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Il giorno in cui Angiolino lasciò Il Centurione, Jolanda gli mise in mano un pacchetto di sigarette senza filtro e il disoccupato gli regalò un calendario tascabile di Radio Radicale. Cesira gli disse arrivederci e si chiuse in camera, a lavorare. Non voleva che lui le leggesse in faccia il dispiacere.

Lino percorse al contrario la stessa strada che, due anni prima, lo aveva portato al Centurione. Inciampò nel senzatetto e contò il pugno di monete accanto alle bottiglie vuote. Ottantasei lire. Giunto alla stazione, ritrovò la fretta dei viaggiatori ma non sentì più la paura di un tempo. Comprò un biglietto per l’unico notturno diretto al Sud. Nella sua carrozza viaggiavano un seminarista, tre studenti e una ragazza con un neonato. Irene. Sto tornando, Irene. Lei lo avrebbe perdonato perché era una persona capace di affetto. Lui, invece, era stato un codardo. Fin da bambino, non le aveva mai confessato il suo tormento. Rocco era forte. Rocco era masculu. Anche Lino avrebbe voluto amarlo, di un amore fisico e totale. Quando saliva sulle spalle dell’amico e si arrampicava con lui sulla grondaia, desiderava restare attaccato al suo corpo un giorno una notte un’esistenza. Una volta arrivato sul tetto del magazzino, si scostava in fretta. Non era geloso di Irene. Il sentimento tra lei e Rocco lo consolava. L’idea sotterranea dell’esclusione era soltanto cosa sua. Anche lui, un giorno, sarebbe stato ricambiato. Chiudeva gli occhi e immaginava il viso della persona che lo avrebbe desiderato. Non vedeva nessuno. Solo un’ombra senza forma né colore.

Il treno arrivò a destinazione a metà di un pomeriggio infuocato. Al Sud non c’era la fretta della capitale, il suo modo invadente di spingere. Prima di riavvicinarsi a Fosco, Lino aveva bisogno di abituarsi all’idea del ritorno. Jolanda aveva telefonato a un conoscente di Reggio ed era saltato fuori un lavoretto. Roba da poco: due settimane di distribuzione porta a porta di elenchi telefonici.

Lino si sistemò in una stanza in affitto e si mise d’impegno. Nonostante il caldo fermo dell’estate, cominciò a girare per i quartieri di Santa Caterina e Trabocchetto con il suo carico di elenchi impilato nel carrello a due ruote. Suonò mille citofoni, spinse mille portoni. Bevve mille gassose, si riposò su mille gradini e ripartì trottando.

L’incontro che cambiò il suo presente fu del tutto inaspettato. Era un lunedì pomeriggio e l’afa giustificava l’assenza dell’umano. Angiolino arrivò a fatica fino a Tremulini e pigiò un paio di campanelli sull’ultimo citofono della giornata: «Elenchi» si preparò a dire, ma la voce dall’altra parte della pulsantiera anticipò l’annuncio: «Sei qui per il lavoro?» domandò gracchiando.

«Quale lavoro?»

«Scala B, appartamento 5, secondo piano.»

Il cancello si aprì.

Lino risuonò. Il cancello tornò ad aprirsi: «Sarà il destino» si raccontò salendo le scale. Sulla porta dell’appartamento 5 c’era una targa di ottone che diceva TELE NOVOSUD.

Tele NovoSud è devozione.

Un uomo aprì la porta: «Eccoti» disse. «Entra pure.»

Angiolino restò senza parole. Di fronte a lui c’era il patriarca delle televendite. Era lì, davanti ai suoi occhi, e non era più lo stesso di un tempo.

Grisantemo Belletta portava un completo fuori moda e aveva un sorriso obbligato. La sede era uno spazio unico, occupato da una scrivania, un materasso, una telecamera e un set improvvisato con due fondali di compensato e uno sgabello. Ovunque cartoni e prodotti, sparsi alla rinfusa. La crescita inarrestabile delle tv private nazionali aveva tolto spazio e profitti al canale locale. La bellezza matura di Eleonora era stata spazzata via da un carico di ventenni seminude e senza timor di Dio. Per vincere la concorrenza, il Belletta era stato costretto ad assumere Siren, una ballerina turca che si esibiva nella danza del ventre. La presenza di Siren infastidiva Eleonora, relegata al centralino con l’unica funzione di segretaria a tempo parziale. A Eleonora non andava giù il fatto di essere stata accantonata: «Non ti ho accantonata».

