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Nonostante la disastrosa parentesi amorosa, l’amicizia con Cesira cominciò proprio quella notte. Lino non riusciva a prendere sonno: «Irene» chiamava.

«Mi sono sfregato dappertutto con il sapone da bucato. Mi sono lavato fino a lacerarmi la pelle. Non riesco neppure a rigirarmi nel letto. Eppure ho ancora addosso quell’odore di mela buttata in un cassone.»

La cugina gli appariva nei pensieri che si mischiavano ai sogni: «’Ngiulinu, torna a casa.»

«Non posso, Irene.»

«Perché?»

«Non sono ancora nato.»

Lino si rese conto di non avere amici. Scambiava qualche parola con Jolanda e con i colleghi del bar, ma erano discorsi vuoti, lontani dall’intimità delle chiacchiere sul tetto del magazzino. Si può vivere in mezzo agli altri ed essere tremendamente soli. Ecco che cosa erano stati, Irene e Rocco, per lui: una casa, un orecchio, un luogo fatto di gente e affetti.

L’indomani, Angiolino tornò a bussare alla vicina: «Non sono qui per quel lavoro» disse.

«Allora che vuoi?»

«Compagnia.»

«A pagamento?»

«No.»

«Hai sbagliato porta, prova dal disoccupato.»

«Non ho sbagliato porta. Io aspetto.»

Giovanna era bella. Irene era ancora più bella. Cesira invece era un surrogato, una femmina in avanzo. Ma era quello che c’era, e lui voleva essere amato.

«Fammi entrare» chiese tornando a bussare.

«Puoi pagare?»

«No.»

Il giorno successivo si ripresentò: «Sono qui fuori».

Quello dopo: «Apri».

E quello dopo ancora: «Buon compleanno».

«Oggi non è il mio compleanno.»

«Non importa. Ho comprato delle paste, festeggiamo.»

Alla fine Cesira cedette: «Maledetta a me che sono venuta a cercarti. Perché mi tormenti?» domandò, aprendo la porta avvolta in una vestaglia a quadri.

«Voglio parlare.»

«Parlare?»

Cesira gli buttò in faccia il fiato carico di gin tonic.

«E di che cosa vuoi parlare?»

«Di te, di me, di quello che fai e di come sei. Di ciò che ero io, di come sono diventato.»

«Ma a me non importa.»

«A me sì.»

«Sei strano, tu.» Sospirò. «Entra» gli disse. «Prima però versami da bere.»

Indicò la mensola al fondo della stanza, dove le statue dei santi si confondevano con le bottiglie.

«Sei credente?»

«No. I santi sono di un cliente. Me li porta perché io li conservi, a protezione della vita loro e di quella sua. Sua moglie è una pazza. Quando perde la ragione, li tira dal balcone. Tu sei credente?»

«Non abbastanza.»

«Dietro il punch trovi san Francesco. Lo riconosci dal lupo. Santa Lucia invece è quella con gli occhi sulla coppa. La tizia accanto alla grappa, con la corona di rose in testa, è Santuzza, santa Rosalia. Il pelatino è san Giuda Taddeo, protettore delle cause perse e disperate. Da non confondere con l’Iscariota, il traditore dei trenta denari. San Bartolomeo, santa Teresina, santa Rita da Cascia. Io sono una specie di monte dei pegni spirituali. Offro protezione e ricovero in cambio di peccati da perdonare.»

«Cosa ti preparo?»

«Acqua, limone e gin, senza ghiaccio.»

La donna si sedette sul divano rosso e Lino le passò il bicchiere.

«Non mi era mai capitato.»

«Che cosa?»

«Di incontrare qualcuno che volesse parlare.»

«Cominciamo da te.»

«Fammi una domanda.»

«Quando hai iniziato a lavorare?»

«A fare la puttana?»

«Sì.»

«Perché ti interessa?»

«Per curiosità, per noia. O tanto per sapere.»

