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Al tempo del processo di Coviello, u Prìncipi era alle elementari. All’inizio i compagni lo chiamavano figghiu i Giuda, ma negli anni avevano imparato a tacere per rispetto a Gianna che era la moglie di un Lorida. La sorella se ne era andata con addosso un prendisole giallo, e non l’aveva più vista. Lei non lo considerava e lui, per disprezzo, usava i suoi rossetti per imbrattare i disegni di Irene. No, Gianna non gli avrebbe aperto la porta della sua nuova casa.

Sebastiano detestava Fosco e i forestieri che giocavano ai turisti. Preferiva stare a Pescheto, dove i bambini facevano la guerra: «Sei morto» sparavano con le pistole di plastica.

«Prima tu.»

Da quando Nuzza si era persa nel suo mondo di cenere acqua detersivo e soda, Lorenza si atteggiava a madre: «Non fare tardi» lo rimproverava. «Sbrigati a tornare.»

Lo aspettava davanti al cancello della scuola e lui si calava le braghe per mostrarle il sedere ancora rosa d’infanzia. Lei lo tirava per un orecchio e lui la prendeva a sassate: «Vatindi!» gridava.

«Questa sì che ti è madre» ribatteva Lorenza, mostrandogli la minaccia di uno schiaffo.

Se solo avesse avuto un po’ di soldi in tasca, sarebbe scappato in fretta. La mattina si incontrava con Luciano u surici e, invece di andare a lezione, andava con lui a caccia di lucertole: «Cosa vuoi fare da grande, Luciano?».

«Mio padre dice che devo fare u baruni. E a te, cosa ti dice tuo padre?»

«Non mi dice niente.»

Di Rosario, aveva addirittura dimenticato il volto. Ricordava soltanto la mano che gli metteva sulla testa per dirgli che era orgoglioso di lui, del suo modo arrogante di farsi spazio. Lo chiamava u Prìncipi. Le sorelle usavano lo stesso soprannome, eppure nelle loro voci non c’era lo stesso orgoglio e neppure quella patina disgustosa che le fìmmine chiamavano amore. Dopo la fuga di Rosario, era rimasto fante unico in un mazzo di regine sguattere.

Il giorno in cui u surici finì con il naso fracassato da un compagno, Sebastiano lo vendicò con un punteruolo da disegno. Santu, il padre di Luciano, lo volle incontrare: «Perché lo hai fatto?».

«Per giustizia.»

«Mio figlio non ti è parente.»

«Il sangue chiama sangue.»

«Bravo picciriju. Hai il cognome sporco ma ti sai portare. Ho un lavoro per te, se ti interessa.»

«Che lavoro?»

«Le domande le faccio io. Tu rispondi sì o no.»

«Sì.»

«Domani pomeriggio andrai a Reggio con l’autobus e porterai questo pacco in via Belfiore, a un amico mio.»

«E poi?»

«E poi basta.»

Sebastiano obbedì, senza fare domande.

«Come è andata?» si informò Santu.

«Liscia.»

«Avrei un’altra consegna piuttosto urgente da fare.»

Sebastiano consegnò il pacco, senza fare domande.

«Com’è andata?»

«Come la volta passata.»

«L’impegno potrebbe diventare quotidiano» disse Santu.

U Prìncipi accettò. Lo nascose alla sorella, che gli trovò trentamila lire nella tasca di un pantalone messo a lavare. Lorenza scoprì altri soldi nella federa del cuscino. Aprì la cartella e sfogliò il diario, fermo al quindici novembre: «In classe devo stare più attento».

Prese la bicicletta e arrivò fino a Pescheto: «Voglio sapere di Sebastiano» disse alla maestra.

«Non lo vedo da almeno tre settimane» fu la comunicazione asciutta.

«Perché non mi avete avvisata?»

«Ero sicura che sapeste.»

La mattina seguente, Lorenza seguì il fratello. Lo vide arrivare davanti alla scuola e deviare per la piazza. Lo fermò mentre saliva sull’autobus per Reggio: «Lasciami» reagì Sebastiano.

La spinse a terra e non si voltò a guardare.

Mise in bocca la sigaretta che u surici gli aveva regalato insieme a un accendino.

La sera stessa si sistemò su una coperta, nel sottoscala di Santu. Non tornò a casa. Irene e Lorenza lo spiegarono alla madre: «Vostro figlio si è inguaiato».

Nuzza le fissò con gli occhi assenti: «Cenere acqua detersivo e soda».

«Matri, avete capito? U Prìncipi si è messo in un giro brutto.»

«Donna Sirbana, non dovete dubitare.»

