45

Per Angiolino, il collegio non fu semplice. Tutti conoscevano il suo cognome e la ferocia con la quale il corpo di Totonnu era stato decapitato. Il Rettore, un barnabita più stanco dei suoi settant’anni, non si lasciò impressionare. Al suo arrivo si limitò a infilare la retta annuale nel primo cassetto della scrivania: «È un bravo ragazzo?» chiese alla madre.

«L’educazione è ottima, ma la ragione viene e va.»

«Non vi preoccupate. Gli faremo crescere il giudizio.»

La stanza era bianca, con una scrivania di noce nel mezzo e un tappeto a terra che nessuno aveva mai battuto. Bruna si alzò e balbettò un arrivederci, stretta in un completo color cachi che la fasciava in modo imbarazzante. Lino avrebbe voluto dirglielo: «Mamma, sembri un quarto di vacca appeso al soffitto della macelleria», ma un bacio frettoloso gli parve un addio meno mortificante. In lei, la colpa era un fatto personale che diventava pubblica vergogna. Piuttosto che affrontare i giudizi degli autri, preferiva seppellirsi ’nta muntagna. Cuncetta le avrebbe trovato qualche cosa da fare. Sapeva spennare i polli e pulirne le interiora. Tirare il collo alle galline, invece, le dava dispiacere. Il collo faceva un rumore strano, un crocchiare di ossa che le agitava lo spirito: «Ciao, picciriju. Portati bene».

Lino la guardò uscire dalla stanza. Si ricordò della donna della setta, quella con la gonna a fiori, che Bruna aveva cacciato a male parole. Vederla zoppicare gli aveva dato dispiacere.

Per quasi due anni, Angiolino rimase in collegio. In quel periodo Bruna si ammalò di gotta e le divenne faticoso spostarsi. Scendeva a Reggio per Pasqua e per Natale. I due passavano le feste all’Hotel Lucifero, pensione a una stella. Lino rigirava tra le mani il pane secco della colazione e sopportava controvoglia la stanza senza finestre che lo obbligava alla presenza della madre. I gnuri, a Fosco, parlavano di miele, mandorle e del profumo della terra quando piove. Eppure lui sentiva una puzza che lo nauseava. Peggio del collegio che sapeva di ammoniaca e dado, peggio delle camerate lunghe e strette dove dormivano in trentasei per stanza.

I barnabiti svegliavano gli studenti con la filodiffusione. In tutte le stagioni, alle cinque e cinquanta trasmettevano un Adeste Fideles che obbligava a tirare giù le gambe dal letto. Per Angiolino, invece, quella musica era una carezza. Certo non era Like a Virgin. Prima o poi avrebbe proposto una sveglia un po’ più contemporanea. Mentre i compagni si precipitavano al bagno in un gran correre di ciabatte e grida, lui indugiava. Rimboccava il letto e canticchiava, battendo i piedi sul pavimento in cotto del Cinquecento, per tenere il ritmo. Padre Rodolfo, l’addetto al dormitorio, scambiò la lentezza per pigrizia: «Quel ragazzo è una piaga» disse al Rettore. Il religioso si presentò per rimproverare. Si piazzò a braccia conserte all’ingresso della camerata, per cogliere il colpevole sul fatto. Lo vide riassettare il letto, lo sentì cantare. Si fermò ad ascoltare. Invece di punire il ragazzo con due turni di pulizia delle scale, lo chiamò a sé: «Angiolino Rusto».

«Ditemi» si confuse il ragazzo.

«Non sapevo che ti piacesse cantare.»

«Non lo farò più.»

«E perché mai? La musica è un dono dell’Altissimo.»

Il Rettore lo mandò dritto in sacrestia: «Chiedi di padre Mirello».

«Mi manda il Rettore» disse Angiolino. Il direttore della corale lo guardò da sopra gli occhiali da presbite. Gli fece cenno di accomodarsi accanto all’organo, dietro il leggio di mogano. Si accartocciò sullo strumento e pigiò delicatamente i tasti: «Ascolta e ripeti.»

«Do mi sol.»

Sol mi do, in un gran crescere di tonalità e scale.

Do mi sol, sol mi do.

La voce di Angiolino saliva, precisa e limpida.

«Ascolta e ripeti».

Do mi sol, verso l’alto, a sfidare gli angeli.

Padre Mirello smise di suonare: «Hai mai pensato di cantare?».

L’opportunità di entrare nella corale era data soltanto agli alunni più meritevoli, e Angiolino non era di certo tra di loro. Aveva la media del cinque, nonostante le bacchettate. La sua voce, però, aveva qualche cosa di spirituale. Bisogna farla fruttare, lo diceva anche la parabola dei talenti: Dio dà due perché l’uomo trasformi in cento.

