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Prima che arrivasse il buio, Lino tornò nella sua vecchia casa. Ci andò da solo. Spinse la porta e abituò gli occhi alla penombra. All’ingresso vide un paio di ciabatte scompagnate e una borsetta della madre, con il manico rotto. Raggiunse il soggiorno e si accomodò sulla poltrona che portava ancora la forma di Totonnu, del suo modo pesante di lasciare il segno. Aprì gli scuri e le finestre, lasciò circolare l’aria. Andò in cucina e si sedette al tavolo dove il padre lo aveva legato, il giorno in cui si era travestito da Carmen. Sul gas c’era la macchinetta del caffè. Sulla dispensa, una ghirlanda d’aglio andata a male emanava un odore marcio di passato. Salì al piano superiore. Il suo letto era sfatto. Qualcuno doveva averlo usato, oppure preso a pugni. Sul comodino c’era una fotografia del coro del collegio sulla quale campeggiava la scritta MADONNA DELICATA, PROTEGGI TUTTE LE MAMME DEL MONDO. Il Rettore aveva inviato l’omaggio alle famiglie, insieme a un bollettino postale per le offerte. Lino avvicinò la fotografia e si ritrovò in prima fila, gambe smilze e gli spartiti aperti davanti al petto. Si toccò le orecchie. Dio mio, in quella posa sembravano enormi.

Nella stanza dei genitori, trovò la moneta da cento lire che la madre aveva deposto sul cuscino, in segno di lutto per la morte del marito. Ai piedi del materasso, riconobbe la camicia da notte a pois comprata durante una televendita di Grisantemo Belletta. Aprì il comò e contò sedici camicie da notte ancora impacchettate, che Bruna aveva accumulato per il suo imprevedibile futuro: «La malattia viene all’improvviso» diceva. «Bisogna tenere accesa la lanterna.»

Ora lo sapeva. Ecco che cosa avrebbe fatto quella donna così infelice e stanca, se fosse arrivata la fine del mondo. L’avrebbe aspettata con una valigia piena di camicie da notte confezionate. Eppure, quando la sua personalissima fine del mondo era arrivata per davvero, Bruna non si era portata via nulla di ciò che aveva diligentemente preparato. Partìu pa muntagna e basta, trascinata via da un temporale inaspettato. No, Lino non avrebbe cercato la madre. Non le avrebbe mostrato l’uomo che era diventato. Sarebbe stato come ucciderla. Nel suo viso sbarbato di fresco non c’era nulla che potesse richiamare l’idea antica che la madre aveva avuto di lui, quando se lo portava in petto e gli comandava la fatica di essere. Corrispondere a un’idea equivale a una condanna. Ci sono amori destinati alla delusione. Per Lino, il legame con la madre era una coperta piegata in quattro durante l’estate, in attesa di un inverno prossimo.

Tornò nella sua camera da bambino. Aprì l’armadio e cercò le braghe con la piega sul davanti, la giacca per la messa della domenica, la veste della Prima Comunione e il giubbotto per le vacanze in montagna. Fece spazio, svuotò la borsa e appese la gonna pied de poule e la camicetta bianca, dono di Cesira, due giacche di strass, un gilet di seta e il completo di Valentino al quale aveva fatto attaccare i bottoni. Si stese sul letto e si lasciò andare al sonno.

Dormì profondamente, dimenticandosi di sognare.

La mattina seguente fu svegliato dall’aroma intenso del caffè. Dov’era, si domandò. A casa. Perché quella, nonostante tutto, era la sua casa. Il luogo dove tutto cominciava. I piedi che spuntavano dal letto gli ricordarono di aver superato la misura concessa dall’infanzia. Si alzò e scese in cucina. Nuzza si affaccendava attorno a due fette di pane tostato: «Buongiorno».

La donna continuò a lavorare.

«Zia, mi riconoscete?»

«Certo. Si u figghiu i Bruna. U ricchiuni!»

«Avete la memoria di un elefante.»

Nuzza gli versò il caffè in una tazzina sbeccata: «Adesso che sei tornato, possiamo sistemare la lavanderia. Quelle disgraziate delle mie figlie non mi danno retta. Tu invece c’hai cervello e buon gusto. Io, a te, ti vedo tutti i giorni».

«Dove?»

«Su Tele NovoSud. Sei quello del frullatore a pedale.»

«Mi avete scoperto.»

«Il frullatore l’ho comprato e subito l’ho dovuto buttare. È durato due settimane. È roba orientale, ci scommetto.»

«Lo dirò al signor Belletta.»