Passaggio di funzione, mobilità, crescita professionale, aumento delle competenze specifiche, si giustificava il marito senza alcun successo.

Eleonora aveva infilato i completi del Belletta in un paio di valigie e glieli aveva lasciati sullo zerbino di casa. Grisantemo si era trasferito negli studi di Tele NovoSud in compagnia di Siren che, senza trucco, non era neppure ’sta gran bellezza. Oltre a una certa fatica, in lui si faceva strada la delusione. Il pubblico sembrava abbandonarlo. Le telefonate in diretta languivano e persino Siren se n’era andata senza preavviso, in cambio di un impiego a tempo parziale in un night del centro.

Angiolino si presentò nel pieno della crisi esistenziale e professionale del Belletta. Davanti all’imbonitore, si fece prendere dall’emozione. Da bambino, la madre lo costringeva a sedersi sul divano. Lui avrebbe voluto prendere a calci l’ingombro materno e rivendicare il proprio diritto a respirare. L’alternativa erano le partite di carte nel retro della pizzeria e i discorsi dei masculi su cunnu e sul profumo della terra quando piove. Per carità. Meglio le televendite serali. Non se ne perdeva mezza. Dopotutto il Belletta ci metteva la passione.

L’uomo sbadigliò: «Hai esperienza nel settore?».

«Sì» mentì Lino.

«Sai vendere?»

«Sono portato.»

«Sai contare?»

«Illimitatamente.»

«Lo stipendio è a percentuale.»

«Mi sembra ragionevole.»

«Hai un mese di prova. Cominci lunedì, fascia preserale.»

Quell’incontro era il miracolo chiesto alla Madonna delicata, in cambio di una messa costata addirittura ottantamila lire: “Soldi ben spesi” si disse Angiolino, a giudicare dai risultati.

Per il suo debutto televisivo, comprò una giacca di strass, si pettinò i capelli all’indietro e indossò un paio di occhiali di vetro, per darsi importanza e tre anni di troppo. Fissò la telecamera e parlò con convinzione di un nuovo modello di frullatore a pedale. Sorridi, sorridi sempre. Mostrati mostra e sarai creduto, venditi vendi e sarai comprato.

Scoprì di saperci fare, con le televendite. Non era proprio come cantare e ballare nel varietà del sabato sera, ma le chiavi del successo erano le stesse. Appassionare, divertire e convincere. Raccontare belle storie e prendersi cura del cliente. Glielo aveva insegnato suo padre. In macelleria, Totonnu toglieva l’osso prima di pesare: «La gente è contenta» diceva. «Vede che hai a cuore il bene tuo e quello degli altri. Non si può forzare la misura.»

Il vecchio aveva ragione.

I telespettatori si fidavano delle parole chiare, delle giacche di strass e dei capelli pettinati all’indietro. Lino fu riconfermato. Lasciò la stanza in affitto e si trasferì in un appartamento vicino alla stazione, perché i treni gli ricordavano Cesira e i giorni al Centurione. Comprò uno stereo a batterie e una raccolta di successi di Madonna che ascoltava la mattina, mentre si lavava i denti davanti allo specchio del bagno. La notte, invece, si sintonizzava su Radio Radicale perché tutto quel gran miscuglio di parole e risentimento lo spediva dritto nel sonno.

Nonostante il riavvicinamento alla moglie Eleonora, il Belletta mostrò più di un’attenzione verso il giovane venditore. Gli spedì dozzine di rose gialle e gli regalò un completo di Valentino, al quale mancavano soltanto i bottoni: «È una seconda scelta» disse con orgoglio. «Di quelle che contano.»

Lino accettò il vestito e rifiutò le attenzioni.

Si innamorò, ma non del Belletta.

Si innamorò di Gaetano.

Gaetano gestiva il bar della stazione: «Un ristretto e un cornetto alla crema per l’illustre presentatore» diceva ad alta voce, per attirare l’attenzione dei clienti.

Sul piattino del caffè, accanto allo zucchero, il barista metteva un biscotto d’anice: «Omaggio della casa».

Una mattina si fece più insistente: «Il caffè, il cornetto e il biscotto d’anice. Ecco lo scontrino».