Durante le ore di lezione, Lino si annoiava al punto da strusciare il sedere su una manciata di chiodini, nel tentativo di rimanere sveglio. I compagni lo prendevano in giro: «Ricchiuni» gli dicevano tirandogli aeroplani di carta e gomma da masticare. Lui premeva sui chiodi e quel gesto gli sembrava un atto di purificazione. Che parlassero pure, gli idioti. Il pomeriggio, avrebbe indossato la divisa della corale e si sarebbe accomodato in prima fila, con gli spartiti tra le mani. Padre Mirello lo aveva fatto studiare e gli aveva affidato le parti da solista. Lino aspettava il la e attaccava a cantare, con immenso giubilo del direttore che si dava da fare tra i pedali dell’organo. I compagni gli dicevano ricchiuni e figghiu ’nfami. Per padre Mirello, però, l’importante era che continuasse a cantare. Il religioso gli regalava pasticche allo zenzero, barattoli di miele d’edera e immaginette di san Gregorio Magno, protettore dei cantori. Tanta era la riconoscenza per le attenzioni ricevute, che il giovane solista si convinse addirittura di sentire la chiamata. Quella vocazionale, definitiva e sacra. Ne parlò a padre Mirello: «Lo Spirito Santo è sceso su di me sotto forma di colomba pasquale».

Il religioso si precipitò dal Rettore: «Lo Spirito Santo è sceso su di lui sotto forma di colomba pasquale».

«Deo agimus gratias.»

Angiolino raccolse i suoi stracci e lasciò il dormitorio da trentasei. Ebbe diritto a una camera singola e fu esonerato dalle ore pomeridiane di officina. Nel corso della settimana studiava canto e la domenica si esibiva davanti al vescovo, durante la messa solenne.

Il buon Dio, però, non aveva in mente nessun tipo di carriera ecclesiale e glielo fece capire chiaramente alla fine del secondo anno di collegio. Le gambe del cantore si allungarono, il busto si allargò e i piedi crebbero. Fu soprattutto la voce a cambiare. Si impastò. Divenne pigra e il timbro si fece opaco. La naturalezza del primo canto fu sostituita da un falsetto che stancava la testa e la gola. Gli acuti inciamparono negli impicci della crescita. La messa solenne perse smalto e la colomba dello Spirito Santo si dissolse.

Allibito dagli effetti devastanti dell’adolescenza, padre Mirello affidò le parti da solista a uno studente del primo anno, al quale regalò caramelle allo zenzero, miele d’edera e immaginette di san Gregorio Magno. Lino si dovette accontentare di un posto da generico, nella terza fila della corale. Se la prese con se stesso, con l’età e con padre Mirello, che ormai non gli rivolgeva neppure mezza occhiata. Se la prese persino con la colomba dello Spirito Santo. Se gli fosse capitata a tiro l’avrebbe impallinata, farcita di panna e servita tiepida al pranzo pasquale.

L’ex solista fu rispedito nel dormitorio da trentasei e i compagni di camerata si scatenarono: «Ricchiuni,» lo apostrofarono «figghiu i Giuda». Gli cosparsero le lenzuola di marmellata. In refettorio gli riempirono la gamella di piscia e chiamarono a gran voce padre Giulio Maria: «’Ngiulinu non vuole mangiare». Braccia incrociate e mento aguzzo, il religioso costrinse Angiolino a svuotare la scodella. Le giustificazioni furono inutili. Ciechi, sordi e sfortunatamente parlanti, ecco com’erano i suoi aguzzini.

Se sua cugina Irene fosse stata lì, gli avrebbe risparmiato l’umiliazione di campare. Lei lo aveva sempre difeso dal mondo, e Rocco lo aveva spinto a provare. Ma Irene era lontana e Rocco lo aveva abbandonato. Per fortuna Giovanna, la cuoca, gli dava riparo nella cucina del collegio. Era una donna di mani svelte e poche chiacchiere. Aveva i capelli radi e una narice più alta dell’altra, che lasciava intravedere la via per arrivare al suo buon cuore. Giovanna veniva da una regione confinante: «Eppure dalle mie parti l’aria è completamente differente» diceva pelando le patate. Le piaceva raccontare del suo paese, quasi che il quotidiano le imponesse la necessità di ricordare. «Da noi le feste del patrono sono un fatto eccezionale. Il comitato per i festeggiamenti è eletto di anno in anno e ha il compito di raccogliere i fondi per la processione e la fiera. I fuochi d’artificio arrivano addirittura da Napoli. Bombe a pioggia, bombe a stelle, raggi, cannelli, il cielo quella notte trema fino a quando i santi non ci cadono in testa. Per strada, la gente cucina salsicce e interiora d’agnello. Il comitato sceglie la banda a giro più prestigiosa dell’intero Meridione. Sono i solisti a fare la differenza. I musicisti girano per il paese ogni giorno per dieci giorni e, per il concerto finale, si radunano sotto un gazebo illuminato. Suonano Verdi, Puccini, Rossini, Bellini, Donizetti, Mascagni. La lirica, da noi, l’hanno portata le bande e i vecchi aspettano il concerto del patrono come il premio di un’attesa durata un anno intero. Devi vederle. Almeno una volta nella vita devi vedere le facce di quei vecchi. Gli occhi tondi, così grossi, sono annacquati di amarezza e tempo. Le labbra tremano, la saliva gli cola sul mento. C’è dell’altro, Angiolino, ecco cosa dice loro la musica. C’è qualche cosa di infinitamente più bello, superiore, longevo, dei nostri corpi che si consumano. Chiamalo Dio, arte o illusione, che importa. La felicità è una condizione dell’anima.»

