56

Quella sera Gianna non tornò a casa. Le sorelle la aspettarono in cucina, attorno alla tavola apparecchiata per la cena. Lorenza picchiettò il cucchiaio contro il bordo della fondina. Irene giocò con le pieghe del tovagliolo: «Sebastiano» chiamò dalla finestra. Il fratello era sulle mura del castello, a rincorrere la solitudine e qualche lucertola. Il piatto di Gianna era capovolto. Nuzza lo girò, guardò le figlie e si mise a protestare: «Allora, volete farmi crepare di fame?». Il cibo era il suo maggiore interesse, dopo la gonna gialla di donna Sirbana che era scomparsa insieme alla trapunta.

Lorenza le servì la zuppa di piselli e ceci, con poco sale. Nuzza mangiò con appetito. Due rivoli di crema le colarono lungo il mento, ma lei non se ne curò e allungò il piatto: «Un altro».

Masticò due fette di pane e un’insalata di cavolo, poi si alzò e lasciò la stanza senza salutare. L’indomani mattina, si presentò per la colazione e ritrovò le figlie in cucina, davanti alla tavola apparecchiata: «Ce n’è ancora?» domandò.

«Di che?»

«Di zuppa.»

Di Gianna. Di quella figlia scomparsa e scostumata: «Scommetto che non è tornata a casa».

«Non si è vista.»

«La prossima volta, nell’insalata di cavolo, metteteci anche due noci e mezza mela senza buccia.»

Irene e Lorenza continuarono ad aspettare. Prima o poi la sorella sarebbe ricomparsa con la borsetta in mano e il trucco in ordine. Faceva l’adulta ma aveva paura del buio. Dormiva con la porta aperta e la luce accesa nel corridoio.

«Quando torna, mi sente» disse Lorenza.

Non riuscì a rimproverarla.

Gianna non tornò.

Scelse Coviello.

Per i primi tempi, lui la nascose nella cantina di un cotraru. Le sistemò un materasso a terra e recuperò qualche vestito di una cugina partita per l’America. Gianna aveva preteso uno specchio, una spazzola e certe cose da femmina che il ragazzo era andato a comprare a Reggio, con il timore che i gnuri potessero scoprirlo nel reparto cosmetici di un grande magazzino. Andava da lei due volte al giorno, per portarle del cibo e un avanzo di calore: «Sdraiati» le diceva.

«Non ho finito di mangiare.»

«Sono io che ho fame.»

Si amavano sul materasso della cantina. Coviello era prepotente ma, per Gianna, quelle attenzioni sbrigative erano preziose perché erano le sole della giornata.

Fu Coviello ad accorgersi dell’imbarazzo, otto settimane dopo la loro prima fuga: «Che hai lì sotto?».

«Dove?»

«Sotto la maglia.»

«Niente.»

Le sollevò la canottiera: «Stai cambiando» le disse, e fu la sola volta in cui le parlò sottovoce.

La sposò di notte nella chiesa di San Rotondo, davanti al prete e a due amici. Felice Lorida non partecipò alla cerimonia. Quel matrimonio era una sfida all’onore del rispettabilissimo cognome. Coviello era sempre stato una testa calda. Il padre ne andava fiero, ma la ribellione si era spinta troppo oltre. Lui glielo aveva insegnato fin da bambino: o paisi si maritanu non p’amuri ma p’u beni da famigghia. Erano cose importanti, quelle, affari di sangue e pila. Coviello invece si era invaghito di una puttanella che non aveva neppure avuto la decenza di aspettare la maggiore età, per darsi. E in più, era la figlia di Rosario Rusto, l’infame. Non c’era disgrazia peggiore del tradimento.

Con un anello di latta al dito, Coviello suonò il campanello di casa: «Ora è mia moglie,» disse ai genitori «e aspetta vostro nipote».

Felice Lorida aprì la porta e si fece il segno della croce: «Nel sottotetto» ordinò. «Cercate di non fare rumore.»

La soffitta era una stanza con un letto e una finestra basculante, impossibile da aprire. Sulle pareti, c’erano un crocifisso di metallo e l’immagine della Madonna delicata, a ricordare alla ragazza i suoi peccati.

Coviello sistemò le borse sull’unico comò: «Io esco. Tu non ti muovere» disse alla moglie.

«Posso avere qualche cosa da leggere?»

Qualche cosa da fare.