«Ero giovane. Cominciai per gioco, su consiglio della mia amica Gina che già lavorava su una statale. Lei aveva due pellicce di rat mousquet che mi facevano invidia. Una lunga fino ai piedi, marrone. L’altra era una stola. Come te le sei comprate, le avevo chiesto. Me le hanno regalate. Chi? Certi amici con i soldi. In cambio Gina gli faceva i servizi, li chiamava così. I servizi. Cosa sono? Nulla di particolare: due carezze, un po’ di compagnia. Ci vai a letto? Andarci a letto era un’espressione che sentivo ogni tanto in televisione, nei telefilm a puntate che mia mamma guardava la sera, sul canale nazionale. Quando sentiva quell’espressione – Ci sei andata a letto? Sì, ci sono andata a letto – la povera donna abbassava lo sguardo e cambiava canale. In camera tua, ordinava. Perché? Giulio, diceva a mio padre, manda a dormire la bambina. La bambina. Portavo il reggipetto. Gaudino mi aveva già toccato le tette a una festa di compleanno. Ci eravamo chiusi dentro un armadio: fammi toccare, mi aveva detto. Va bene, ma sotto la canottiera no. Gaudino non era gentile. Mi fai male, gli dicevo, spostati. Lo avevo cacciato. Ero uscita dall’armadio e avevo richiuso in fretta l’anta con un giro di chiave. Lo avevano trovato il giorno successivo. Lui veniva alla mia scuola. Era avanti un anno. Non sono più riuscita a guardarlo in faccia. Gaudino, di me, diceva che ero una che ci stava. Un giorno due della sua classe mi fermarono all’uscita di scuola: ehi, ce lo fai un servizio? Un servizio. Anche loro lo chiamavano così. Gina diceva che c’erano servizi e servizi. Alcuni leggeri come un biglietto da mille, altri pesanti come un centone. E se fa male, le avevo domandato, se non mi piace? Chiudi gli occhi e conta. Uno due tre quattro cinque novanta centotré. Di solito finisce tutto prima di arrivare al centoquarantotto. Centoquarantotto. Sembrava facile. Ci avevo provato. Il mio primo cliente fu un corpo che mi rimbalzava addosso e non mi guardava. Centocinque, centosei, centosette. Sapeva di aglio e deodorante da uomo. Centootto, centonove, centodieci. Non ho mai saputo il suo nome. Finì a centoquaranta. Mi lasciò ventimila lire in mano, poi uscì dalla mia vita e dalla stanza. Con quelle ventimila lire ci comprai un pitale. Proprio così, un pitale. Non andavano più di moda ma io ricordavo che mia nonna ne aveva uno di ceramica smaltata, che teneva sotto il letto. Abitava in campagna, a pochi chilometri dal lago. Il suo materasso, alto quattro spanne, era caldo a sinistra, dalla parte delle vedove. La casa sapeva di insetticida e burro. Andavo da lei durante l’estate. Nonna si svegliava verso le tre del mattino. Strusciava il pitale sul pavimento, sollevava la camicia da notte, si accovacciava e pisciava. Quando morì, mia madre buttò il pitale nel cassone dei rifiuti, insieme ai vestiti neri e a un paio di borsette di pelle che servivano per i rosari e le caramelle di zucchero. Cercai un pitale identico, di ceramica smaltata a fiori blu. Lo trovai da un antiquario e lo pagai ventimila lire, più del doppio del suo valore. Non mi importava. Volevo quell’oggetto. Lo portai a casa e lo misi sotto il letto. La notte mi svegliavo, arrotolavo la camicia da notte e mi accovacciavo. Il corpo mi bruciava, la pelle mi bruciava, la cosa mi bruciava. La cosa. Non sono mai stata capace di chiamarla figa, vagina o passera. Mia madre, a sentire certe parole, si faceva il segno della croce. Lavoravo a casa di Gina che, nei giorni dispari, mi prestava il letto a percentuale. Lei si era fatta l’auto e lavorava già sulla statale. C’è più gente, diceva. Il giro è abbondante. Mi passava i clienti che puzzavano, i vecchi e quelli che superavano il centoquarantotto. Oltre il centoquarantotto era una penitenza. A me piacevano i pensionati. Il Lucio, Maurizio Tortina e Pino Bestemmia venivano da me e mi guardavano beati come davanti alla Madonna. Girati un po’, figlia mia, dicevano. Fammi vedere. Fatti sfiorare, ma senza fretta, che alla mia età non c’è certezza. Quando Pino Bestemmia non riusciva a concentrarsi, non c’era verso di sollevargli il morale. Allora tirava giù un sacramento e scoppiava a piangere, peggio di un bambino. Io me lo stringevo al petto, a questo petto che è sempre stato magro al punto da vederci le ossa e il cuore. Grazie grazie, mi diceva Pino Bestemmia tra le lacrime. Mi veniva voglia di dormire, non per fargli dispetto.

