Totonnu era sepolto e non c’era più bisogno di sussurrare.
Le vedove sparlavano anche di Rosario Rusto. Che fine aveva fatto? Di lui non si sapeva più nulla. O era morto ammazzato, oppure si era fatto sparire. Farsi sparire era un atto gravissimo. A differenza degli altri gnuri, l’uomo non era tornato e non aveva dato notizie di sé. Non si era rifugiato dai parenti, non aveva rassicurato. Gli infami, al paese, sono quelli che si appressano alle guardie. E se, per caso, lui...
No, no. Quella cosa lì non si doveva neppure pensare. Certe cose, in famiglia, non succedono.
Davanti alle chiacchiere delle donne, il contegno di Nuzza mostrava la certezza delle convinzioni. Rosario era sparito durante la notte dell’abbondanza. L’avevano visto salire sull’Alfa Romeo di Ciddu u sacristanu insieme a quella disgraziata della figlia. Cosa ci faceva lì, la sgualdrina? Sempre appresso ai masculi, come le api attorno al miele di montagna: «Irene» aveva domandato Nuzza. «Dov’è tuo padre?»
«La vita sua a pegno del mio silenzio.»
Quattro figli aveva avuto, quattro dita della mano. Ognuno con la propria testa e il proprio modo di pensare. Eppure il concime era stato uguale per tutti. Stessi princìpi, un modo identico di educare. Irene era stata la primogenita. Non avrebbe dovuto permetterle di sentirsi speciale. Era cresciuta n’erba mala ed era colpa sua, se Rosario non tornava. L’aveva messo in imbarazzo. Ma prima o poi tornerà, si convinceva Nuzza, non appena l’esercito ci lascerà in pace, Rosario tornerà. Ai suoi occhi, il marito valeva più di tutte e tre le figlie. Era affezionata a quell’uomo che, all’inizio, era stato un patimento. Si era sposata che era ancora bambina. Ricordava le parole del cugino nel proporre alla famiglia il pretendente: «Ha poco cervello, ma il cognome vale». Il padre diede il suo consenso e, due settimane dopo, Nuzza indossò l’abito di tulle prestato da una parente. La parrucchiera le ficcò in testa due peonie e la madre la spinse dentro la Mercedes noleggiata a ore. Sull’altare, la sposa si dimenticò di scostare il velo e ci volle l’intervento della testimone perché si potesse rivelare. Così truccata, si sentiva una buttana. Non aveva osato dirlo alle damigelle che, fino a poche ore prima, si erano affaccendate attorno al suo volto per dipingerlo a festa.
Sull’altare, Rosario la guardò con tenerezza: «Lavati la faccia» le consigliò prendendole il braccio alla fine della cerimonia. Il suo non era un ordine. Era un invito. La delicatezza del marito avrebbe dovuto essere una consolazione, invece Nuzza ci restò male. I masculi sono nati per comandare. Purtroppo a lei era toccato un incapace. La aspettava una vita in salita. Sarebbe stata lei a dover decidere del bene e del male. Benediceva l’autorità di zi’ Totonnu e invidiava la superbia con la quale Bruna, la sua sposa, si faceva guidare. L’unica rivalsa sulla nuova parente era la capacità con la quale Nuzza riusciva a generare. Le bastava accostarsi una notte e controvoglia per poi vantarsi delle nausee e dell’ingombro del ventre: «È fìmmina» diceva Bruna con sufficienza, curiosandole tra le gambe durante il parto. Un’altra femmina.
All’arrivo du Prìncipi, Bruna si zittì e lasciò alla levatrice il compito di annunciare. La sera stessa, Rosario brindò alla salute del figlio maschio e della moglie fertile che il cielo gli aveva regalato. Lei fu orgogliosa del pubblico omaggio. Suo marito era il padre du Prìncipi. Andava rispettato. Per proteggerlo, Nuzza avrebbe usato tutto il veleno che aveva in corpo, da quel momento fino all’eternità.
La necessità del colpo di lingua non si fece attendere.
Dopo la notte dell’abbondanza, Nuzza fu chiamata a difendere l’onore del marito. Altro che traditore e infame. Rosario era un eroe. Se ne stava da qualche parte a lavorare e progettare, ché lui aveva un cognome nobile. La gente era ingrata e si era già dimenticata del bene che i Rusto avevano fatto al paese. Ma lei no. Nuzza se lo ricordava e lo avrebbe ribadito a voce alta.
Che tutti la vedessero e rammentassero ciò che era stato.
Si sedette davanti allo specchio e si passò un velo di borotalco sul petto. Spazzolò i capelli e li legò in una crocchia. Mise in spalla lo scialle bianco del matrimonio e si sedette fuori dalla porta di casa, ad aspettare. Il marito sarebbe ritornato e i giorni avrebbero ripreso a scorrere. Lui avrebbe riaperto la pizzeria. Lei si sarebbe occupata della lavanderia. Aveva del lavoro da sbrigare e molto ancora ne sarebbe arrivato: «Il sangue dei morti bisogna strofinarlo quando è fresco,» ripeteva «altrimenti diventa difficile da levare».
Nelle settimane successive, Nuzza non smise di aspettare. Le altre donne evitavano di guardarla, per non essere docchiate. Quando passavano davanti alla sua porta, tiravano due prese di sale grosso: «Entra in casa, Nuzza,» le urlavano «che ci impesti».
Lei resisteva.
Era la moglie di un giusto.