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Ci volle un po’, ma alla fine successe. Irene tornò sul tetto del magazzino. Per arrivarci, non si arrampicò lungo il tubo della grondaia. Le mancò il coraggio. Salì dalla scala interna e spinse la porta. Si abbassò per oltrepassare l’antenna della televisione e si portò le mani al petto. Il chicco di riso. Che stupida era stata: lo aveva perduto, invece avrebbe dovuto conservare con cura quel pegno. Adesso che Rocco non c’era più, si doveva accontentare di una promessa inutile: «Tornerò a prenderti» le aveva detto. Mentiva. Non sarebbe ritornato. Le promesse mancate di chi amiamo sono il tradimento di un legame profondo.

Per fortuna le immagini erano più sincere delle parole. Entravano negli occhi e uscivano dalle dita, sotto forma di disegni destinati a consolare.

Era l’imbrunire. Sui tetti di Fosco non c’erano i comignoli, eppure Irene continuava a vederli, insieme alle case sghembe e alla scala che, prima o poi, avrebbe riportato al mare. Vicino all’abbaino, c’erano una coperta abbandonata, una ciotola e l’anello spezzato di una catena. La prena era stata lì e di certo, come lei, aveva avuto paura di quell’angolo di mondo. A Fosco c’era qualche cosa che impediva di volare. Non era l’aria e neppure il mare che, da lontano, brontolava per convincere a guardare: «Sono qui» diceva.

Restate.

Irene sedeva nel punto esatto in cui, l’anno prima, aveva aspettato l’arrivo delle rondini: «Le rondini sono esserini dall’apparenza fragile. Pesano meno di un tozzo di pane» le aveva spiegato Rocco. «Arrivano ad aprile e ripartono a fine estate. Volano per diecimila chilometri. Viaggiano di giorno e la notte riposano nei canneti. Conoscono i luoghi e, anno dopo anno, vi fanno ritorno. Gli stessi canneti, gli stessi fili della luce, i percorsi sempre uguali e segnati dal vento. Il Sahara è un letto di sabbia. Le rondini lo oltrepassano ad ali aperte e sono macchie minuscole, sfocate dal sole. Sanno che un nido le aspetta, al di là del mare. Un nido è una casa di erba e fango, la saliva per cemento.»

Le rondini si nutrono di insetti e memoria.

Noi, invece, ci nutriamo di presente.

E Irene aveva fame, una fame insaziabile di Rocco.

Adesso che non c’era più, persino le immagini la tradivano e il ricordo di lui si sfaldava. Erano già scomparsi il lobo destro, leggermente piegato in avanti, e la minuscola macchia rossa tra la scapola e la spalla. Per obbligare Rocco a restare, Irene gli infilava le mani tra i riccioli e bussava al suo petto, una parete di carne dove, ad appoggiarci l’orecchio, si sentiva il sangue scorrere. Lui aveva certe abitudini che erano discorsi. Quando era imbarazzato, gonfiava le narici. Disegnava un arco con il sopracciglio destro per scacciare i rimproveri. Buttava fuori la stanchezza con due colpi di tosse. Si grattava la tempia destra per trattenere l’allegria. Accanto a Irene, scottava di febbre.

Lei non riusciva a dipingerlo. Ogni volta che ci provava, il pennello le scappava di mano e l’odore dell’acquaragia le dava alla testa, peggio di una sbronza.

Per ritrovare Rocco, doveva recuperare le immagini che non facevano male. Il mare, per esempio. L’indomani avrebbe dipinto di mare il pavimento della sua stanza. Il soffitto sarebbe diventato un cielo notturno e sulle pareti sarebbe spuntata un’alba zeppa di comignoli e di rondini in volo. La creatura della prena, ormai, doveva essere già nata. Irene l’avrebbe disegnata seduta su una nuvola: «Sarà maschio o sarà femmina?» si domandava.

Sarà ciò che vorrà essere.

Irene chiuse gli occhi.

L’aria della sera incoraggiava i bei sogni.