Cesira allungò il bicchiere. Lino si affrettò a riempirlo.

«Poi lei lo venne a sapere.»

«Chi?»

«Mia madre. Glielo disse Pino Bestemmia, che alla fine con me ci veniva tutti i sabato mattina, e qualche volta anche gratis. Vado a letto con sua figlia, le disse citofonando a casa un giovedì, prima del telegiornale delle venti. Va a letto con? Mia madre abbassò lo sguardo ma il vecchio rimase lì, davanti alla porta aperta solo a metà. Scusi? Proprio così. Le do diecimila lire a servizio. Deve aver sbagliato casa. Cesira. Cesira è sua figlia, no? È una brava ragazza, si può ancora salvare. Mia madre gli sventolò davanti un cucchiaio sporco di pastina: se ne vada, lo minacciò. Giulio, chiamò, ma mio padre preferì chiudersi in bagno. Mia madre mi picchiò. Mi cacciò la testa sotto l’acqua gelata. Mi costrinse a confessare: via, disse. Vattene. Hai portato la perdizione e il peccato in questa casa. Non me lo feci ripetere. Presi la mia roba e me ne andai. Gina mi ospitò per qualche giorno, ma si stancò in fretta: sono quaranta metri quadri, disse. Un lavoro ce l’hai, càmpati. Vagai per qualche settimana. Milano, Torino, Bologna, Modena. Pensai persino di emigrare in Svizzera. Tutti dicevano che era un buon posto per ricominciare. Alla fine presi un treno per la capitale. Non volevo andarmene senza avere mai visto il Colosseo e il Santo Padre. Capitai al Centurione con un cliente. Era una notte di maggio. Gli asciugamani sono sul letto, mi disse Jolanda. Attenta a non sporcare. La sera dopo tornai, ma senza clienti. Infilai il pitale sotto il letto e decisi di restare.»

Lino si chinò e vide il pitale bianco, a fiori blu.

«C’è ancora.»

«Certo.»

«Lo usi?»

«Tutte le notti. Adesso tocca a me domandare» disse Cesira. «Come sei arrivato?»

«Ho trovato una pubblicità sulla vetrina di un negozio. Pensavo di restare qualche giorno, invece mi sono fermato.»

«Succede a tutti.»

«Vengo da un paese del Sud. Non so, forse sono scappato. Non l’ho ancora capito. Per vivere lavoro in un bar. Non mi piace, mi tremano le mani. Guadagno giusto i soldi per l’affitto e per mangiare. Per pagarmi un corso di ballo, ho dovuto fare gli straordinari. Tu quanto guadagni in una settimana?»

«Più di te.»

«Dimmi quanto.»

«Prima versami un altro bicchiere.»

«Non ho voglia di parlare di me. Preferisco ascoltare.»

«Te l’ho già detto. Sei strano, tu.»

Angiolino rimase con Cesira fino all’alba. Lei gli raccontò del lago di Como dove era nata, che se non lo conosci può sembrare triste ma che se ci sei nato è come una creatura che un giorno sorride e l’altro giorno piange. Parlò di Demetrio l’artista, che la pagava per fotografarla lì, in quella stanza, seduta sul pitale in mezzo alle bottiglie di grappa e alle statue dei santi. «Che ci fai con le fotografie?» gli aveva domandato. «Le conservo.» Un giorno si era ritrovata su una rivista. Era dal dentista ed era saltata sulla sedia dallo spavento. La foto sul giornale le era sembrata un tradimento. Non aveva più rivisto Demetrio.

