Per imporre a Irene la sua presenza, Felice Lorida ordinò ai cotrari di San Rotondo di appostarsi sulla curva delle guardie. I motorini entravano in paese a mezzogiorno e disturbavano i forestieri che passeggiavano tra le facciate dipinte. Felice Lorida arrivava dopo il riposo del primo pomeriggio. Parcheggiava sulla piazza e scendeva a sgranchirsi le giunture, scortato dai fratelli e dai cugini di secondo grado: «Sono qui» ricordava alle sorelle Rusto, con un cenno del capo.
Irene e Lorenza si affrettavano a far rientrare la madre, seduta davanti all’uscio. Felice contava quattro con le dita della mano. Quarto comandamento, onora il padre e la madre.
Nuzza fu preservata dalle lusinghe dei Lorida. Non sarebbero riusciti a convincerla a cedere la lavanderia. Lavanderia, parola magica.
La più giovane delle sorelle Rusto, invece, si lasciò ammaliare. Irene e Lorenza non si resero conto di quanto fosse disposta a farsi sorprendere.
Gianna aveva occhi scuri d’autunno e capelli che svolazzavano a formare una corona. Lei si voltava e rivoltava, per eleggersi a regina senza sudditi. Usava trucchi da signora e aveva un bisogno ossessivo di pubblico. Viveva in un paese deserto, fatto di immaginazione e passaggi. I forestieri che passavano di lì avevano un accento diverso e venivano da un mondo diverso. Le sarebbe piaciuto nascondersi in uno dei loro pulmini, partire e non tornare più. La vita al di là di Fosco era fatta di luccichii e feste. Allora perché i forestieri passavano giornate intere a fotografare gli scarabocchi della sorella, invece di guardare lei, che era così bella? Lo specchio del bagno non mentiva, e neppure quello dell’anticamera.
Gianna detestava la scuola. «Figghia i Giuda» le dicevano i compagni. Senza Dio.
Lei non capiva l’accanimento. Era sempre ben vestita e profumata. Abbinava la cintura alle scarpe, il laccio dei capelli alla gonna. Era molto più alta delle ragazze della sua età. Detestava il dialetto e parlava un italiano pulito e con poco accento. I compagni, però, non le risparmiavano le mortificazioni. A ogni compleanno, il cognome Rusto non compariva sull’elenco degli invitati. Eppure era così meravigliosa: «Guardatemi» diceva. Coglietemi. Sono un frutto tondo sopra un ramo debole.
Voleva vestiti alla moda e trucchi sempre nuovi: «A che ti servono?» le chiedeva Lorenza.
Lei si lamentava: «È colpa tua».
«Di che cosa?»
«Se la mia vita è stretta.»
Lorenza era l’unica persona con la quale valeva la pena di arrabbiarsi.
Coviello se la prese che Gianna era ancora ragazzina. Era il terzogenito di Felice Lorida. I suoi fratelli studiavano all’estero, lui invece non aveva mai avuto la pazienza di stare sui libri. Era il capo dei cotrari che ogni giorno entravano a Fosco per ricordare alle sorelle Rusto la legge del territorio.
Vide Gianna che attraversava la piazza, con addosso un paio di pantaloncini e le minni puntute di prima giovinezza. Diede gas al motorino, le girò attorno e si tolse gli occhiali da sole. Aveva lo sguardo leggermente strabico: «Sei carina» disse.
«Carina?»
«Sì.»
Era così poco.
«Dove vai?»
«Non parlo con i maleducati.»
«Attenta, bambina, non sai chi sono io.»
«Non mi interessa.»
Il giorno seguente, il giovane tornò a girarle attorno.
«Com’è che ti chiami?»
«Gianna.»
«Di cognome?»
«Non me lo ricordo.»
«Allora avevano ragione: si a figghia ’nfami.»
«Vattene.»
«Guarda che le fìmmine acide rimangono zitelle.»
Il terzo giorno Coviello la obbligò a fermarsi: «Ti sta bene».
«Cosa?»
«Questo vestitino giallo.»
«È di seta.»
«Sali» le ordinò.
«Dove andiamo?»
«Non fare domande.»
«Con te non vengo da nessuna parte.»
Lui la afferrò per un braccio e la costrinse in sella. Partì impennando e lei gli si strinse al petto. Non aveva mai abbracciato nu masculu. Era fatto di carne e sangue. Il motorino accelerò, oltrepassò la curva delle guardie e prese la via del Nord.
Ci sono attimi che decidono esistenze, e Gianna incappò nell’attimo che avrebbe determinato i suoi giorni. Si sentì lusingata dall’ordine di Coviello. Lui l’aveva vista, indicata e scelta. Lorenza le ripeteva di fare attenzione agli uomini: «Sono ladri di anime». Ma la sorella non si era mai innamorata. Cosa ne sapeva dei masculi?
Il viaggio di Gianna durò due giorni e una notte, e fu una fuga senza ritorno. A mezza montagna c’era una buca che, tempo prima, era servita a nascondere una prena. Era profonda tre metri e larga poco più di due. Coviello la conosceva bene perché da piccolo ci giocava allo sparato. Accostò il motorino a un castagno: «Lì» indicò. L’entrata era coperta da foglie e rami.
Abbracciò Gianna, se la strinse al petto e si calò con lei dentro la buca: «Non avere paura».
