Irene si svestì e si infilò sotto la doccia tiepida. Aprì la bocca e sentì l’acqua scorrerle in gola, sul collo, lungo la schiena. Sfregò la pelle e lavò via la pigrizia di quei mesi sospesi. Si avvolse in un asciugamano e cercò la propria immagine oltre la condensa: «Come sei bella» le diceva Rocco.
Lo sai?
Scese in cucina. Zucchero, aveva voglia di zucchero. Affondò il cucchiaio nella dispensa. Un altro. Un altro ancora. Piccoli flussi di sangue e ossigeno cominciarono a pompare dal cuore fino al cervello. Si sentì meglio. Sgranchì gambe e braccia e andò dritta nel sottoscala. Recuperò le pubblicità di un supermercato, tornò nella camera della madre e mise i fogli a terra. Accatastò la sedia e il portabiti sul letto, che coprì con un paio di lenzuola.
Che effetto le avrebbe fatto tornare nel magazzino? Non era più stata in pizzeria, dopo la notte dell’abbondanza. Attraversò la sala vuota, con le sedie rovesciate sui tavoli e il calendario fermo ad agosto. Sul bancone del bar c’erano un posacenere di Tele NovoSud e la scatola delle mance. Spinse la porta che dava sul retro e si guardò attorno, nella penombra: «Rocco» chiamò. Nessuno rispose.
Lui era stato lì, in quel luogo. Insieme avevano abitato lo spazio, lo avevano riempito di gesti. Poteva vedere la sua ombra nella stanza e il sorriso che si apriva di nascosto. La camicia da lavoro era nel retro, arrotolata dentro un sacchetto azzurro. Irene la annusò – pane e salame, sudore fresco ed emozione – e se la mise addosso.
Tra le casse di birra Lido, c’erano alcune latte di colore che erano state accatastate con l’idea mai realizzata di una ristrutturazione. Le portò in cortile e le mise in fila, accanto all’acquaragia e ai pennelli. Aprì i barattoli e respirò l’odore buono della vernice. Mischiò il giallo al blu. Aggiunse l’acquaragia. Una punta di nero. Ravvivò il giallo con il bianco. Girò con un legno e osservò il colore prendere vita. Tornò nella camera della madre e aprì le finestre. Avrebbe passato una mano di bianco, per poi dipingere una pianta di bergamotto sulla parete di fronte al letto.
Quando Nuzza era in salute, spremeva il frutto sulle ginocchia sbucciate. Il succo serviva a cicatrizzare: «Brucia!» gridavano i figli.
«Vuol dire che fa bene.»
No, una pianta sola non sarebbe stata sufficiente. Per curare le ferite della madre, Irene avrebbe dipinto una distesa intera di bergamotti. Attorno al paese natio di Nuzza, c’era un bassopiano coltivato a frutta: «C’era così tanta natura laggiù» raccontava quando le prendeva la nostalgia «che la gente non conosceva la preoccupazione». Il bergamotto fioriva ad aprile e faceva fiori bianchi, profumatissimi. Ma erano i frutti a stupire. Simili ad arance, avevano il colore giallo e verde dei limoni. Da ragazzina, Nuzza partecipava alla raccolta e alla lavorazione. Le mani piccole erano le più adatte alla pelatura: tagliavano il frutto in due e cavavano la polpa con un coltello a cucchiaio, per separarlo dalla buccia. Quelle giornate di lavoro erano spensierate. La fatica benediceva il sonno e il domani era un’ipotesi con molte possibilità.
Per restituire alla madre l’aroma della giovinezza, Irene inforcò il pennello. Proprio lei, che conosceva così bene il linguaggio della matita e calcolava il peso esatto della mano, per preservare la punta e non irrigidire il tratto. Aveva bisogno di andare oltre. La matita era Rocco così come era stato. Il pennello, invece, era uno strumento nuovo, che le dava un’angoscia prematura. E se avesse sbagliato? Se le idee si fossero confuse, se il tratto si fosse distratto? Il muro non era un foglio di carta che si poteva accartocciare, per poi ricominciare daccapo. Avrebbe dovuto fare i conti con l’irreparabile. Come nella vita.
