Da quando Gianna si era imparentata con i Lorida, aveva rinnegato il suo cognome. Aveva persino mandato certe carte a Roma per modificare Rusto in Rusico, Russo o Rusato. Quel cambio era un favore che doveva a se stessa. Coviello era finito in galera e lei si occupava degli affari spiccioli, riferiva i messaggi che il marito le passava durante i colloqui e pagava il mensile alle donne oneste, rimaste sole per colpa delle guardie che gettavano in disgrazia le famiglie. Liberarsi dal cognome sarebbe stato un battesimo. Per l’occasione, avrebbe preparato i biscotti della festa e invitato il vicinato a brindare al nuovo inizio.
La rinascita di Fosco, però, la costringeva a ricordare che lei, in quel paese, c’era cresciuta.
Felice Lorida la mandò a chiamare: «Irene Rusto è tua sorella».
«Sì.»
«Mi dicono che le è venuta voglia di dipingere.»
«Ce l’ha sempre avuta.»
«Se la cava, non dico di no, ma ha un carattere poco accomodante. Pure l’altra...»
«Lorenza?»
«Ho discusso con tutte e due a proposito della lavanderia di vostra madre. Hanno u cori i petra.»
«Siamo differenti.»
«Lo so. Tu tieni giudizio.»
«Abbisognate di altro?»
«No, Giannuzza. Vai pure. U figghiolo aspetta.»
Se invece di chiamarsi Rusto si fosse chiamata Rusico, Russo o Rusato, zi’ Felice non l’avrebbe chiamata sul terrazzo per ricordarle il suo cognome. Adesso lei era Gianna Lorida, la moglie di Coviello. Lui le aveva regalato una pelliccia di zibellino russo, lunga fino ai piedi. L’aveva ordinata tramite un compagno di cella, che aveva un cugino a Bari che trattava nel settore. La pelliccia era arrivata per Natale, dentro una scatola di seta. Gianna l’aveva indossata una volta soltanto, in occasione del processo. A Reggio faceva caldo. Durante la pausa di mezzogiorno, aveva aperto la pelliccia a ventaglio e ci si era sdraiata sopra, nel parco davanti al Tribunale. Le guardie la stavano osservando: «Guardate, guardate pure» aveva detto loro. «Voi non avete la mia fortuna.»