Il giorno dello scandalo, Giovanna fu la sola a ridere di gusto.
Per i barnabiti fu un’eresia.
Per i compagni di collegio uno spettacolo inatteso.
Per Bruna, la vergogna finale.
Angiolino non lo fece per scandalizzare e neppure per offendere. Lo fece perché in quei mesi si era sentito attraversare da un sentimento strano, un misto di accettazione e risentimento. Era cresciuto in altezza ma restava comunque il più piccolo. Aveva perso addirittura la consolazione del canto e lo sguardo benevolo che gli adulti riservano alle persone capaci. Eppure lui sentiva un tormento che bruciava e diceva che sì, c’era da muoversi e mostrarsi e parlare, perché di pochi attimi era fatto il presente. Vivi, gli diceva il tormento, tira su la testa come fanno i girasoli anche quando sono stanchi. Vai verso l’esistenza, colorata o pallida che sia. Mostra ciò che sei, liberati da ciò che non sarai mai.
Successe alla fine del secondo anno, poco prima della messa di giugno aperta ai genitori dell’istituto. La chiesa era già piena. I fogli della liturgia sfarfallavano tra le mani e l’odore dolciastro delle calle si mischiava al sudore dei presenti.
Angiolino aprì la porta della dispensa e la richiuse alle sue spalle. Accese l’unica lampadina. Si infilò di nascosto la maglia di Giovanna e la strinse con un nodo doppio all’altezza dell’ombelico. Indossò la gonna a pieghe e regolò la taglia con una molletta per il bucato. Tirò fuori da una borsa un pugno di pennarelli. Si dipinse gli occhi e le labbra, mentre con il rosa – finalmente – si colorò le guance perché sembrassero rotonde. Le scarpe erano quelle da ginnastica, ma senza i calzini di cotone. Con quell’abbigliamento addosso, entrò in chiesa dall’ingresso principale.
Arrivò in anticipo. Nessuno si accorse di lui, che non fece nulla per nascondersi. Attraversò la navata e si arrampicò sulla scala a chiocciola che portava alla cantoria. La messa non era ancora cominciata. Padre Mirello era in sacrestia, dove i cantori si infilavano le divise. Il ragazzo si sistemò al centro della predella, davanti al leggio del solista. Si assestò sulle gambe smilze, si schiarì la voce e attaccò a cantare. Il brusio si zittì e la gente, tutta, si sporse a guardare. Il viso di Lino si accese, il collo si allungò. Le braccia si stirarono nel tentativo di aiutare la voce a salire verso san Pietro che, dall’alto di un affresco, osservava lo spettacolo con le chiavi del paradiso che tintinnavano in una mano. La voce di Lino riempì l’aria di sconcerto: Like a Virgin, taccd for de veri forst taim.
Il problema principale dell’assolo non fu il risultato, per quanto deludente, e neppure il repertorio contemporaneo. Fu l’abbigliamento a scandalizzare. In mezzo al silenzio della folla, bastò un commento a far scoppiare le reazioni dei fedeli: «U ricchiuni si vestìu i festa» urlò uno dei cantori. E giù tutti a ridere, a insultare, a lanciare cartacce e persino qualche messale. Bruna riconobbe la voce del figlio e si lasciò svenire, sollevando al cielo i piedi gonfi di gotta. I vicini non la notarono, impegnati com’erano a sghignazzare. Il Rettore si precipitò in cantoria: «Tu,» tuonò contro il solista «essere blasfemo e nemico di Dio». Afferrò Angiolino per un orecchio, gli mise una mano sulla bocca e lo trascinò giù per la scala a chiocciola. I fedeli si fecero il segno della croce per scacciare il demonio dal peccatore in transito. Giovanna, invece, saltò in piedi su una panca e si mise ad applaudire: «Bravo, ’Ngiulinu» disse. «Al paese mio, questa si chiama resurrezione!»
Il Rettore, occhi rossi e indice infuocato, additò il portone: «Fuori di qui» ordinò a entrambi. «E non tornate.»
«Corri» disse Giovanna.
Lino si liberò dalla stretta del religioso, agguantò la mano della donna e si precipitò verso il portone principale. I due scapparono per i vicoli, si buttarono in mezzo alla strada, schivarono le auto e si infilarono su una corriera. Non appena le porte si chiusero alle loro spalle, Angiolino si accasciò su un sedile. Giovanna gli accarezzò la fronte: «Andiamo a casa».
«Non ho una casa.»
«A casa mia.»
Abitava in periferia, in un appartamento di due camere più cucina. Nel tinello, accanto a un dalmata di porcellana e sopra un tappeto sporco di cenere, c’erano un tavolo e due sedie scompagnate. Alle pareti, un crocifisso e un quadretto dei santi Cosma e Damiano. Una tenda di conchiglie separava il soggiorno dalla cucina. Seduto sul divano, Angiolino riusciva a vedere il forno a gas, un piccolo frigorifero e la piattaia. Che strano. Quel posto non assomigliava a Giovanna: «Vivi da sola?».
«Con mio marito Benito. Ma non c’è mai. Di solito è al bar, a giocarsi il mio stipendio.»
Sfilò una sigaretta dal pacchetto appoggiato sul tavolo: «Fumi?».
«No.»
«Sei stato coraggioso.»
«Lo pensi davvero?»
«Certo. È stato un bel modo di farti cacciare.»
«Non volevo farmi cacciare.»
«Ci sei riuscito lo stesso. È stato divertente. Adesso dove andrai?»
«Non lo so. Mia madre non vorrà più saperne. Forse potrei tornare da Irene.»
«Chi è?»
«Mia cugina. Mia sorella. Sono cresciuto con lei e con Rocco, il suo innamorato. Io, a vederli insieme, mi immaginavo che si potesse vivere contenti.»