Le dita tastarono l’impugnatura. Cercarono la lontananza giusta dalla punta e la comodità della presa. Irene immerse il pennello nell’acqua. Disperse l’eccesso in uno straccio, lo passò nel colore e appoggiò la mano alla parete. Diede un colpo impreciso, quasi claudicante. Poi allargò le setole e camminò verso l’alto, con un movimento che assomigliava a un guizzo. Era la prima pennellata, il segno di un inizio che – per risultare logico – doveva continuare. Si allontanò. Le pagine del quaderno arancione erano immediate. Per immaginare un muro, invece, occorreva la distanza.
Il primo bergamotto aveva i rami striminziti e non le parve sufficiente. A pochi centimetri di distanza, spuntò un secondo albero dai bracci torniti. Il bergamotto allungò un ramo e si aggrappò al fratello. Il terzo albero parve addirittura sorridere. Il quarto si tenne saldo alla corteccia, per non scoppiare di salute. Il quinto, il sesto, il settimo si affollarono attorno alla finestra. I bergamotti spuntarono sulle pareti, sull’armadio, sopra il comò, ai piedi della Madonna delicata.
Irene si sedette a terra, a osservare lo spazio che odorava di agrumi e terra. Il dolore la spingeva ad apprezzare ogni singolo granello di polvere che si muoveva nell’aria, alla luce garbata del tramonto.
Lorenza fu la prima a entrare nella stanza. Rimase a guardare, incuriosita dal rumore del vento tra i rami ricchi di frutto: «Ti piace?» le chiese Irene.
Non riuscì a rispondere.
«Allora?»
«È bello.»
«E basta?»
«È un posto in cui viene voglia di restare.»
La madre, invece, non notò la differenza. Entrò in camera e tenne gli occhi incollati al pavimento. Si lamentò della puzza di vernice e buttò a terra le lenzuola che servivano a proteggere la mobilia: «Cos’è questo disordine?».
«Matri.»
«Il pulito è questione di impegno.»
«Matri, non vedete?»
«Cenere acqua detersivo e soda.»
La sera stessa, Lorenza preparò pane fritto con la provola e tortelli dolci di zucca per la sorella. La mattina seguente, le lasciò la colazione in cucina, insieme a due barattoli di vernice: La porta di casa, diceva il biglietto.
Irene uscì in strada. Tutto era silenzio. Un pacchetto di sigarette rotolava sull’asfalto, in cerca di padrone. La ragazza sfiorò la porta, girò attorno alla maniglia e risalì lo stipite fino a incontrare una macchia scura, circolare. Era il segno lasciato dal cuore del maiale. Era asciutto e inconsistente. Irene avvicinò il pennello al segno. Picchiettò, in cerca di un’idea. C’era una storia che piaceva tanto a Gianna, quando era bambina. Lorenza gliela raccontava per farla addormentare, ogni volta che un brutto sogno le disturbava il sonno. Tanto tempo fa, in un paese ’nta muntagna, viveva una scrofa che si chiamava Peripla... Irene contornò di nero i bordi della macchia e disegnò Peripla, circondata dai suoi piccoli. Ne aggiunse cinque, sette, novanta, cento e uno, tutti destinati alla sopravvivenza. I cuccioli uscirono dalla porta e si distribuirono sulla facciata. Si arrampicarono sulle persiane e scodinzolarono dalla grondaia.
Gianna tornò da scuola e guardò la casa che, in sua assenza, si era trasformata: «Ti piace?» le chiese Irene.
«No» rispose masticando una caramella alla menta. «Sono cose da bambina.»
Anche u Prìncipi rimase indifferente. Disegni e cuccioli erano gingilli da femmine. Non c’era niente che potesse distrarlo dalla sua natura di masculu. Durante il giorno, Sebastiano se ne stava appollaiato in cima alle mura del castello e tirava i sassi con la fionda. Mirava ai gabbiani che volavano lì attorno e a Lorenza, che passava rasente le case per timore di un attacco: «Maledetto» gli urlava lei.
U Prìncipi sollevava un sopracciglio.
Per lui, la madre era un corpo vuoto e le sorelle niente più di un fastidio.