Nei mesi a seguire, u Prìncipi fu impegnato a crescere. Aveva un lavoro, guadagnava dei soldi e voleva contare, nonostante il cognome da infame. Mostrava con vanto il taglio sul mento che si era fatto durante una rissa. Portava gli occhiali scuri anche di notte. Teneva il coltello a scatto nella tasca interna del giubbotto. Si comprava magliette firmate. Rubava motorini e li truccava. Prendeva botte, dava botte. Durante uno scontro si ruppe addirittura il naso, perse un dente, si ritrovò con tre costole rotte. Non riusciva a spiegarselo. Quando si accasciava a terra dolorante, si sentiva forte come un dio. Era chi voleva essere. Se ricordava la mano che il padre gli appoggiava sulla testa, cacciava l’immagine dentro un altro, più feroce pugno: sono orgoglioso di te, del tuo modo arrogante di farti spazio. Le attenzioni di Nuzza non valevano una sola di quelle carezze. Che nausea. Che delusione. Per distruggere la tenerezza, doveva rialzarsi e picchiare.

Le mani nude non bastavano. Per diventare nu cotraru, aveva bisogno di un’arma. Suo padre ne possedeva una con l’impugnatura color avorio e la canna mozza. Gliel’aveva mostrata prima di salire a muntagna, per le tre notti dell’abbondanza: «Vedi, figghiolu?» gli aveva detto. «Un giorno sarà tua, ma dovrai meritarla.»

«Patri, quante volte avete sparato?»

«Non me lo ricordo.»

«Quante volte avete ucciso?»

«Una soltanto.»

Rosario non gli raccontò che l’unico grilletto premuto con intenzione aveva centrato Ettore Buoi e anche il proprio, di petto. Ammazzare un nemico era un dovere. Eliminare nu gnuri per colpa di un sospetto debole, invece, era un carico di birra Lido da trasportare a mano, ogni giorno, lungo una strada in salita. Per mettere a tacere il rimorso, aveva preso con sé il figlio dello sparato e gli aveva dato un lavoro. Sapeva che Rocco si incontrava con Irene sul tetto del magazzino. Sapeva delle mani sotto le gonne. Il suo silenzio era il risarcimento di un codardo.

U Prìncipi non conosceva i turbamenti del padre. Per lui era solo un impedimento. Per salire più in alto nelle grazie di Santu, doveva liberarsi di Rosario e doveva farlo con la sua stessa arma. Il padre la nascondeva da qualche parte a Fosco, nella casa di famiglia.

Salì sul motorino, prese la litoranea, oltrepassò la curva delle guardie e si fermò davanti alla pizzeria abbandonata. Forse non lo avrebbero riconosciuto. Aveva i capelli corti e il corpo allampanato di un adolescente. Entrò in casa senza bussare.

Nuzza gli rivolse un sorriso: «Donna Sirbana?».

Sebastiano la guardò e lei si voltò verso la finestra. Quando era bambino e la abbracciava, sentiva le sue ossa scricchiolare. Aveva sempre avuto paura di romperla. Salì le scale e inciampò nel tappeto dell’anticamera. Si diresse verso la camera del padre. Aprì gli armadi, rovesciò i cassetti. Spostò il letto, buttò a terra la lampada del comodino. Nulla. Passò nella stanza accanto. Reggipetto e mutandine erano aggeggi da donne, non da sorelle. Ribaltò i letti, squarciò i materassi. Si diresse verso l’ultima camera in fondo al ballatoio, che un tempo era stata la sua. Foto stupide di giorni stupidi, una fionda, due pacchetti di caramelle alla menta che nessuno si era preso la briga di buttare. Frugò, girò, capovolse e si accorse che non c’era più niente, lì dentro, che fosse della sua misura.

Irene era sul retro. Sentì le porte sbattere e corse in casa: «C’è qualcuno?» chiese alla madre.

«Cenere acqua detersivo e soda.»

Vide un’ombra intenta a rovistare: «Chi c’è?» domandò.

Sebastiano si voltò e Irene riconobbe il suo modo di strizzare gli occhi, per farli sembrare insofferenti.

«Bentornato.»

«Non sono tornato.»

«Cosa ci fai qui?»

«Cerco la pistola di patri.»

«Non c’è nessuna pistola.»

«Invece sì.»

«Come fai a saperlo?»

«Qualche anno fa, Rosario ci ammazzò un infame. Si chiamava Ettore Buoi.» Sorrise. «Lo conoscevi?»

«Vattene.»

«Voglio quella pistola.»

«Non so di che parli.»

«Te lo ripeto. Mi serve la pistola.»

«Cosa ci devi fare?»

«Ci devo ammazzare patri

«Non so come aiutarti.»

«Meglio per te.»

«Fuori.»

«Altrimenti cosa fai? Chiami le guardie?»

La ragazza brandì il pennello che teneva tra le mani. Lui lo afferrò, lo spezzò e lo buttò a terra: «Me ne vado, non ti preoccupare. Questa casa puzza di infame».

Lasciò la stanza e non salutò la madre. Uscì in strada, accese il motorino e partì impennando. Non si accorse di quanto, durante la sua assenza, Fosco si fosse trasformato.