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L’indomani mattina, Lino se ne andò. Giovanna gli diede qualche soldo e una tuta da ginnastica che al marito non andava più: «Abbi cura di te» si raccomandò. «Hai paura?»

«Un po’.»

Il ragazzo la salutò con un bacio leggero sulla guancia. Fu sollevato di lasciare quella casa, così diversa dalla donna che la abitava.

Raggiunse a piedi la stazione, entrò al bar e ordinò un panino e una limonata con ghiaccio. Si guardò attorno. Vide un telefono pubblico ed ebbe la tentazione di cambiare gli spiccioli in gettoni: «Pronto, Irene?» avrebbe detto.

«’Ngiulinu

«Torno a casa.»

Forse il telefono avrebbe suonato a vuoto, oppure la cugina avrebbe risposto dopo il primo squillo. Di certo si sarebbe meravigliata di sentire la voce giovane di un uomo. Eppure c’era qualche cosa che lo tratteneva. Sui tetti di Fosco, aveva immaginato di andarsene via. Il sabato sera, quando si stringeva a Bruna sul divano sfondato dal lato delle fìmmine, desiderava essere al di là dello schermo, vestito di lustrini e allegria. Lui voleva fare il varietà. Voleva una vita differente.

Nella sala d’attesa della stazione c’erano decine di passeggeri. Gli piacevano le partenze perché contenevano un destino. A ogni viaggiatore avrebbe voluto chiedere «Dove vai? Perché vai? Quali sono i tuoi programmi?», ma le sue domande sarebbero state invadenti. Se si fossero rivolti a lui nello stesso modo, Angiolino non avrebbe saputo rispondere. Avrebbe balbettato qualche cosa di incoerente: «Dove vado? Non lo so. Parto e si vedrà. Non ho programmi, non ho amici che mi aspettano». Per la prima volta, il vuoto gli sembrava una possibilità imperdibile.

Si decise. Prese l’unico treno in partenza per la capitale. Il viaggio fu più lento del previsto. Il convoglio si fermò a ogni passaggio a livello, per uno sciopero dei casellanti che fece imbestialire lo scompartimento. Per Lino, invece, la lentezza era consolatoria. Gli dava il tempo di immaginarsi l’arrivo in città. Per prima cosa, avrebbe cercato un posto dove dormire. Qualche cosa di economico. I soldi di Giovanna sarebbero bastati al massimo per una settimana. Doveva trovare un lavoro e informare la madre che era disgraziato, sì, ma vivo. Voleva sapere se lei fosse sopravvissuta al suo Like a Virgin o se fosse spirata sul pavimento della chiesa, tra l’acquasantiera di marmo rosa e l’affresco di san Pietro. Che cosa l’aveva colpita di più? La voce roca, la gonna a pieghe o le scarpe da ginnastica senza i calzini di spugna? Bruna si raccomandava tanto: «Infilati i calzini, ’Ngiulinu, che altrimenti ti viene l’umidità ai piedi e ti crescono i funghi».

Quella donna puzzava, Dio mio. Puzzava di cunnu andato a male.

Un lieve senso di nausea lo accompagnò per tutto il viaggio. L’arrivo fu caotico. Scese a fatica dal treno e si ritrovò nella stazione piena di gente in transito. Qual era il motivo di tanta fretta? Le giornate di Fosco erano pigre e si acciambellavano attorno all’ora di pranzo, a riposare. Nella capitale, invece, i viaggiatori erano di corsa e trascinavano Angiolino di qua e di là, nel tentativo di levarselo di mezzo. L’altoparlante annunciò il treno delle sedici e quindici in partenza per Anzio. Il treno delle sedici e diciotto in partenza per Napoli. Il treno delle sedici e ventuno in partenza per Firenze.

Muoversi camminare spostarsi fu il primo degli sforzi.

Lino si ritrovò nell’atrio. Destra o sinistra? Destra, come la mano che usava per scrivere. Prese l’uscita, attraversò la strada e imbucò una via secondaria. Inciampò in un senzatetto che dormiva su un cartone, accanto a due bottiglie vuote e a un pugno di monetine. Le contò. Settantacinque lire. In un foglio appiccicato su una vetrina, lesse un annuncio. Pensione Il Centurione. Riservatezza, pulizia e prezzi modici. Pagamenti settimanali. Chiese qualche informazione: «La prima a destra, in fondo a sinistra» e, dopo qualche tentativo, arrivò.