Il nascondiglio era umido. Il ragazzo lo rischiarò con l’accendino. In un angolo c’erano una ciotola e una coperta abbandonata.
Gianna aveva sentito parlare di certi lavori particolari. I gnuri buttavano i forestieri in un fosso e chiedevano alle famiglie di pagare. Tanti soldi, tantissimi, che servivano a dare lavoro alla gente del posto. La madre, quando aveva ancora un po’ di senno, diceva che pe aviri beni, bisogna fari u mali.
Coviello stese la coperta: «Siediti». Gianna si accomodò e abbracciò le ginocchia con le mani, per ripararsi dal freddo. U cotraru radunò un pugno di rami secchi al fondo del nascondiglio. Accese il fuoco e ci soffiò sopra, per farlo montare. Si sedette accanto a Gianna: «Quanti anni hai?».
«E tu?»
«A te, ti sono padre» disse ficcando gli occhiali da sole dentro la tasca del giubbotto. «Che cos’hai nella borsetta?»
«Nulla di importante.»
«Fammi vedere.»
«No.»
«Ho detto: fammi vedere.»
Il ragazzo le strappò la borsa dalle mani: «Un fazzoletto, un rossetto, un pacchetto di gomme americane...».
«Per favore.»
«Si na piccirija.»
«Non è vero, sono una donna. Ho già preso la licenza.»
«Che te ne fai? Sei fìmmina. Solo i masculi devono studiare. Mio padre ha mandato i miei fratelli all’estero, ad allenare il cervello,» si batté due volte l’indice destro sulla tempia «ma io sono meglio di loro. Ho queste.»
Mostrò le mani grandi, abituate allo sgarbo.
«E questa.»
Estrasse dal giubbotto una pistola, a canna mozza e con il manico di madreperla. Accarezzò l’arma, la fece saltellare da destra a sinistra e la puntò dritta sulla fronte di Gianna: «Pum».
«Non mi fai ridere.»
«Tu sì, tantissimo.»
Il giovane le insinuò la canna della pistola nell’orecchio e poi giù, dentro il prendisole giallo: «Sai chi sono?» domandò.
«Nu cotraru di San Rotondo.»
«U cotraru di San Rotondo. Mi chiamo Coviello, sono il terzogenito di Felice Lorida.»
«E allora?»
«Attenta. Te l’ho già detto. Io, a te, ti sono padre.»
Gianna allontanò la pistola. Coviello la riavvicinò. Lei non aveva idea di che cosa fosse il sesso. Lo confondeva con l’amore. Aveva visto il padre andarsene e la madre impazzire di dolore. Aveva visto Irene piangere per Rocco e portare fiori freschi sulla sua tomba. Zia Bruna aveva perso Totonnu e si era seppellita viva, all’ombra di una montagna. Se quello era l’amore, cosa diamine ci faceva in un nascondiglio sotto terra, davanti al desiderio di uno sconosciuto? Provò a divincolarsi: «Lasciami».
Il ragazzo le stava addosso.
«Voglio andarmene.»
«Provaci.»
Coviello tentò di convincerla: «Se fai la brava, staremo insieme. Tu e io».
Era uno scherzo? Una minaccia? Un impegno?
Era la promessa di un cotraru importante, che girava con il motorino e portava un cognome sacro. Rispettato. Uno che comandava un paese vero, dove la gente si comportava a modo e le donne facevano i figli, li nutrivano e tacevano, perché di silenzio era fatto il loro mondo.
«Cosa vuoi da me?»
«Che tu faccia giudizio.»
Coviello la pretese.
Gianna si lasciò portare.
Si lasciò stendere sulla coperta umida.
Si lasciò baciare. Accarezzare.
Sentì le mani grandi, abituate allo sgarbo, strappare il prendisole giallo. Le mutandine si impigliarono tra le ginocchia: «Mi fai male».
Un bosco sa di terra bagnata e felci.
«Ccìtta.» Lui le fu addosso: «Coviello pensa a te».
Tra le fronde, filtrava la luce debole del pomeriggio.
Gianna chiuse gli occhi. Distolse il viso da quello di lui, fradicio di sudore. Sentì un dolore acuto attraversarle il corpo. Strinse i fianchi e sollevò le ginocchia, ma il ragazzo le bloccò le mani e si fece largo tra le cosce. Gianna si sentì soffocare, inarcò la schiena e urlò. Lui le tappò la bocca con un bacio grossolano. Ansimò, accelerò, grugnì e alla fine si contrasse. Il vuoto, Gianna, non l’aveva mai assaggiato. La sensazione di un morso sulla mela e l’aria che annerisce la polpa. I segni regolari dei denti. La certezza di una perdita. Se le avessero detto che l’amore era una fame violenta seguita dall’imbarazzo di un corpo in disordine, avrebbe scavato con le unghie e sarebbe scappata in fretta da quel buco sotto terra.
Invece rimase immobile, nello stesso luogo che molti anni prima aveva ospitato le domande di un’altra donna che, come lei, si interrogava.
Perché.
Perché l’obbligo, perché il dolore.
Perché la sopraffazione.
Coviello si scostò e si accese una sigaretta, con la pistola ancora stretta nella mano. Gianna si aggiustò il vestito. Pulì il sangue tra le cosce e si rese conto che non sarebbe più stata innocente.
Si tirò addosso la coperta.
Dal nascondiglio, non si vedeva il cielo.