Giovanna non si rassegnava alle feste locali: «Qui da voi è tutto più veloce. Forse sono io che non riesco a vedere, ma ho l’impressione che le luci si spengano troppo in fretta». Angiolino si ricordò del militare con la faccia da Pascàli. Anche lui, come Giovanna, aveva nostalgia di casa. La donna era finita a Reggio per scappare dal proprio destino ed era rimasta incastrata in quello di Benito, il marito: «Disoccupato, hai capito? Nemmeno a dire che uno va a stare meglio. No. Andiamo da me, mi ha detto Benito, al paese mio. Ho amici di amici che contano e fanno. Io gli ho creduto. Che fessa. Appena arrivati al paese, gli amici sono spariti e mio marito ha perso la testa nelle carte. A me tocca lavorare, per camparlo. Di figli non ne sono arrivati, ed è stata una fortuna».

Giovanna andò dal Rettore e chiese che Angiolino la aiutasse in cucina, dopo le lezioni. Il religioso acconsentì. Non gli importava nulla di quel ragazzino. Troppo delicato e pallido, se non era buono a cantare non era buono a Dio. Punto.

Durante il lavoro, Giovanna indossava un grembiule di fattura dozzinale. A fine turno, si cambiava nella dispensa e Lino la aspettava oltre la porta, per poterla salutare. Cosa succedesse in quella stanza, era un gran mistero. La donna indossava vestiti colorati, dal taglio semplice. Rosso, giallo, arancione e verde, la sua vita al di fuori del collegio gridava una voglia evidente di energia e sentimento. Persino i capelli, che durante il lavoro restavano raccolti, acquistavano volume e morbidezza. La narice si abbassava, rendendo più segreta – intrigante – la strada verso il buon cuore di Giovanna. Un velo di rossetto le illuminava il sorriso. Un ciondolo di latta e un paio di orecchini di poco valore, addosso a lei, diventavano coralli. E poi il profumo... Una fragranza di muschio, tiglio e brezza di mare. Dentro la dispensa avveniva il miracolo della trasformazione.

Angiolino faticava a crederci: «Tuo marito è un idiota» diceva.

«Perché?»

«Se fossi al suo posto, ti porterei a braccetto per le vie del centro.» Brillerei di te, della tua presenza.

Qual era il segreto di Giovanna? Come riusciva a fiorire?

«Come fai?» le domandava Angiolino.

«È merito della dispensa. Fa tutto da sola. Non ci credi? Vai a dare un’occhiata.»

Nello stanzino c’erano due file di scaffali, pacchi di pasta e la luce tremula di una lampadina. Lino sentì odore di miele, mandorle e terra quando piove. Si sentì mancare. Scappò via e si tenne lontano dalla dispensa fino al giorno in cui si decise a spiare dal buco della serratura. Ciò che vide cambiò per sempre il suo modo di intendere la bellezza.

Doveva aspettarselo, i gnuri non ci avevano capito niente. Altro che cunnu e miele, altro che terra quando chiovi. Il segreto stava tutto nei fruscii. Fruscii di seta e pelle. Lino non poteva smettere di guardare. Lo slip di pizzo, il gancio del collant sul bustino color crema, le coppe del reggiseno come calici gentili. L’ombelico sporgente era il segno inequivocabile dell’origine e del distacco. E la delicatezza dei movimenti, l’uso preciso della grazia. Vide la gonna scorrere sui fianchi di Giovanna e la camicetta scivolarle sui seni. La femminilità era l’alfabeto della pelle. Era donna ed era uomo, era una qualità dell’essere.

Angiolino sentì un brivido freddo e il diffondersi rapido del calore.