Durante gli anni dell’università, Lorenza tornò poco al paese. Telefonava una volta al mese e ripeteva le stesse cose. Sto bene. Gli esami bene. La salute bene.
Aveva scelto una città del Nord per fare la fatica di abituarsi al clima e alle nebbie. La foschia dell’inverno e le giornate lunghe, senza sole, erano la sua benedizione. In mezzo a centinaia di studenti, Lorenza si sentiva felicemente anonima: «Mi chiamo Lorenza Rusto» diceva, e sulle facce degli interlocutori non compariva la minima emozione, nessun timore o disgusto. Matricola 17345. Era un numero. Era lei.
Viveva nel pensionato universitario, in una stanza con un letto e una finestra che dava sul cortile interno. Irene le aveva infilato in valigia uno dei suoi quaderni arancioni. È un regalo, diceva il biglietto che lo accompagnava. L’idea di un mondo possibile. Non lo aveva sfogliato. Se lo avesse aperto, si sarebbe fatta prendere dalla nostalgia e sarebbe tornata a Fosco in sella a una bicicletta con le ali. Invece doveva restare. Studiare con impegno ed evitare le domande: «Di dove sei?».
«Del Sud.»
«Di dove, esattamente?»
«Vengo da un paese piccolo.» Si chiama Fosco. È il paese dell’abbondanza.
La notte, prima di dormire, le capitava di pensare alla madre e alle sorelle. Se avesse incrociato Gianna per strada, non avrebbe riconosciuto la donna che cresceva il figlio di Coviello. Di certo u Prìncipi la invidiava. Che strano. Si può nascere dallo stesso ventre, respirare la stessa aria, nutrirsi dello stesso latte ed essere differenti. Lorenza e i suoi fratelli erano un caleidoscopio di possibilità. Irene pulsava, Gianna ribolliva, u Prìncipi feriva e lei coltivava, paziente, il suo pezzo di terra fertile in attesa del raccolto. Pensava anche alla prena. Di certo la sua creatura stava diventando grande. Era maschio o femmina? Come si chiamava? Sapeva di essere venuta al mondo dopo troppi giorni di tormento? Forse la madre le aveva raccontato di quel buco sottoterra, destinato a privarla del sole. Chissà se aveva un fratello o una sorella, a ricordare che si è unici soltanto in mezzo agli altri. Era serena o aveva paura del buio? Avrebbe imparato ad amare?
Le buone domande aprivano percorsi. Lorenza doveva fare ordine in ciò che era stato. Che fine aveva fatto suo padre?
Secondo i Lorida, viveva al Nord, in una città non troppo distante dalla sua. Non gli aveva mai chiesto perché. Pecchì, patri. Perché il tradimento, perché l’abbandono. Il capo era stato ammazzato e lui se n’era andato, insieme ai gnuri sopravvissuti al massacro. A differenza di loro, però, aveva parlato. Lo aveva fatto per paura, vendetta oppure per coraggio? La risposta le avrebbe permesso di perdonarlo, detestarlo o amarlo.
A metà del secondo anno di studi, Lorenza si chiuse nella biblioteca centrale e richiese i quotidiani del 1985. Il bibliotecario era un uomo calvo, dai modi gentili: «Compili questi» le disse allungandole i moduli. La ragazza ritirò i giornali e li impilò sul tavolo. Li aprì lentamente. Cercò le pagine di cronaca e le ordinò, fino a comporre un’immagine lontana dal mosaico incompleto del quale si era sempre accontentata. Le fotografie mostravano Fosco ai tempi dell’abbondanza. Riconobbe le facce, i nomi, i luoghi e il sangue sulle case. Incrociò gli indizi di una storia che le apparteneva.
Anno 1985. Nel paese di Fosco girano soldi, affari e interessi che superano i confini locali. Antonio Rusto detto Totonnu – quel Totonnu, zi’ Totonnu – viene decapitato durante una faida con una famiglia rivale. La strage dell’abbondanza fa dodici vittime e determina una nuova spartizione di territori e potere nell’intera provincia. Io ho visto, io c’ero. L’imboscata ha lo scopo di eliminare tutti i maschi affiliati ai Rusto. Il figlio di Totonnu, ’Ngiulinu!, si salva. Al suo posto, perde la vita Rocco Buoi – Rocco – figlio di Ettore, ammazzato a sua volta in un precedente regolamento di conti. Il motivo apparente della faida è il coinvolgimento obbligato dei Rusto nel rapimento di una donna al sesto mese di gravidanza. La prena. L’opinione pubblica si rivolta, l’esercito invade la regione. Mimmo, l’esercito si chiamava Mimmo e aveva la faccia gentile. Dopo essere stata nascosta in un covo a tre metri sotto terra, la prena è trasferita a Fosco sopra il tetto di una pizzeria. La nostra. Durante la notte dell’abbondanza, è prelevata e costretta a viaggiare per ore sul sedile posteriore di un’automobile. La liberazione avviene il giorno successivo, nei pressi di Brescia, in circostanze ancora da chiarire. Indiscrezioni parlano di un collaboratore, da inserire in un programma di protezione.
