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Gianna trascorse la gravidanza nella soffitta dei Lorida. Ogni giorno uguale all’altro. Ogni giorno l’attesa di un’altra notte e di un altro mattino. I colpi sull’uscio scandivano i pasti. Coviello non aveva orari. Tornava di cattivo umore, si sdraiava accanto alla moglie e si addormentava. Non badava al profilo della pancia che si trasformava: «Coviello?» lo chiamava Gianna. «Sei stanco?»

«Sì.»

Era l’unica conversazione della giornata.

Il giovane russava di un ronfare leggero che assomigliava a un soffio. Lei chiudeva gli occhi. A volte le sembrava di sentire lo scampanellio di una bicicletta: drindrin drindrin. Trascinava la sedia sotto la finestra e saliva in punta di piedi fino al vetro. Lo scampanellio taceva. Per fortuna la creatura sarebbe nata presto e lei avrebbe avuto tra le braccia un essere bisognoso della sua presenza. Gianna si metteva la mano destra sulla pancia e cantava una filastrocca che Nuzza recitava a u Prìncipi, per farlo addormentare: Voli dormiri u figghiolu meu, voli la ninna e no lu sapi diri. Non le era mai piaciuto il dialetto, eppure sentiva il bisogno di masticarlo dove la solitudine mordeva. Sonnu veni veni e non tardari, ca u figghiolu meu voli dormiri.

Le acque si ruppero in un giorno di mercato. In strada le donne si accalcavano davanti ai banchi di alimentari. L’odore dei calamari fritti e del merluzzo in pastella arrivava fino al sottotetto. Gianna picchiò lo spazzolone sul pavimento. Era il segno, glielo aveva spiegato la suocera: «Ormai ci siamo. Il tempo è finito e la luna cresce. Se senti dolore, batti tre volte sul pavimento».

Picchiò con rabbia: «Spetta,» rispose Mariuzzedda «ca staju facendu a sarza». La donna salì le scale e la costrinse a letto. «Vincenza!» chiamò la cugina. «Porta l’acqua calda e qualche panno.» Sollevò la camicia da notte della nuora e le ficcò tra le gambe una mano ancora sporca di conserva: «Ci siamo» disse. «Spingi!»

Gianna ci mise tutta l’energia. Si aggrappò alle lenzuola e ai bordi del letto. Si morsicò la lingua e spinse fino a sentire le viscere staccarsi dal ventre. Se si fosse comportata bene, la suocera le avrebbe riconosciuto il coraggio. Si dimenò, sudò, si puntellò sulle reni fino a quando il bambino non uscì fuori con un guizzo. Finalmente sentì il primo vagito e si lasciò andare alla stanchezza: «Voglio vederlo» disse.

Mariuzzedda rigirò il piccolo e lo immerse nell’acqua tiepida. Chiese a Vincenza di lavare la puerpera: «Chista puzza i mmerda».

«Il bambino. Voglio vederlo.»

«Devi avere pazienza.»

Gianna usò la poca forza rimasta per mettersi a sedere: «Stai buona,» la rimproverò la suocera «che ancora servi.»

«È masculu

«Ti importa?»

Coviello arrivò due ore dopo il parto.

«È masculu» gli disse la madre. «Ed è sano.»

«Sia benedetta la Madonna delicata.»

Il bambino era di quasi cinque chili, ed era nato da un corpo che ne pesava a malapena quarantotto. Coviello osservò la forma perfetta della testa, contò le dita dei piedi, si soffermò tra le pieghe della carne tenera.

Lo presentò al padre: «Si chiama Felice, come voi. Assicurategli benevolenza e protezione».

La sera si congratulò con la moglie: «Sei stata brava» le disse. «Domani andremo ad abitare di sotto, con i miei genitori.»

Gianna accese la lampada sul comodino. Il marito le fece l’effetto di un estraneo. Da quando si erano trasferiti nella soffitta, c’erano state soltanto notti senza contatto. Di lui conosceva l’odore della pelle e il russare leggero, sibilato. Non era brutto, pensò, anche se aveva lo sguardo leggermente strabico. Ed era uomo. L’aveva scelta nonostante il suo cognome. Per fortuna gli aveva dato soddisfazione. Durante la gravidanza, aveva chiacchierato a lungo con la creatura: «Nasci masculu,» si era raccomandata «o farai la fatica di stare al mondo».