«La sola cosa che devi fare è pensare a mio figlio. Crescilo forte e sano, o ti rimando all’inferno.»

Da quando si erano trasferiti nella soffitta, Coviello la evitava. Durante il giorno, Gianna aspettava che tornasse dai suoi giri. Il figlio – l’idea che si fece di lui – divenne la sua occupazione. Mariuzzedda, la suocera, le lasciava i pasti davanti alla porta: «Apri, disgraziata».

Non appena socchiudeva l’uscio, la donna infilava la mano tornita: «Non è per te. È per la creatura che porti in grembo».

Gianna sopportava.

Sopportava la maleducazione, il rimprovero, il giudizio e il disprezzo.

Lo faceva in nome di una rassegnazione dettata dal bisogno. Era moglie, sarebbe diventata madre. Gianna si rannicchiava sul letto e provava a dormire. Nella solitudine della soffitta, rivedeva le facciate decorate, la lavanderia di Nuzza e la bicicletta di Lorenza. A Fosco il sole batteva sulla piazza e il mare, lontano, prometteva confini da esplorare. Lei e le sue sorelle erano cresciute in mezzo alle storie dipinte da Irene. Le avevano subite e determinate. Per consolarla, la sorella aveva disegnato cento e uno cuccioli di Peripla e Lorenza aveva acconsentito ai suoi capricci.

Lorenza, più di tutti, si sentiva responsabile della sua perdita: «È stata colpa mia» diceva a Irene.

«Non è colpa di nessuno.»

«Non sono stata capace di difenderla.»

«Non era compito tuo.»

«Devo andare a prenderla.»

«Non la lasceranno andare.»

Sapevano della gravidanza dal fruttivendolo di Pescheto: «Congratulazioni» aveva detto l’uomo, porgendo la spesa e un chilo di mandarini in omaggio. «La famiglia si allarga. Auguri e nipoti maschi.»

«La porterò via» insisteva Lorenza. «Mi darà ascolto.»

«Il buonsenso non sempre corrisponde alla ragione.»

«Vado a prenderla.»

«Ti accompagno.»

«Spetta a me. Tu eri sul tetto del magazzino, mentre io provavo a crescerla.»

Irene non era autorizzata a insistere.

L’indomani Lorenza salì sulla bicicletta, superò la curva delle guardie e prese la strada costiera. Oltrepassò un pugno di case sparse e proseguì per un paio di chilometri. Il cartello all’ingresso del paese diceva BENVENUTI A SAN ROTONDO. Al fondo della via principale, c’era la piazza con il sagrato della chiesa e i tavolini del bar occupati dai masculi. «Gianna» si mise a chiamare. La sorella l’avrebbe sentita. L’avrebbe riconosciuta. Drindrin drindrin, scampanellò. Gianna, esci. Sono qui. Sono arrivata. Drindrin drindrin. Ancora pochi istanti e lei sarebbe corsa ad abbracciarla. Sarebbero ritornate a casa. Drindrin drindrin. La catena della bicicletta cigolava attorno ai pedali e la gonna sfarfallava insieme al vento. I masculi di San Rotondo bevevano caffè nero senza zucchero e le donne osservavano dai davanzali. Il giorno prima c’era stato il mercato. Dai bidoni dell’immondizia spuntavano buste di plastica e avanzi di merluzzo in pastella. Concentrati e pedala, Gianna ora arriva, Gianna ora scende. Drindrin drindrin. Il pollice insisteva sul campanello e non c’era nemmeno da ordinarglielo. La perdita è uno stato naturale e insieme inaccettabile: perché mi fai aspettare? Acconsentire alle richieste di Gianna le era sembrato un risarcimento doveroso per le mancanze dei grandi. Voglio un vestito nuovo, lo voglio di seta gialla. Maledizione. Se Lorenza avesse avuto l’autorevolezza degli audaci, non avrebbe corso il rischio di viziarla. Drindrin drindrin.

Gianna riconobbe lo scampanellio. La creatura nella pancia scalpitò e lei la mise a tacere con un rimprovero: «Ccìtta».

Non si alzò.

Non uscì.

Non corse incontro alla sorella.

«Bastarde figlie di cane» disse alle lacrime che iniziarono a scorrerle sul volto. Come osavano obbligarla alla sofferenza?

