Il cliente più assiduo della lavanderia divenne l’argentino che si era attrezzato per vendere caffè e panini ai turisti. Si chiamava Marcello. Era un trentenne con le spalle cadenti e i capelli a caschetto, inadatti al naso a trifoglio che gli sventolava in mezzo agli occhi. Era nato a Patricios, un paese a sud-ovest di Buenos Aires. I nonni erano partiti da Fosco nel secondo dopoguerra e avevano trovato lavoro nelle ferrovie. Gilda, la nonna, era lavapiatti nel caffè della stazione. Cosimo, il marito, era controllore. I figli e i nipoti mangiavano pasta condita con pomodoro, pancetta, uova e pollo, a memoria di una fame antica che bisognava esorcizzare con l’abbondanza.
L’anno in cui Marcello cominciò la scuola, la ferrovia fu venduta a un’impresa privata e i posti di lavoro furono dimezzati. Qué pena, si lamentavano i genitori, possibile che non si potesse fare nulla per fermare l’emorragia? Ah, l’Italia. Là sì che le monete d’oro crescevano sugli alberi. Fosco, nella punta dello stivale, era il regno del Bengodi e Marcello, prima o poi, ci sarebbe andato.
Dopo gli studi, si decise. Mise in valigia tre maglie, due pantaloni e una foto degli abuelos. Giunto a Milano, si diede il tempo per scendere fino alle radici. Attraversò città, pianure e montagne, fino ad arrivare a Fosco. Il paese era abbandonato. Qualcuno, chissà chi, aveva dipinto le facciate e la fontana della piazza. Doveva esserci stato un tempo differente e non troppo lontano, dove la gente abitava quelle case e camminava per i vicoli. Cercò via al Castello 22 e la trovò in un groviglio di edifici sghembi. Sul portoncino color smeraldo, una mano di legno invitava a bussare, ma un catenaccio a doppio giro diceva che i luoghi cambiano. In quella casa, molti anni prima i suoi nonni avevano radunato il corredo, due salami, i documenti e la foto del matrimonio. Oltre il portone, ci dovevano essere ancora i loro sospiri, il trascinare lento dei passi che separava il presente da un futuro possibile. Anche il nipote si portava addosso la malinconia. In lui, però, era senza nome.
Marcello vide una ragazza su un’impalcatura: «Che fai?» domandò.
Lei si voltò a guardare, pennello in mano e i capelli sporchi di colore: «E tu?».
«I miei nonni erano di Fosco.»
«Io vivo qui. Mi chiamo Irene.»
«Cerco un posto dove stare.»
«Per quanti giorni?»
«Quanti bastano.»
Marcello si sistemò nel magazzino della pizzeria, in mezzo alle casse di birra marca Lido: «Ieri l’ho bevuta» disse la mattina seguente. «Ottima. Leggermente saponata.»
«Bevi tutta quella che vuoi.»
«A te non piace?»
Irene ci pensò: «Non lo so» disse.
Non l’aveva mai assaggiata.
Per campare, Marcello cominciò a vendere panini al salame e birra marca Lido, che piaceva ai tedeschi. Prima o poi avrebbe aperto un ristorante, per il quale aveva già trovato il nome adatto: La scala che porta al mare. Un po’ lungo, forse, ma di impatto. Per fare il grande passo, però, aveva bisogno della protagonista principale. Più di una volta aveva provato ad arrivare alla spiaggia e ci aveva lasciato i pantaloni e una caviglia. Come mai nessuno ci aveva pensato?
«Dobbiamo costruire una scala che porta al mare» disse a Irene.
«Ci abbiamo già provato.»
Il risultato era stato un’approssimazione, il gioco stravagante di un ideale. I gradini non avevano la stessa dimensione, neppure la stessa distanza. Insieme, però, facevano una scala. U spazzinu l’aveva presa a martellate. Il suo gesto era stato la peggiore delle ingiustizie.
«Ce l’hanno distrutta.»
«Chi?»
«Qualcuno che ci voleva male.»
«Perché non l’avete rifatta?»
«Sarebbe stato inutile. Ci sono cose che non si possono cambiare.»
«Lo dici tu. I miei nonni non avevano studiato, eppure la abuela diceva sempre che, qualsiasi cosa uno abbia in testa, deve farla come se fosse un’opportunità.»
Irene non aveva più pensato alla scala come a un’opportunità. Da quando u spazzinu l’aveva abbattuta a colpi di martello, si era lasciata prendere da uno sconforto misto a paura. Da bambina, aveva avuto paura di zi’ Totonnu, del grembiule sporco di sangue e dei proiettili che fischiavano nell’aria. Durante la notte dell’abbondanza, aveva avuto paura della morte. Del corpo di Rocco, dell’impossibilità di risvegliarlo. Quando la Cinquecento del padre era saltata per aria, aveva avuto paura della prepotenza. Aveva ancora paura del vuoto. Di ciò che non era e di quello che non sarebbe stato mai.