«Macché, quello è un cretino. Mi aveva già fregato dieci anni fa, con i posacenere di Padre Pio. Quanto ci ho messo, a convincere i clienti della pizzeria a fumare. Tu, però, sei più sveglio e mi puoi aiutare.»

«Cosa volete che faccia?»

«La lavanderia è in rovina. Gli scaffali sono vuoti, mi hanno rubato addirittura i macchinari. Ho ancora certe commesse da sbrigare e i clienti aspettano. Non posso tardare. Devi sistemare la lavanderia e farla funzionare.»

«Non sono la persona adatta.»

«Perché? Se riesci a vendere quella robaccia a pedale, puoi fare di tutto.»

«Le vostre figlie sono d’accordo?»

«Le mie figlie hanno la loro vita e io ho la mia. L’accordo è nostro, tra me e te.»

«Ho capito.»

«Allora, quand’è che cominci?»

«A fare che?»

«Se ci sbrighiamo, riapriamo addirittura prima di giugno.»

«Giugno è domani.»

«U sacciu. Facimu prestu. Nc’è i lavurari

Nuzza smise di ciabattare in giro per la casa. Prese ad alzarsi di buon’ora e a sgranocchiare uno spicchio d’aglio mattutino, per cominciare bene la giornata. Il nipote la aspettava nella lavanderia: «Avete riposato?» si informava.

«Bravo, che arrivi presto e non ti fai pregare.»

Lino non era abituato al lavoro materiale. Lo sforzo gli gonfiava le mani. Ci mise dieci giorni a ripulire i locali e a smaltire le macerie. Tra i vetri in frantumi ritrovò un’immagine della Madonna delicata, dodici casse di Stiro!, l’appretto con il manico, e il blocchetto delle consegne. Sull’ultima ricevuta, la calligrafia antica di Nuzza diceva: Donna Sirbana. Urgente.

Angiolino rientrò a Reggio e passò dagli studi di Tele NovoSud: «Ho bisogno di altri giorni di riposo,» disse al Belletta «sono ancora malato.»

«Ma se ti sei anche abbronzato!»

Aveva sempre certi crampi, disse, e un malessere diffuso che gli impediva di concentrarsi. Ancora cinque giorni e si sarebbe sistemato.

Salutò il Belletta, pagò le bollette arretrate e ordinò due macchinari, che arrivarono la settimana successiva insieme all’insegna U NOVU SAPUNI, Sconti speciali il giovedì. Sul giovedì, Nuzza era stata irremovibile.

«Zia, vi piace?»

«È come quella di prima.»

«No. C’è scritto novu. U novu sapuni. Non mi date soddisfazione.»

«Moviti e appendi l’insegna fuori dal negozio, che abbiamo da fare.»

L’attività fu inaugurata con una torta al bergamotto e due bicchieri di liquore alle ortiche: «A saluti nostra!».

«A chi ci vuole male.»

I soli clienti erano i forestieri di passaggio, che rovesciavano sul bancone della lavanderia gli zaini pieni di calzini fetidi. Angiolino andava e veniva dalla città, dove aveva ripreso a lavorare per il Belletta. Era distratto e si assentava di frequente. Il Belletta era inquieto: «Si può sapere dove vai?».

«Venite con me.»

Grisantemo arrivò a Fosco e se ne pentì all’istante. Nuzza lo investì di rimostranze. Non le era proprio andata giù la storia dei posacenere del santo e neppure quella del frullatore a pedale: «La roba orientale è fatta di cartone. Due colpi e si rompe. A genti non è fissa. Oggi paga, ma domani non ricompra. E poi vi immaginavo più bello».

«In che senso?»

«Più snello. Più alto. Più giovane.»

Anche i denti, sotto la luce impietosa del confronto, erano pezzi di ceramica destinati all’ingiallimento: «Vi hanno fregato. Gli olandesi io li ho visti e posso dire che hanno certi sorrisi... Date retta a me. Il vostro è una seconda scelta».

Dopo la spiacevole mortificazione, il Belletta tornò di corsa a Reggio. Angiolino non lo seguì: «Mi licenzio» gli disse.

«Per fare che?»

«Resto al paese.»

«E io impugno il contratto.»

«Quale?»

Zia Nuzza benedisse la decisione del nipote con un bacio in fronte: «Anche Bruna ne sarà contenta. Vive a muntagna, da zia Cuncetta, e la gotta se la sta prendendo. Le telefono e le dico di scendere.»

«Risparmiatele la notizia.»

«Perché?»

Sarebbe come uccidere.