Lino lo guardò. Non era d’abitudine, la pratica fiscale. Girò il biglietto e trovò il messaggio: Questa sera davanti all’edicola della stazione, alle ventuno e mezza. Era un appuntamento, si domandò, uno scherzo o una punizione? Non voleva pensare all’amore. L’amore era il legame tra Irene e Rocco. Era un contatto, una promessa, la ricerca costante di approvazione. Troppo impegnativo. Non era in grado di affrontarlo.

Quel giorno lavorò con poca convinzione: «Ti senti bene?» si informò il Belletta.

Tornò a casa prima del solito. Fece una doccia calda e poi si mise, nudo, davanti allo specchio. Vide il corpo di un estraneo nel quale, da sempre, faceva la fatica di alloggiare. Mezzo uomo e mezzo sirena, non sarebbe andato all’appuntamento. Non poteva rischiare l’umiliazione.

Invece si preparò. Non riuscì a farne a meno. Si fece la barba, la poca che aveva, e indossò il Valentino di seconda scelta al quale aveva fatto applicare i bottoni. Alle ventuno e mezza si presentò davanti all’edicola. Si rigirò il fazzoletto tra le mani. Guardò l’orologio. Sbuffò. Fu sul punto di andarsene: «Ehi!».

Gaetano era lì, alle sue spalle, anche lui con i capelli pettinati all’indietro e un giubbotto color caramello. La cura gli fece simpatia. Gli sorrise.

I due mangiarono una pizza e andarono al luna park che, nei mesi invernali, sostava dietro lo stadio comunale. C’era una tramontana pungente. Salirono sulla ruota panoramica e sulle catene, che a Gaetano piacevano più di tutte le altre giostre: «Io, di solito, prendo il codino e vinco un giro gratis. Questa sera non ci riesco». Doveva essere l’emozione, ammise, o quell’agitazione di stomaco che l’aveva acchiappato nel momento stesso in cui aveva deciso di battere quell’unico scontrino. Angiolino e Gaetano sgranocchiarono noccioline tostate e vinsero tre paia di collant al tiro al bersaglio. Entrarono nel castello degli orrori e nella casa degli specchi deformanti. E lì, tra un’immagine lunga e una tozza, nel riflesso sbilenco e filamentoso di due corpi che potevano essere i loro oppure no, si sfiorarono. A Lino sembrò un inganno. Una bugia destinata alla vergogna. Invece Gaetano gli accarezzò il viso, il collo, la linea gentile che dalle orecchie arrivava alle spalle. Lo tirò a sé, lo strinse fino a sentirne le grazie – tutte le grazie. Non rise. Non si scandalizzò. «Fermati» mormorò Lino. La voce si infilò dritta nelle orecchie. Andò negli intestini, si aggrappò allo stomaco, oscillò tra i polmoni, scoppiò e fu espulsa insieme alla paura. All’idea di essere troppo. Di non essere niente.

Era nato – finalmente.

Nascere significava autorizzarsi al rispetto.

Lino continuò a vivere nell’appartamento vicino alla stazione. Gaetano continuò a lavorare al bar. Si vedevano la mattina, a colazione, e due sere a settimana davanti all’edicola. Il lunedì pomeriggio, il barista andava a prendere Angiolino al lavoro. Metteva le quattro frecce alla Uno metallizzata e apriva la portiera per farlo accomodare. Avrebbe voluto scrivere a Cesira: «Avevi ragione tu. I sogni migliori sono quelli che si toccano».

I due bevevano aranciata amara sulle panchine del molo: «Anche a Fosco c’era il mare, ma bisognava accontentarsi. Non si poteva arrivare alla spiaggia. Non si doveva nuotare».

Gaetano lo consolava: «A Natale ti porto con me, al paese. Ti presento mia madre, gli zii e i fratelli. Di solito alla vigilia mangiamo tutti insieme, sulla spiaggia».

«A dicembre fa freddo.»

«Non per noi. Per goderci la vita, non aspettiamo l’estate.»

Natale arrivava, il barista partiva per il paese e Lino si accontentava di cenare da solo, pescando calamari fritti da un cartoccio della rosticceria. La radio suonava Adeste Fideles e sulle pareti di casa brillava il riflesso degli addobbi del corso. I treni fischiavano. Partivano e andavano. Per raggiungere Fosco, bastava prendere il regionale fino a Pescheto e, da lì, un’auto a noleggio fino al paese. Lino voleva tornare.

E se Irene avesse riso di lui, della sua evoluzione?

Non aveva mai smesso di pensarla.