La partenza di Angiolino lasciò Irene ancor più sola davanti al presente. Avrebbe dovuto prendere il posto del padre, ricondurre la madre alla ragione e guidare i fratelli alla collaborazione. Non ne era capace. Era troppo debole e, soprattutto, non aveva voglia di restare dentro il quotidiano. Preferiva chiudersi nel passato o in un’idea di futuro che non riusciva ancora a immaginare.
Lorenza prese il suo posto e si comportò da sorella maggiore. C’era abituata. Fin da bambina, si occupava dei fratelli più piccoli e metteva ordine nelle mancanze altrui con la stessa metodica dedizione con la quale riordinava la sua stanza. Assomigliava alla nonna materna, che era andata al Nord per poi morirci di tristezza. Era alta e sottile. I capelli le cadevano sulla fronte, disciplinati da un cerchietto di plastica. Il padre le rimproverava l’appetito scarso, però era lei quella da maritare, prima o poi, con il giovane più importante di Fosco. Irene era polposa e gli uomini se la sarebbero succhiata come si fa con una cozza al pomodoro e capperi. Avrebbero buttato il guscio nel piatto degli avanzi. Lorenza invece era morigerata. Agli occhi della madre era ciò che la figlia maggiore non sarebbe mai diventata. Precisa, sbrigativa, asciutta e ccìtta. Irene sarebbe rimasta zitella, in attesa di un vedovo con qualche necessità e un po’ di compassione. Lorenza, invece, sarebbe scesa da una Mercedes bianca e avrebbe percorso gli scalini che portavano alla chiesa, al braccio di un padre fiero della sua integrità e del cognome prossimo.
I sogni matrimoniali, però, si erano persi in un mondo di cenere acqua detersivo e soda. Nuzza se ne stava tutto il giorno sul divano, con un fazzoletto bagnato sulla fronte. La sua indolenza avrebbe condannato i figli a morire di fame e sete, se Lorenza non si fosse ostinata: «Mamma» chiamava. «Irene!»
Svegliatevi. Reagite. Ci sono cose che dipendono da noi.
Gianna si lamentava: «Voglio il pane fresco, voglio un rossetto color prugna, voglio l’antenna nuova per la televisione».
Fosco era deserto. Non un negozio, non un passante, non una voce. U Prìncipi giocava nella piazza vuota. Catturava lucertole e se le mangiava. Le buttava giù vive e poi ruttava.
Fuggendo dal paese, l’edicolante aveva lasciato una bicicletta da uomo appoggiata al chiosco dei giornali. Lorenza aveva provato a guidarla stando in piedi sui pedali. Saliva, pedalava e cadeva. Saliva, pedalava e cadeva. Alla fine imparò. Quando finirono le scorte della dispensa, armeggiò nel magazzino della pizzeria e legò una cassetta di legno al parafango della bici: «Vado a Pescheto a comprare il pane fresco, un rossetto color prugna e l’antenna nuova per la televisione» disse a Gianna.
«A che ora te ne vieni?»
«Ti porto anche lo smalto per le unghie.»
«Con i brillantini?»
«Quello che vuoi.»
Si avventurò fuori da Fosco e passò davanti all’unico carabiniere rimasto di guardia, all’ingresso del paese. Sorpreso dalla presenza, il giovane puntò il mitra contro la ragazza, che frenò e cadde di lato: «Ti sei fatta male?» chiese il militare. Aveva poco più di vent’anni e le orecchie leggermente a sventola.
Afferrò la sua mano e gliela strinse: «Vai piano» si raccomandò. Lei rimontò sulla bicicletta e partì incerta lungo i tornanti. Dopo pochi minuti riapparve: «Scusa?» disse pedalandogli intorno.
«Che c’è?»
«Se tornano l’autri, non farli entrare!»
«Ci proverò. Ehi!» la richiamò. «Il tuo nome?»
«Lorenza.»
«Io sono Mimmo.»
«Mimmo erba mala. I gnuri, quelli come te li chiamavano così.»
Lorenza riprese ad andare a scuola a Pescheto. La mattina entrava nell’aula dove studiava, nonostante fosse a figghia ’nfami. I compagni la evitavano. Le riempivano la cartella di merda di cane. Le infilavano ratti nel grembiule, le impastavano i capelli con lo zucchero. Lei pedalava e studiava, nella convinzione di essere nel giusto. Dio guarda le intenzioni, si raccontava, e sapeva che le sue erano buone. I professori non la incoraggiavano. Non volevano problemi. Pochi mesi prima, il preside era finito all’ospedale per essersi rifiutato di promuovere il figlio di uno che contava. Ci aveva guadagnato il fegato, spappolato dalle botte. No, era un sacrificio troppo grande. I ragazzi andavano premiati o ignorati. Era questione di convenienza.
Al suono della campanella, Lorenza aspettava Gianna nel cortile della scuola. La caricava sulla bicicletta e tornava a Fosco in tutta fretta: «Ciao, Mimmo erba mala» salutava sulla curva delle guardie.
«Mi chiamo Alfredo» rispondeva il militare. «Mimmo l’hanno mandato al Nord.»
«E tu salutamelo lo stesso.»
Gianna la rimproverava: «Non si parla con le guardie.»
«Chi te l’ha detto?»
«Così è sempre stato.»
«Ci sono cose che dipendono da noi.»
Ma Gianna non capiva. Si limitava a stringersi nelle spalle e a distogliere lo sguardo. Quando arrivava a casa, mangiava in fretta e si chiudeva in camera. Si metteva un vestito pulito e si truccava da grande, mentre Lorenza si occupava du Prìncipi, dimenticato nel letto: «Per favore, mamma, alzatevi dal divano» ma non c’erano parole e non c’erano minacce. Nuzza se n’era andata. Vaneggiava di lenzuola da lavare, di camicie da sbiancare e di vestiti da consegnare: «Cenere acqua detersivo e soda».
«Matri!»
La sua mente vagava: «Cenere acqua detersivo e soda. Ve l’ho già detto, donna Sirbana. La coperta trapuntata e la gonna di seta gialla sono pulite e impacchettate. Le trovate laggiù, sul primo ripiano».
Lorenza aveva messo un foglio di carta sopra il frigorifero, dove annotava le cose da fare. La spesa, le bollette, i compiti, le pulizie e le anime. C’era da badare a Nuzza, persa tra gli scaffali della lavanderia che aveva in testa. Gianna diventava donna troppo in fretta e si ingrossava di vanità. U Prìncipi cacciava lucertole e non parlava. Da lì a poco avrebbe iniziato la scuola. Una musica americana arrivava dalla stanza da letto. Nei giorni di sole, Irene si affacciava alla finestra e assaporava l’aria tiepida.