Il Centurione era un edificio a tre piani, piuttosto fatiscente. Jolanda, la padrona, fumava due sigarette alla volta. Se le infilava nel lato destro della bocca e le lasciava lì, a consumare. Storceva il naso e sbuffava per impedire al fumo di nasconderle la faccia. Poteva avere più di settant’anni. L’età non era riuscita a smussare il suo metro e ottanta di altezza. Le aveva leggermente incurvato le spalle e uncinato le mani, con gran dispetto della donna che non si aspettava la beffa di invecchiare. Quando era giovane, caricava e scaricava frutta al mercato generale. Non si era mai sposata: «Non ho mai trovato nessuno alla mia altezza» rideva, facendo tremare le due sigarette infilate tra le labbra. Amanti sì, ne aveva avuti parecchi. Contrabbandieri, un pasticciere, addirittura un nano. Sì, un nano. E allora? Non era mai stata adorata con tanta dedizione. Al nano c’era voluta una giornata intera per amarla. Era partito dai piedi e, centimetro dopo centimetro, era arrivato alla testa, benedicendo via via quella distesa assoluta di grazia.

Da lui, Jolanda aveva rilevato Il Centurione. Quando Angiolino suonò alla porta, non gli chiese neppure i documenti: «Sei maggiorenne?».

«Sì» mentì lui, che sotto l’ombra della donna pareva addirittura più piccino.

«Quanto ti fermi?»

«Tre giorni.»

Furono tre settimane. Tre mesi. Furono anni: “Irene” si diceva ogni volta in cui arrivava un anniversario. “Sono qui da un anno. Sono qui da due. Oggi ti telefono e, se non rispondi, ti scrivo una lettera. Voglio sapere come stai. Cosa fai. Cosa disegni sul tuo quaderno arancione. Se soffri o se hai ritrovato il sorriso. Se ce l’hai con me o se ancora mi aspetti.”

Invece rimandava. Si chiudeva in camera e attendeva il mattino. Alla fine Lino diventò maggiorenne nella pensione Il Centurione, nella camera senza bagno che dava sul binario quindici della stazione Termini. I suoi vicini erano una puttana e un disoccupato che ascoltava solo Radio Radicale.

La sua stanza aveva un letto singolo, un fornellino a gas, un armadio e un lavabo. Il bagno era sul pianerottolo. Lino si era comprato un ciclamino e una pianta grassa. Li aveva messi sul davanzale e li guardava sopravvivere, uno bisognoso di acqua e l’altro rinchiuso in un guscio di aghi che pareva una prigione. Le pareti dell’albergo avevano macchie antiche di perversioni e miseria. Quando Lino si sentiva triste, ficcava la testa sotto il cuscino. I suoi sogni si andavano sfaldando. Si manteneva lavorando in un bar e la sera prendeva lezioni di danza in una palestra comunale. Conservava con cura un unico barattolo di brillantina e ogni tanto si pettinava i capelli all’indietro, come quando era ragazzino e l’aria di Fosco lo obbligava alla fantasia: «’Ngiulinu» lo rimproverava Totonnu, bussando alla porta del bagno. «Esci da lì che si fa l’alba.»

Una domenica mattina si regalò una possibilità. A Cinecittà c’era una coda di gente lunga quanto un treno merci. Si mise in fila tra un’adolescente in minigonna e un trentenne strabico. Compilò una scheda e attese il suo turno: «Angiolino Rusto» lo chiamò una voce aguzza. Si incamminò lungo un corridoio ed entrò in una stanza bianca con i mobili bianchi le luci bianche le facce bianche. Nome e cognome, chiese una donna distratta, dalle labbra rossissime. Età, luogo e data di nascita: «Cosa sai fare?».

«Cantare e ballare.»

Lino porse il nastro. Like a Virgin, taccd for de veri forst taim. Due uomini con gli occhiali e la donna distratta lo osservarono per pochi istanti: «Basta così» disse la donna.

«Quando posso cominciare?» chiese Lino.

«A fare che?»

«Il varietà.»

«Per lavorare nel varietà, occorre il talento.»

«Io ce l’ho, il talento.»

«Le faremo sapere tramite raccomandata.»

«C’è posta?» domandava rientrando la sera al Centurione. Jolanda scuoteva la testa e lasciava cadere a terra la cenere delle due sigarette.

Per campare, continuava a fare il cameriere. Dopo lo scandaloso assolo consumato nella chiesa del collegio, non aveva mai più indossato una gonna. Irene aveva gonne corte, lunghe, trasparenti, svasate, a pieghe, e ci svolazzava dentro contenta. Quando aveva giocato alla Carmen, Lino si era divertito. Aveva infilato l’abito a balze con la scritta PRINTEMPS sul petto. Si era dipinto le labbra e si era sistemato un foulard in modo che sembrasse una treccia di capelli corvini.

«Che fai, scostumato?» lo aveva umiliato il padre.

«La Carmen, papà. L’ho vista in tv, l’altro ieri notte.»

«La Carmen?»

«Sì, la zingara. La cantante.»

«Ma che zingara e che cantante, sei la vergogna del mio cognome!»

Quelle parole ancora ferivano. Doveva imparare a prendersi in braccio da solo.