In un pomeriggio di pioggia, Angiolino tornò dal bar e si sdraiò sul letto a riposare. Qualcuno bussò alla porta. Forse era Jolanda che lo avvisava di una raccomandata in arrivo da Cinecittà.
Invece era la puttana della stanza accanto: «Sono Cesira, la tua vicina».
«Che vuoi?»
«Invitarti a cena. Devo proporti un affare. Ti aspetto da me alle otto, puntuale.»
Non aveva mai scambiato più di un buongiorno con quella donna, magra come una canna di palude. Assomigliava a zia Nuzza, aveva lo stesso modo ossuto di respingere. Si presentò all’appuntamento con una mignon di acqua minerale: «Non bevo questa robaccia» lo rimproverò Cesira. «Mi fa male al sangue.»
La stanza era più grande di quella di Lino. C’era della carta fiorata alle pareti e persino un divano rosso. Su una mensola al fondo, accanto al lavabo di ceramica, decine di statue di santi si mischiavano a bottiglie di grappa e gin. Su un tavolino con una sola gamba, c’erano due piatti e una candela dorata: «Siediti» disse la donna, che girava per la camera con un reggiseno nero e un paio di mutande color carne. «Non lì, quello è il mio posto.»
Lino si accomodò sul letto. Cesira accese la candela: «Ti piace il purè di patate?».
«Abbastanza.»
«È finito. La prossima volta mi organizzerò meglio.»
«Di che cosa vuoi parlarmi?»
«Te l’ho detto, voglio offrirti un lavoro. Si tratta di una cosa semplice. Bisogna contrattare un prezzo, fare quello che chiedono i clienti e prendere i soldi.»
«Tutto qui?»
«Tutto qui.»
Non si fidava di Cesira. Aveva una peluria folta sopra le labbra e attorno all’inguine: «Gli uomini vogliono solo una cosa» disse ad Angiolino, buttandogli davanti due toast al prosciutto e un bicchiere di gin tonic: «Per campare basta un buco. Un buco soltanto».
Si sedette a tavola e sbadigliò: «Quello ce l’ho, più d’uno. Io di fame non muoio.»
Aveva qualche cliente dai gusti particolari: «Tu mi sembri la persona giusta. Dimmi un po’, da che parte stai?».
Angiolino la guardò, con il toast al prosciutto a mezz’aria: «In che senso?».
«Su dai.»
«Veramente io...»
«Non dirmi che non c’hai mai pensato.»
«Mai.»
«Sei ancora un innocente?»
«Non lo so.»
«Sì o no, in quelle cose lì le mezze misure non c’entrano.»
Angiolino arrossì. La donna rise: «Oh Vergine gaudiosa!». La radio del vicino trasmetteva un comizio di Pannella.
«Vieni qui» disse Cesira.
«Non posso, devo andare.»
«E dove? Non c’è nessuno che ti aspetta.»
La donna si avvicinò, lo sollevò per le ascelle e lo rovesciò sul letto. Si mise a cavalcioni e, tra una carezza e uno schiaffo, gli spiegò la vita: «Lasciami andare» provò a difendersi Angiolino.
«Non vedo l’ora.»
A Lino, quel corpo ossuto di femmina parve un’arma una minaccia un’invasione. Al paese gli uomini dicevano che u cunnu era il frutto più dolce del mondo, eppure per lui u cunnu puzzava di mela abbandonata in un cassone. La madre – sua madre – aveva lo stesso odore quando si addormentava a gambe larghe sul divano del soggiorno.
«Ti è piaciuto?» gli chiese la puttana, mentre si riallacciava il reggipetto.
«No.»
«Allora sei uno da bastone, credi a me.»
Angiolino scappò nella sua stanza e si chiuse a chiave: «Ehi» bussò la donna. «Per quel lavoro che fai, accetti oppure no?».
Era nauseato: «Vattene» gridò con la testa già sotto il cuscino. Per mesi aveva spiato la vicina dalla finestra che dava sul balcone. Le mutandine messe ad asciugare gli ricordavano Giovanna e la magia delicata che avveniva nella dispensa del collegio. Gli elastici rotti e le cuciture sfilacciate, però, denunciavano la sciatteria con la quale Cesira si agghindava col solo scopo di scoprirsi in fretta. Nella sua persona non c’era nulla che assomigliasse alla cura. Cesira non possedeva il mistero. C’erano donne e c’erano fìmmine, ecco che cosa gli era capitato di imparare. Si ricordò ancora una volta della sconosciuta che aveva bussato alla sua porta per annunciargli la fine del mondo. Bruna l’aveva cacciata via e lei se n’era andata zoppicando. Lino aveva provato qualche cosa che assomigliava al dispiacere. Non era mai più riuscito a liberarsi da quel peso.