69

Per festeggiare la breve vacanza di Lorenza, Angiolino indossò il completo di Valentino al quale aveva fatto applicare i bottoni. Si pettinò i capelli all’indietro e riconobbe il ragazzino che era stato. Le rughe giovani del viso erano la premessa di un tempo che sarebbe arrivato in fretta: “’Ngiulinu,” si disse “sorridi. Si nasce piangendo e a sorridere si impara”.

Entrò a casa di Nuzza: «Zia, lo prendo in prestito» disse afferrando il tavolo del soggiorno.

«Dove lo porti?»

«In piazza della Liberazione.»

«Ti sei bevuto il senno?»

«Voglio che tutti ci vedano. L’allegria è contagiosa.»

Apparecchiò con una tovaglia rossa e le porcellane della festa, che non erano più servite dal battesimo du Prìncipi: «E voi due, lassù, fatevi belle» gridò alle cugine, affacciate al balcone di casa. «La fine del mondo è arrivata!»

Marcello si presentò puntuale, con una bottiglia di vino e una giacca troppo elegante. Irene e Lorenza arrivarono vestite di bianco, come ai tempi del pellegrinaggio. Era una giornata di sole. La luce chiedeva agli abitanti di Fosco di scendere dai muri, per cortesia, ché era ora di sedersi a tavola e mangiare. Zi’ Totonnu abbandonò il coltello sul bancone della macelleria e si pulì le mani dentro il grembiule. La Madonna delicata lasciò la sua nuvola dorata per sedersi a capotavola. Zia Bruna accese lo stereo e invitò Peripla a danzare. La prena portò una cesta di albicocche e la sua creatura rincorse le galline di zia Cuncetta che razzolavano tra la polvere, in cerca di chicchi di grano e diamanti. Donna Sirbana arrivò volando sulla gonna di seta gialla, a braccia aperte e con un mantello di trapunta. Planò sulle teste dei cotrari di San Rotondo, che giravano per la piazza in sella ai motorini truccati.

Irene ci aveva fatto l’abitudine, ma non si era rassegnata. Sarebbe rimasta lì, a Fosco, a infastidire i Lorida con la sua presenza. Aveva ritrovato il rosso. Rosso fuoco rosso sangue rosso dolore rosso peperoncino rosso ciliegia d’estate.

I motorini dei cotrari la obbligavano ad alzare la voce: «Rocco,» chiamò «vieni a brindare». Lui annuì. Si sgranchì, uscì da un dipinto e le andò incontro con il sorriso della festa.

«Come sei bello» gli disse, offrendogli un bicchiere di vino. «A noi. A ciò che siamo stati.»

Marcello afferrò il bicchiere e Rocco salutò: «Addio, Irene».

Si chinò su di lei. Pane e salame, sudore fresco ed emozione. Le labbra si avvicinarono, le labbra nelle labbra tremarono. Un bacio era qualche cosa di importante, un’attrazione potente verso la vita. Si infilò dentro un chicco di riso e rotolò via, tra le case dipinte.

«Aspetta!»

«Alla salute, Irene.» Marcello allungò la mano e Irene si sentì sfiorare. Pelle su pelle: milioni di cellule fanno un incontro.

Dalla tavola arrivò il profumo del pranzo, insieme al brontolio di Nuzza che lavorava volentieri ma non voleva dare l’impressione di essere soddisfatta. Aveva preparato la sua ricetta migliore: «Risotto alle ortiche» disse porgendo i piatti.

«Punge?» chiese Irene.

Ciò che punge fa male.

Nuzza si accomodò a tavola e si annodò il tovagliolo al collo: «Per non sentire dolore» rispose «occorre imparare la grazia».

Il suo consiglio fu un augurio.

E cominciarono a mangiare.