«E l’uomo che sta qui accanto?» chiese Angiolino.

Era stato un sindacalista, poi lo avevano trovato con una mazzetta ed era finito in disgrazia. Lui sosteneva di essere stato incastrato e ce l’aveva con il mondo, ce l’aveva soprattutto con Dio.

Lino si abituò alla voce roca di Cesira, al suo modo sciatto di fumare e alle sue vocali del Nord, sempre troppo aperte.

Quando la donna lavorava, lui si ritirava nella propria stanza. Non appena il cliente si allontanava, bussava alla porta con una bacinella di acqua calda. Cesira immergeva le mani e si strofinava, per togliersi di dosso il peso dell’umano.

I due si accomodavano nel bagno, lei con la crema al cetriolo sul viso e lui seduto sullo sgabello di fronte al lavabo. Cesira gli massaggiava la fronte con i polpastrelli tiepidi: «Sei così giovane» diceva. «Alla tua età, prima che Gina mi facesse conoscere la vita, volevo fare tante cose. La maestra, l’infermiera, la benzinaia. La gente che viaggia, mi dicevo, arriva sempre da qualche parte. Invece io ero senza meta.»

Cesira spalmava un velo di fondotinta sul viso di Angiolino, poi lo incipriava. Gli disegnava le sopracciglia e gli contornava gli occhi di nero: «Il fard ti sta bene. Ti dà un colorito spensierato».

Lo invitò a indossare i vestiti che teneva nell’armadio: «Questi li conservo nel cellophane, per quando mi sposerò».

«Sposarti è il tuo sogno?»

«No, è la mia intenzione. Il mio sogno è un altro.»

«Quale?»

«Voglio lavorare in un ufficio e avere una scrivania tutta per me, con la tazza del caffè accanto alla calcolatrice e il nome inciso su una targhetta dorata. CC, Cesira Colombo. Voglio timbrare il cartellino alle cinque del pomeriggio e abbracciare un uomo alto, senza barba, che mi aspetta all’uscita dell’ufficio per aprirmi la portiera dell’auto e farmi accomodare, proprio come si fa con le signore.»

Angiolino si appassionò agli abiti di Cesira, ma non ai suoi sogni. Gli sembravano banali. Eppure con la gonna pied de poule e la camicia dell’amica addosso, anche lui si sentiva fìmmina. L’accessorio giusto era quello che riusciva a farsi notare: la borsa in tinta, una collana importante, il sandalo con la chiusura a scatto. La differenza è nei particolari. Per quelli ci vogliono i soldoni, gli spiegava Cesira, e lei non li aveva. Si accontentava di campare e brindare.

«Sei felice?» domandò a Lino una sera, dopo il terzo gin tonic.

«In questo momento?»

«In generale.»

«Non ci ho mai pensato.»

«Ce l’hai un sogno?»

«Quando abitavo al paese, volevo diventare un cantante e un ballerino del varietà. Ho fatto anche un provino, una volta, ma non sono mai stato richiamato. Adesso non sogno più. Mi sono asciugato.»

«Per forza» disse Cesira. «Guardati attorno. Questo posto affossa.» Gli prese il viso tra le mani: «Se fossi giovane come te, se avessi la tua testa e il tuo sorriso, me ne andrei in fretta. Sei solo un ragazzino. Per vivere la vita con gusto, devi riuscire a immaginarla».

«E tu?»

«Per me è troppo tardi.»

«Non hai nemmeno quarant’anni.»

«È tardi dentro.»

La donna indicò la camicia bianca e la gonna pied de poule: «Te le regalo, sono per il viaggio».

«Non posso indossarle» disse Lino. «Nessuno mi riconoscerebbe.»

«Appunto. Sarebbe la tua grande occasione.»

«Se me ne andassi, ti mancherei?»

«Nemmeno per idea. Scopi da schifo.»

«Anche tu.»