Per ricostruire la scala, bisognava scendere lungo il dirupo, strappare la mala erba, pulire, livellare. Essere di nuovo in tre: Irene, Angiolino e un mezzo straniero che non si chiamava Rocco. Marcello aveva il naso a trifoglio e girava con la foto degli abuelos appesa al collo. Conosceva i Lorida ma non li aveva mai sentiti sparare.
«Domani ti aspetto in piazza.»
«Non ci sarò.»
«Ci saremo io e Angiolino.»
«Non ti credo.»
«Puoi domandarglielo.»
«’Ngiulinu,» chiese Irene invadendo la lavanderia «è vero che vuoi ricostruire la scala che porta al mare?»
«Non vedi che c’è gente?» la rimproverò la madre.
«Sì, è vero.»
«Non puoi.»
«Perché?»
«Perché la scala era nostra. Mia, tua e di Rocco.»
«Adesso che Rocco non c’è più, cosa dobbiamo fare? Sperare nella fine del mondo per riuscire ad avere una seconda possibilità? Mi spiace, Irene. Io non voglio aspettare.»
«Così mi offendi.»
«Sei tu che offendi me. Ti credevo più determinata.»
«Io sono determinata.»
«Dici davvero? Per me il coraggio ha a che fare con un’occasione.»
«Di che diamine stai parlando?»
«Non tutti siamo nati con la matita in mano, lo sai? Ognuno sceglie il proprio modo di disegnare.»
«La scala era nostra, ’Ngiulinu.»
«Appunto. Ci vediamo domani mattina. Adesso lasciami lavorare.»
Irene fece una doccia calda e bevve un caffè senza zucchero. Alle sei era già al principio del dirupo. La distanza dalla spiaggia era la stessa di un tempo e i gabbiani strillavano, eccitati dal vento. Rocco non sarebbe più tornato. Prima di andarsene, però, le aveva riempito le mani e la bocca di ciliegie che sapevano di estate.
«Sei pronta?» le disse Angiolino.
«Sono pronta.»
Marcello li invitò a scaricare gli attrezzi e i sacchi di cemento che aveva accatastato al principio del dirupo. Non parlarono. Scesero lungo il terreno ripido e lo ripulirono dalle erbacce. Strapparono le radici e levarono le pietre. Spianarono la superficie destinata a ogni gradino per tracciare gli angoli. Costruirono le casseforme di legno, le sigillarono con la boiacca e si spostarono poco più sotto, verso il mare: «Prendete un po’ di mate» disse Marcello, offrendo loro un intruglio bollente.
«È amaro» si lamentò Angiolino.
«Devi farci l’abitudine.»
Ricominciarono. Strapparono le radici, levarono le pietre, posizionarono le casseforme, le sigillarono con la boiacca. Si spostarono poco più sotto, verso il mare.
A pomeriggio inoltrato giunsero alla spiaggia. Immersero mani e piedi nell’acqua salata. Alzarono lo sguardo: la scala era lì, davanti a loro, e aveva la proporzione del ben fatto.
«È più bella dell’altra.»
«Non è più bella. È soltanto più ordinata.»
«L’altra mi piaceva.»
«Anche a me. Però è un ricordo. Questa è qui, davanti a noi, e si può salire e scendere.»
«Ora lo faccio» disse Lino.
«Che cosa?»
«Ciò per cui sono nato.»
Si dimenticò della stanchezza e salì di corsa i gradini che arrivavano alla piazza. Marcello si avvicinò a Irene: «Posso?».
Lei si accorse di non essere preparata al suo imbarazzo. Rocco, l’idea di lui. Non c’era mai stato nient’altro.
Dall’alto della piazza, ’Ngiulinu inaugurò ufficialmente la scala che portava al mare. Si appoggiò sui piedi nudi, poi spostò il peso sulla gamba sinistra e allungò la caviglia destra in avanti. Si adagiò sul secondo gradino e, con la punta delle dita, si sollevò verso l’alto. Sfregò le cosce, fino a lanciare in avanti il piede opposto. Si alzò di nuovo sulla punta del piede e scese un altro gradino. Like a Virgin, intonò, taccd for de veri forst taim. I gabbiani si zittirono. Like a Virgin, uen ior art biz nes tu main. La sua voce sapeva di pastello rosa e rivoluzione. Vedendolo, Bruna sarebbe morta di crepacuore ma il resto del genere umano sarebbe campato soddisfatto, al ricordo di quella discesa fenomenale. Altro che cunnu e miele, altro che terra quando chiovi. Lino aveva un alfabeto tatuato sulla pelle. La sua grazia era donna ed era uomo, era una qualità dell’essere.
Arrivato sulla spiaggia, corse verso il mare. Si buttò in acqua e si ricordò troppo tardi di non saper nuotare: «Chi mi ndi futtu!» gridò.
Anche Irene si tuffò. Marcello la seguì. Nell’acqua tiepida provò a distrarsi da lei, dal suo petto svelato dal mare.
«Facitila ’nto culu, gnuri!» urlò Lino.
’Nto culu alla vostra prepotenza.
Che arrivassero pure, che li vedessero nuotare, che li sentissero divertirsi e cantare. Avrebbero potuto distruggere la scala nove volte, nove volte sarebbe tornata a spuntare.
Fosco si stava abituando all’idea di ricominciare.