Le notti della mancata abbondanza lasciarono Fosco deserto. Nel paese ormai vuoto, le ore trascorrevano lente. I randagi si aggiravano in cerca di cibo e si sdraiavano, sconsolati, sotto il sole del primo autunno. I vicoli attorno alla piazza erano sgombri di gente e vento. Il cartello «della Liberazione» giaceva a terra, crivellato dai proiettili. Sulla serranda della macelleria sventolava ancora il NDI VÌDIMO, appiccicato da Bruna prima della mattanza. Nessuno lo aveva tolto e il foglio era rimasto lì, sulla saracinesca. La pizzeria era chiusa, ma il furgone targato ZH continuava a lasciare le casse di birra Lido davanti all’entrata, insieme al conto. Qualcuno si era divertito a distruggere il bancone della lavanderia e a buttare per aria i vestiti delle clienti. Di solito Nuzza li teneva con religiosa devozione, in ordine alfabetico e divisi per cognome. In quei giorni, però, anche lei si era persa nella confusione. Aveva cominciato a parlare da sola: «È stata una disgrazia, donna Sirbana. Una coperta trapuntata e una gonna di seta? Certo che ricordo. La coperta era verde, con un bordo di pizzo fatto a mano. La gonna era color limone e aveva una tasca sola, sulla sinistra. Erano qui, pulite e impacchettate su questo ripiano. Fatevi un’idea del costo, donna Sirbana. Datemi il tempo di cercare, ma non vi preoccupate. Se non dovessi ritrovarle, ripagherò il dovuto».
La fiducia nel marito rimase intatta fino al giorno in cui uno sconosciuto si presentò alla porta. Nuzza preparava il caffè e fu interrotta dal suono del campanello. Andò ad aprire e inciampò in un pacchetto grande come un pugno. Lo raccolse e lo sentì guizzare tra le dita. Lo trattenne sotto le unghie, per impedirgli di saltarle in grembo: «Lorenza, scendi. Devi venire. In fretta!».
La figlia scese le scale e Nuzza le mostrò l’enorme mandorla col guscio che le fioriva tra le mani.
«Che cos’è?»
U cori du porcu.
I gnuri non avevano dubbi e glielo mandavano a dire. Il cuore del maiale significava tradimento. Il marito era un infame e meritava di essere punito con la morte.
Nuzza rimase sulla porta e Lorenza si affrettò a rientrare. «Gianna» disse alla sorella. «Corri. Si tratta di patri. Lo stanno cercando.»
«Le guardie?»
«I gnuri.»
«E se lo trovano?»
«Gli fanno del male.»
«Faranno del male anche a noi?»
«Non ti devi preoccupare.»
Nuzza avvolse il cuore in una carta di giornale, attraversò la piazza e gettò l’involucro giù dal dirupo che portava al mare. Rientrò a casa. Sentì le gambe tremare e un desiderio insolito di fuga. Respirò. Aveva aspettato Rosario per giorni interi, per settimane. Aveva atteso una lettera, una riga, una parola sbocconcellata.
Non era arrivato nulla. Era rimasta sola, doveva farsene una ragione e affrontare l’autri che non erano le guardie, i forestieri o i nemici. Erano il sangue del suo sangue. Si sedette davanti allo specchio e si accarezzò le rughe del volto. La vecchiaia arriva tutta insieme, in un giorno soltanto. Si passò un velo di borotalco sul petto. Spazzolò i capelli e li legò in una crocchia. Mise in spalla lo scialle nero della vergogna e si sedette fuori dalla porta di casa, con la schiena ritta e gli occhi offesi dalle lacrime. Aveva diritto a sette giorni di lutto. All’ottavo giorno, avrebbe smesso di piangere perché quella era la legge. La regola dell’onore. L’ottavo giorno avrebbe rinnegato il marito e ripetuto a voce alta il primo dei comandamenti: «Ciascuno paga i propri conti». Le proprie casse di birra Lido che il furgone ZH smise di scaricare davanti alla pizzeria.