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«Irene, svegliati.» Lorenza provò a scuotere la sorella.

Patri è in pericolo, e anche noi. Irene alzati Irene parlami Irene mangia Irene reagisci. Ma Irene dormiva. La sua bocca rifiutava di aprirsi. Le gambe erano estranee e disobbedienti. Solo il sonno era benefico. Un sonno pesante, interrotto da sprazzi di luce inutile.

Lorenza e Angiolino le stavano accanto, in attesa che il tempo curasse le ferite. Il tempo, però, non curava. Si limitava ad accantonare senza risolvere. La perdita di Rocco l’aveva privata del desiderio. Non c’era più nulla che riuscisse a stimolarla. Persino il quaderno arancione restava chiuso sul comodino, accanto al letto. Irene riusciva a impedirsi di guardare e ascoltare, rinunciava al cibo e alla compagnia degli altri esseri umani. Solo gli odori erano prepotenti.

Siamo qui, le dicevano.

Non vi voglio.

Facci entrare.

Ho detto di no.

E noi ci accomodiamo.

Gli odori pungevano perché quotidiani. C’erano e c’erano sempre stati. L’estate che finisce sa di fico. Le lenzuola cambiate di fresco sanno di madre. Il temporale odora di asfalto e foglie. Un corpo dimenticato profuma di indecente. La lavanda sprigiona ronzii di api e verde. Che voglia di piedi nudi, di attraversare un campo.

Lorenza sedeva accanto alla sorella, la lavava con un’essenza al mughetto e preparava biscotti all’anice e finocchio. Sfogliava il quaderno arancione e indicava a voce alta Rocco, i gnuri, zi’ Totonnu, la prena, la scala di marzapane che arrivava al mare: «Ti ho portato un quaderno nuovo» diceva.

«Non lo voglio.»

«Perché?»

«Le visioni sono desideri inutili.»

Ogni mattina Lorenza allineava le matite colorate sul comodino di Irene. Nero notte, rosa confetto, verde oliva, blu marino, giallo sole, rosso sangue: «Il rosso no» diceva la sorella, allontanando il pastello. Angiolino le sventolava il rosa davanti alla faccia: «Te lo ricordi?» le diceva. «È stato la mia prima rivoluzione.»

’Ngiulinu era la sola persona con la quale avesse voglia di parlare, forse perché era stato lui a consegnarle il corpo di Rocco e ad averne cura, nel suo ultimo istante. Si era rivelato un ragazzo coraggioso. Dopo il pastello rosa, era scappato sul tetto, si era vestito da Carmen, aveva costruito la scala che portava al mare e aveva dimostrato una determinazione inaspettata nei confronti della vita.

«Ho smesso di ascoltare il Quartetto Cetra. Adesso ascolto Madonna.»

«La Delicata?»

«La Sfrontata. È più divertente.»

«In collegio ci vai lo stesso?»

«La settimana prossima. Mia madre dice che devo dare quest’ultima soddisfazione a Totonnu.»

«Totonnu è morto.»

«Lei sostiene che continua a guardarci dall’inferno.»

«Spero tanto che si sbagli.»

«Lo spero anch’io.»

Tirò fuori il mangiacassette di Bruna e lo appoggiò sul comodino: «Ti lascio la mia nuova canzone preferita». Schiacciò il tasto dell’accensione e il nastro cominciò a scorrere. Nessun cinguettio, nessuna luna a mezzanotte e neppure una schiena appoggiata all’abbaino. Angiolino iniziò a cantare: Like a virgin, taccd for de veri forst taim. La stanza si riempì di un’allegria destinata a guastarsi.

«Torno presto» disse alla cugina.

«Anche Rocco me lo aveva giurato.»

«Il mio ritorno non è una promessa. Sarà un regalo.»

Partì il lunedì seguente, con la corriera delle cinque e due forme di pane infilate nella tracolla. Irene si svegliò all’alba. Dalla finestra vide l’autobus aprire le portiere e alzò la mano. Il cugino ricambiò il saluto, scostandosi da Bruna che pretendeva di sistemargli i capelli con una passata di saliva.