Lorenza avvicinò la lente luminosa alla pagina del quotidiano.
L’uomo vive sotto falsa identità, in una località segreta.
La ragazza si sforzò di sorridere al bibliotecario: «Si sente male?» le chiese l’uomo.
Ordinò i giornali sul tavolo, accanto alla lente luminosa. Avrebbe dovuto sapere che la vita era una questione di bene e male. Gli abitanti di Fosco avevano scelto il male, nella convinzione che fosse l’unico bene possibile. Totonnu, per loro, era stato il bene massimo, il migliore. In nome suo, si erano fatti ammazzare oppure erano fuggiti, in cerca di identiche certezze. Quando u Patri era morto, uno solo gli era rimasto figlio. Era Rosario?
Lorenza tornò nella propria abitazione di studente. Si mise a letto. Provò a dormire. Non ci riuscì. Si alzò, bevve un sorso di latte e uscì a camminare lungo il fiume. Una coppia dormiva abbracciata su una panchina. Un giovane correva sulla riva, con la musica nelle orecchie e il respiro nebbioso del mattino. Lorenza guardò l’acqua scorrere verso un mare che non sapeva di conoscere. La mattina stessa si presentò in questura: «Voglio incontrare Rosario Rusto» disse.
«Chi?»
«Collabora con voi.»
«Lei chi è?»
«Sono sua figlia.»
«Non siamo tenuti a darle informazioni.»
«Invece sì.»
La fecero parlare con un magistrato. Con un altro. Un altro ancora. Tornò. Ritornò. Si sottopose a colloqui, portò documenti e certificati: «Perché vuole incontrare Rosario Rusto?».
«Ho qualche cosa da domandargli.»
«Lui non l’ha mai cercata?»
«Mai.»
«Cosa le fa pensare che sia al Nord, sotto protezione?»
«Me l’ha detto Felice Lorida. Lo conoscete, vero?»
«Lo conosciamo.»
Dopo sei mesi e molte insistenze, Lorenza incontrò il padre in un bar alla periferia di Milano, a pochi chilometri dalla località in cui l’uomo provava a ricostruirsi una vita. Lei avrebbe voluto abbracciarlo, sentire il suo calore di padre. Rosario teneva gli occhi fissi sulle mani ruvide. Era dimagrito e sembrava essersi accorciato. Indossava un maglione verde senza collo.
«Eccomi» disse lei, senza togliersi il giubbotto.
Rosario la guardò e subito spostò lo sguardo al fondo della sala. La televisione trasmetteva un quiz a premi: In quale città italiana si trova la Ghirlandina?
«Ti sei fatta grande.»
«Come state?»
«Sto.»
«Vi trovate bene?»
«Abbastanza. L’anno scorso mi chiamavo Amedeo, oggi mi chiamo Mario e tra un mese diventerò Filippo. Non è divertente. Non posso lavorare. Dicono che non mi è permesso, almeno fino a quando la situazione non si sarà stabilizzata. Chissà cosa significa. Quelli che decidono di me hanno le camicie pulite e gli uffici con le segretarie gentili. Io invece devo stare tutto il giorno senza fare niente. Conto i pensieri e, quando finisco, ricomincio.»
«Come vivete?»
«Mi passano dei soldi. Qualche volta se ne dimenticano. Non ti preoccupare, mi dicono. Prima o poi arrivano. Ci sono mesi in cui devo scegliere se mangiare o fumare. Preferisco fumare.»
«Perché avete parlato?»
«Le fìmmine non si interessano di certe cose.»
«Le fìmmine vi campano la famiglia.»
Rosario starnutì.
«Non siete mai stato un buon padre.»
«Non ho niente da dirti.»
«Me lo dovete.»
«Non devo niente a nessuno.»
Alla tv, il montepremi continuava a salire: Che cos’è il Concistoro?
«Voglio sapere com’è andata veramente.»
«Perché?»
«Voglio poter scegliere.»
«Non possiamo scegliere, non l’hai ancora capito?»
«Parlate per voi, patri. Io parlerò per me e i miei figli per se stessi.»