La nuova camera da letto era al primo piano, accanto a quella di Felice e Mariuzzedda. Aveva un letto matrimoniale, una culla e una porta che dava su un terrazzo. Coviello lasciò sul cuscino della moglie un pendaglio di oro rosso e rubini e le disse che, da lì in avanti, la loro vita sarebbe stata differente. «Tu, però, t’ha sapiri cumportari

Gianna faceva del suo meglio.

La mattina si svegliava al primo pianto del figlio e tirava fuori la mammella: «Crescilo forte e sano,» si raccomandava la suocera «che da grande ci dovrà campare».

La notte spegneva la luce e aspettava il frusciare del marito tra le lenzuola, per darsi a lui con devozione e mestiere. Dopo la nascita di Felice, Coviello era tornato a cercarla. Il sesso – l’agitarsi scomposto dei corpi e degli umori – equivaleva al riconoscimento. Fare l’amore e figliare erano modi di esistere. Se avesse annunciato di essere di nuovo incinta, la suocera avrebbe spostato la sedia a capo tavola: «Accomodati,» le avrebbe detto «e risparmiati per il prossimo che arriva». Lei si sarebbe seduta a gambe larghe, come chi ha già dentro un peso e una responsabilità.

Dopo il maschio, poteva desiderare una bambina. Una fìmmina sarebbe stata una consolazione. L’avrebbe aiutata a lavare i panni e a sopportare i capricci di una futura nuora. Ora che era madre riusciva a comprendere la gelosia della suocera e il timore con il quale aveva accolto in casa una sconosciuta dal cognome sporco. Custodiva il figlio e pensava che no, nessuna donna avrebbe avuto il diritto di rubarglielo.

Il marito, però, la abbandonò prima di darle la soddisfazione di una femmina. La suocera glielo disse mentre allattava: «Stanotte non aspettarlo. Coviello non torna».

Perché non era la domanda giusta: «Quando torna?» chiese.

«Tra dieci anni, forse quindici.»

Dieci anni, forse quindici? Scostò il piccolo dal petto e Mariuzzedda lo afferrò, prima che finisse a terra.

«L’hanno preso le guardie. ’Sti figghi i buttana nci fannu a guerra. Lo accusano di aver ammazzato un giornalista. Menzogne. Coviello si fa il segno della croce prima di mangiare e ha i sacramenti, non gliene manca neppure uno. Al petto porta una croce benedetta e la notte si sciacqua i denti con l’acqua di Lourdes. Ha un figlio battezzato e una moglie col timor di Dio. Ho ragione o no? Ce l’hai il timor di Dio, Giannuzza?»

Giannuzza. Dopo il parto, la suocera aveva preso l’abitudine di chiamarla così.

La ragazza si sentì mancare. Dieci anni, forse quindici. Tra dieci anni forse quindici, sarebbe stata ancora in grado di mettere al mondo una bambina?

Cominciò a tremare. E a me chi ci pensa? E a Felice? E alla figlia che deve ancora nascere?

«Su, su, non fare la fìmmina» tagliò corto la suocera. «Quando ti sei sposata, sapevi che c’erano i doveri. Coviello è nu cotraru che conta, e nu cotraru che conta rischia. Devi stare al tuo posto e pazientare. Qui dentro sei al sicuro. Fin’a cchi non torna to maritu, a tia nci pensa a famigghia

Gianna si ricordò del padre, che aveva costretto la moglie alla vergogna per poi abbandonarla senza la sicurezza di una protezione. Coviello non era stato un infame. L’aveva lasciata al sicuro e le aveva dato un presente. Non lo avrebbe deluso. Sarebbe stata forte, nella buona e nella cattiva sorte, perché quello era il suo dovere di moglie e madre. Sistemò il reggipetto e si aggiustò la gonna in vita: «Ridatemi mio figlio» disse alla suocera. Era la prima volta che usava il tono dell’ordine. Mariuzzedda le porse il bambino: «Se le guardie suonano alla porta, non vi muovete. Andrò io ad aprire».

Strinse Felice al petto: «Oi u patri non veni» gli disse. «A te ci pensa la mamma.»