Nella sua testa, Irene aveva il pennello in mano e la faccia sporca di vernice. Rocco era morto e nessuno, vedendola così, si sarebbe mai più innamorato di lei. Nuzza, con la sua ossessione di lavare via le macchie, le parlava come al masculu che avrebbe dovuto essere: «Sei nata fìmmina per colpa della luna calante» si lamentava. Quando era incinta di u Prìncipi, Nuzza si accarezzava la pancia e chiedeva la grazia della differenza. Ma qual era la differenza tra Gianna e Sebastiano? Un misero orpello, una piuma di carne e vanità. Il fratello era nato maschio e si era preso le attenzioni e le carezze. C’era da soffocarlo con il cuscino, da chiuderlo nel forno delle pizze. Gianna ci aveva provato. Si era arrampicata sulla culla e si era sdraiata su di lui. Se l’usurpatore non avesse cominciato a piangere, ci si sarebbe addormentata. E allora chissà. Il padre l’aveva punita e, per farlo, l’aveva addirittura toccata. Le aveva calato le braghe fino alle ginocchia e poi giù uno schiaffo, due, tre, sulla carne innocente.

Lorenza la portava a scuola sulla bicicletta troppo alta. La rassicurava quando i compagni ridevano del loro cognome: «Sei ciò che sei» le diceva. Le arrangiava vestiti sempre nuovi, perché non si sentisse misera o infelice. Un abito da sposa diventava un soprabito, un completo da comunione si trasformava in una giacca, una camicia da uomo era un vestito. Quel piccolo traffico di stoffe era un segreto da non rivelare: «Voglio un abito nuovo» diceva Gianna. Lorenza si infilava nella lavanderia di Nuzza e cercava le stoffe migliori tra gli scaffali. Zia Cuncetta le aveva insegnato a cucire. Il prendisole di Gianna, quello che era piaciuto a Coviello, lo aveva ricavato dalla gonna di seta di donna Sirbana. Se lo avesse saputo, Nuzza le avrebbe strappato gli occhi a mani nude: «Cenere acqua detersivo e soda».

Gianna si era lamentata: «Voglio le spalline di pizzo» aveva detto alla sorella.

«Accontentati.»

«E tu crepa.»

Per sistemarlo, Lorenza ci aveva lavorato un pomeriggio intero.

La sorella aveva verificato in controluce la qualità del pizzo. Si era infilata il prendisole ed era scesa in strada, scordandosi di ringraziare. Non aveva più fatto ritorno. Grazie, Lorenza. Grazie per esserti occupata di me, per avermi guardata. Per aver raccolto le mie paure e riempito i vuoti. Per aver custodito i miei dubbi. Per avermi desiderata.

Nella soffitta dei Lorida, Gianna sentì tutta la pena di quel ringraziamento mancato. Si sarebbe venduta un fianco un braccio un rene pur di correre in strada: «Grazie, Lorenza. Grazie per ciò che è stato. Adesso andiamocene a casa». Il bambino sarebbe cresciuto a Fosco e loro gli avrebbero insegnato a condire la vita con olio, limone e quiete.

Non ne fu capace.

Rimase dov’era, sul letto sotto la finestra che non si poteva aprire. Si tenne la pancia con tutte e due le mani e si consegnò definitivamente all’uomo nel quale era inciampata. Il salto all’indietro sarebbe stato mortifero e mortale. Doveva resistere, convincersi che la sua nuova esistenza fosse la sola possibile. Il cognome Lorida era un vanto. L’uomo scelto, il migliore. Si ficcò le unghie nella pancia: «Resta» si impose, tra le lacrime che suggerivano la fuga.

Sentì lo scampanellio avvicinarsi e scemare. Ripresentarsi e chiamare. Affievolirsi e implorare. Drindrin drindrin. Gianna, scendi, sono qui. E tu vattene, figghia ’nfami. Lorenza fece un ultimo giro della piazza. Frenò e si accorse che il tempo l’aveva trasformata. Riusciva ad appoggiare i piedi a terra e a restare in equilibrio sulla sella. Aveva fallito: Gianna non sarebbe tornata. Riprese a pedalare. Avrebbe avuto nove chilometri per piangere, prima di mostrare a Irene il viso asciutto del coraggio.

Drindrin.

Lo scampanellio si affievolì.

Gianna lo attese invano: «Lorenza» chiamò.

Il suono si spense.

Non sarebbe ritornato.