«Così il mondo andrà a gambe per aria.»
«Non sarete qui a vederlo.»
Rosario si accese una sigaretta.
«Se ti dico com’è andata, poi mi lascerai in pace?»
«Sì.»
«Non ti piacerà.»
«Lo immagino.»
Tirò una boccata.
«Eravamo a muntagna per il maiale estivo. Aveva ragione tua madre, il porco si ammazza soltanto a capodanno. Non dovevamo sfidare il sangue. Durante il secondo giorno dell’abbondanza i Lorida ci chiamarono a Fosco per riconsegnare la prena. Pretendevano che scendessimo in paese, a coprire loro le spalle. Dicevano di aver avuto una soffiata. Le guardie sapevano e stavano per arrivare. La donna era sopra il tetto della pizzeria e, se l’avessero trovata, per noi sarebbe stato un guaio. Ma i Lorida mentivano. La loro era un’imboscata. Volevano eliminare tutti i masculi dei Rusto, proprio come avevano fatto con i Torsi. Pesce mangia pesce e s’ingrassa.»
A quale popolo apparteneva Annibale?
«Scoppiò l’inferno. Ci caricammo la prena in macchina. Oltre a me, c’erano Ciddu e Arcuri. Che ce ne facciamo, chiedeva u ragiuneri. Totonnu è morto, non sappiamo a chi rispondere. Consegnamola a Felice Lorida, propose Ciddu, in cambio di protezione. Hai capito? La testa di Totonnu non aveva ancora finito di rotolare tra la polvere, e quei due già parlavano di un nuovo messia. Si erano dimenticati i favori, le attenzioni, i privilegi. Erano loro, gli infami. Alla pizzeria non avevano mai pagato. Ordinavano caffè, amari e sigarette e io – io – servivo e pagavo. Sopportavo per rispetto a mio cugino e al nostro cognome benedetto. Bastardi. Non gli avrei dato la soddisfazione di cavarsela. Si fermarono in una piazzola a pisciare. Fai la guardia, mi obbligarono, come se non contassi niente. Le chiavi erano nel quadro. Scavalcai il sedile, lasciai i gnuri dov’erano e ripartii. La prena si lamentava. Ccìtta, le dicevo, che tra poco finisce. Ccìtta o ti ammazzo. Guidai tutta la notte e all’alba la lasciai in un campo di mais, vicino all’autostrada. Vai, le dissi, sparisci. Fui io a chiamare le guardie. Pronto? Sono in una cabina telefonica. Vedo l’insegna di un bar. Caffè Mameli. Venite a prendermi. Arrivarono. Feci i nomi di quelli che erano rimasti. Avevano tradito la memoria di Totonnu e dovevano pagare.»
«Perché non avete denunciato anche i Lorida?»
Il presentatore chiese al pubblico un applauso per la nuova concorrente, Giulietta da Nova Milanese. Cosa fai nella vita, Giulietta?
«Avrebbero ammazzato u Prìncipi.»
Al padre non uscì nient’altro, neppure una bugia o mezza frase sul sole che, al Nord, era sempre un po’ svogliato.
«Tutto qui?»
«Tutto qui.»
«Scusate se vi ho disturbato.»
«Non dire a Gianna che mi hai visto. Frequenta brutta gente.»
«Io e Gianna non ci parliamo.»
«Meglio così. Tua sorella è sempre stata un po’ buttana. Ha il marito che si merita. Hai degli spiccioli? Diecimila lire e una stecca di nazionali mi farebbero comodo.»
«Compratevi quello che volete» disse Lorenza, svuotandosi le tasche.
«Figghiola?»
«Ditemi.»
«Come sta u Prìncipi?»
«Si è perso. È tornato a casa una volta soltanto. Cercava la vostra pistola.»
Quale di questi musicisti non ha mai fatto parte dei Rolling Stones?
«Voleva ammazzarvi.»
Rosario si accese un’altra sigaretta: «La pistola è nella vostra stanza, sotto la piastrella dove Irene tiene i suoi quaderni arancioni. Per trovarla, vi basterà rimuovere il fondo. Seppellitela e dimenticatevi di me».
«Me ne vado.»
«Un’ultima cosa. Di’ a Irene che aveva ragione. Ettore Buoi l’ho ucciso io, con il colpo in bocca destinato agli infami. Ho obbedito a un ordine. Sapevo che lei e Rocco si incontravano di notte, sul tetto del magazzino. Rocco era il preferito di Totonnu e un giorno avrebbe preso il suo posto. Il proiettile che lo uccise era destinato all’erede che ’Ngiulinu non poteva essere.»
George Harrison, risposta esatta.