Durante una finestra d’esami, Lorenza rientrò a Fosco per una vacanza. Il paese si stava ripopolando. Rosmarino, gerani, campanule e peperoncino ornavano i davanzali di quattro o cinque case del centro. Il bar della piazza era stato riaperto e aveva cambiato nome. Si chiamava Caffè della Liberazione. Angiolino aveva tolto ciò che restava del cartello NDI VÌDIMO e aveva ceduto i locali della macelleria a Marcello, che prima o poi avrebbe inaugurato il ristorante La scala che porta al mare. Sulle pareti Irene stava dipingendo polpi, stelle marine, cefali, barracuda e la discesa fenomenale del cugino. Rocco era su tutti gli edifici, su ogni facciata, con i suoi riccioli scompigliati e la peluria sottile sopra il labbro superiore. La lavanderia U NOVU SAPUNI, Sconti speciali il giovedì, lavorava grazie ai forestieri e a un paio di commesse recuperate a Reggio.
Nuzza salutò la figlia: «Che secca ti sei fatta».
«State bene, matri.»
Nuzza fioriva. In settimana aiutava nella lavanderia e la domenica partiva per la curva delle guardie, con una cesta sulle spalle e un cappellaccio di paglia calato sulla fronte. Per raccogliere l’ortica, non usava i guanti. Si chinava sui gambi e li inclinava su un fianco, così da rendere innocui i peli urticanti: «Con chi la sa trattare,» spiegava ad Angiolino «la mala erba è giudiziosa». Con l’ortica ci faceva la frittata, il pesto e una pomata contro l’artrite e le punture di insetto. Preparava anche un decotto: «Mettitelo in testa, ’Ngiulinu, che ti viene la criniera di un leone». Era ruvida, ma si era fatta più accomodante con Angiolino e quel Gaetano che veniva da fuori. I due si volevano bene e guai a giudicarli. Irene non aveva talento, ma c’era da avere compassione di tanta volontà abbinata a dappocaggine. Gianna si era smarrita appresso all’amore e – che disgrazia – Sebastiano si era perso nel mondo. Nuzza ci piangeva la notte, ma solo quando il bruciore di stomaco le guastava il sonno. Aveva rinunciato ai sogni matrimoniali per Lorenza, che studiava al Nord e che aveva già la pelle sciupata di una zitella: «Rassegnatevi, zia» le aveva consigliato Angiolino. «Le ragazze di oggi vogliono fare la carriera.»
«E come fanno, senza nu masculu che pensa a camparle?»
«Si campano da sole.»
«Da sole? No no, ’mbrogghi.»
Il giorno successivo al suo rientro, Lorenza dormì fino a mattina inoltrata. Di solito si svegliava alle sette, e neppure nei giorni di festa riusciva a fare un’eccezione. Sentì Irene trafficare in cucina. Si girò verso il letto di Gianna, che aveva ancora il copriletto rosa e un cuscino di uncinetto.
Irene bussò. Le porse una tazzina e si sedette accanto a lei, sul bordo del letto: «Hai riposato?».
«Troppo.»
«Nuzza sta preparando il pranzo. Ha deciso che devi ingrassare.»
«Questa casa sa di vecchio. Dobbiamo buttare via le cose che non servono e far entrare la luce.»
«Lo faremo.»
Lorenza bevve il caffè: «L’ho rivisto».
«Chi?»
«Patri. Sono riuscita a parlargli. Non sta bene. È dimagrito. Cambia spesso casa e documenti. Non può lavorare. Gli passano un mensile ma fa la fame. Come è possibile, ho chiesto ai magistrati. Così lo fate morire due volte.»
«Perché lo hai cercato?»
«Volevo sentirgli dire quello che immaginavamo. Fece i nomi per vendicarsi dei gnuri e del disprezzo con il quale lo avevano trattato. Sui Lorida, invece, restò in silenzio. Doveva proteggere u Prìncipi, la luce sua.»
«Noi contiamo poco, ai suoi occhi.»
«Gli ho detto che Sebastiano lo sta cercando. La pistola è qui, in questa stanza, sotto i tuoi quaderni arancioni.»
«Non è possibile.»
«Dice di sbarazzarsene.»
Irene si infilò sotto il letto e sollevò la piastrella. Spostò i quaderni arancioni, cercò il fondo e fece leva con il cucchiaino da caffè. Allungò la mano fino a sentire l’arma. L’appoggiò sul copriletto rosa di Gianna.
«Con questa pistola, patri ammazzò Ettore Buoi. Gli sparò in bocca il colpo destinato agli infami e poi andò al suo funerale. Indossò il vestito migliore, diede il braccio alla vedova e chiamò suo figlio a lavorare con sé.»
«Era un bastardo.»
«Un uomo debole. Non fu lui a decidere della vita di Ettore, e nemmeno di quella di Rocco.»
«Cosa c’entra Rocco? La sua morte fu un incidente, uno sparo in mezzo a mille altri.»
«No. Il proiettile che lo uccise era destinato all’erede di Totonnu.»
«A ’Ngiulinu.»
«A Rocco. Il colpo era per lui.»
«Di che bestemmi?»
«Era il prescelto. Sarebbe diventato il preferito.»
«Era il mio preferito,» disse Irene «mio e di nessun altro.»
«Per averti, doveva pagare un pegno. Era disposto a farlo.»
«Sono bugie.»
«Sono punti di vista.»
«Ccìtta.»
«Siamo state zitte abbastanza.»
«Non voglio ascoltarti.»
«È meglio che tu lo faccia.»
«Odio nostro padre.»
«Non confonderti con lui. È un uomo incapace di dare. Non gli importa di noi, di Nuzza o di Gianna. Vostra sorella è sempre stata un po’ buttana, mi ha detto. Ha il marito che si merita. Credimi, è meglio così. L’indifferenza di Rosario ci protegge. I Lorida sanno che eliminarci sarebbe una vendetta inutile. Per questo siamo ancora vive.»
«Non ci resta più niente.»
«Ti sbagli, Irene. Ci restiamo noi. Non lo vedi? È già così tanto.»