«Si può vivere contenti.»
«A Rocco gli hanno sparato.»
«Mi dispiace.»
«Anche a me.»
«Non esistono vite senza dolori. Quando aveva la tua età mi illudevo del contrario. Ero più innocente.»
Giovanna disegnò un cerchio di fumo e cominciò a raccontare una di quelle sue storie che non finivano mai. Forse erano la conseguenza della solitudine, pensò Angiolino. La solitudine rende silenziosi o bisognosi di ascolto.
«A casa mia,» disse Giovanna «l’amore era qualche cosa di scontato. Non se ne parlava. Si stava insieme perché quello era il destino, e non c’era da discuterne. Mio padre e mia madre avevano una panetteria. Se ne stavano tutto il santo giorno in negozio, eppure – ci credi? – si incontravano soltanto per sbaglio. Il mio vecchio aveva imparato il mestiere da suo padre, che gli aveva lasciato in eredità il forno e quattro risparmi chiusi in una scatola di scarpe. Faceva i panzerotti migliori del litorale. Arrivavano addirittura da Lecce per mangiarli appena sfornati. Sapevano di inizio. Mia madre si era sposata giovane, allora si usava così. In negozio i clienti non mancavano. Non c’erano sabati, domeniche e feste consacrate. Ogni sera mia madre chiudeva la serranda alle otto in punto e mio padre già dormiva. Il giorno successivo, quando riapriva, il secondo giro di pane era già in forno. Mamma si ammalò che io avevo tre fratelli e diciassette anni. Portami al mare, la sentii chiedere a mio padre. La domenica, prima del matrimonio, andavano sul litorale e ci tornavano ogni anno a ferragosto. Ma non voglio andare sul litorale, disse mamma, portami su un altro mare, su un mare che non conosco. Che non sappia di pesce azzurro e di alghe. Un mare così non esiste. Invece sì. È sempre caldo, anche d’inverno, e ci si può specchiare. Mio padre non trovò mai quel mare, non fece neppure la fatica di cercarlo. Mamma ci lasciò di mercoledì, il giorno dei panzerotti con gli spinaci. Non sono più riuscita a mangiarli.»
Giovanna spense la sigaretta in un posacenere a forma di cavallo.
«Adesso tocca a te, mi disse il vecchio allungando un grembiule con la pettorina sporca. Erano passate quattro ore dal funerale e il salotto di casa sapeva ancora di caffè e parenti. Quello sarebbe stato il mio destino. Centinaia di giornate tutte uguali, che iniziavano e finivano in un forno. Una pagnotta, due friselle, mezzo chilo di taralli. Desidera altro, signora Pesce? A domani. Due pagnotte, una puccia e una focaccia rotonda per lei, signora Caputo. A domani. Domani? Che assurdità. Non c’era domani. Benito lo incontrai a ferragosto. Giocava a pallone sulla spiaggia e aveva un costume verde, troppo piccolo per la sua taglia. Mi misi a ridere. Che hai, mi chiese infastidito. Nulla, risposi. È per il costume. Non è mio, l’ho rubato. Era steso laggiù, ad asciugare. E perché l’hai rubato? Perché io, della roba mia, non ne ho mai abbastanza. Pensavo scherzasse. Mi sbagliavo. Benito mi piaceva. Aveva il sorriso largo. Andò fino al baracchino dei ghiaccioli e ritornò con una granita. Menta, disse porgendomi il regalo. Alle donne piace la menta forte. Mi misi a ridere. Povero stortu e povera me. Scambiai un giorno di felicità con dieci anni di attese.»
«Ti sei pentita?»
«Mi sono intristita. Pensavo di amarlo, ma mi sbagliavo.»
«Che cos’è l’amore?»
«Non l’ho mai saputo. Forse è il nome romantico che diamo a un bisogno.»
«Irene e Rocco si amavano.»
«Tu come lo sai?»
«Era la loro pelle, a sorridere.»
«Allora sì, si amavano.»
«Mi spiace, Giovanna.»
«Di che?»
«Per colpa mia, non ti faranno più lavorare.»
«Il lavoro non era un granché. Me ne tornerò al paese. Uno dei miei fratelli si occupa del forno. Gli altri due hanno un autolavaggio vicino all’autostrada. Darò una mano. Mio marito non si accorgerà della mia assenza fino al prossimo debito da pagare. Se mi verrà a cercare, i parenti gli diranno che no, ti sbagli. Giovanna non c’è, non l’abbiamo più vista.»
«È così facile ricominciare?»
«Tutte le storie cominciano da un inizio.»
L’estate era in anticipo. La donna aprì la finestra, bagnò l’indice nella saliva e sfregò il viso di Angiolino: «Ci vorrà un po’ di pazienza per far andare via il pennarello dalla faccia. Hai fame?».
«Sì.»
«Preparo le uova fritte.»
Entrò in cucina e si allacciò il grembiule in vita. L’olio si mise a sfrigolare.
«Giovanna?» chiese Lino, alzando la voce.
«Sì.»
«Posso farti una domanda?»
«Un’altra?»
«Se ti dicessero che la fine del mondo sta per arrivare, tu che cosa faresti?»
Giovanna spuntò dalla tenda di conchiglie: «Sinceramente?».
«Davvero davvero.»
«Mi farei una gran bella scopata.» Rientrò in cucina: «Con padre Giulio Maria».
«Quello del refettorio?»
«Proprio lui. Sulle uova ci vuoi il pepe?»
Lino si sentì arrossire: «Il bagno dov’è?».
«La prima porta a destra.»
«Il pepe no, non ce lo voglio.»
«Peccato, non sai cosa ti perdi.»