Questo libro

Il perché di un’inchiesta

Corruzione, relazioni ambigue, scelte incomprensibili, patti col nemico, strategie autolesionistiche. Le contraddizioni si addensano come tante nubi oscure sulla crisi del centrosinistra. La mancata vittoria della coalizione guidata da Pier Luigi Bersani alle Politiche del febbraio 2013 è figlia di una classe dirigente incapace di rispondere ai bisogni del suo popolo e del paese. Le primarie sembravano aver cancellato, nell’espace d’un matin, gli errori e le pesanti vicende giudiziarie che hanno coinvolto e coinvolgono uomini chiave della gauche nostrana. Ammantata di riferimenti a papi e cardinali, di programmi e candidati riformisti che tranquillizzano la «grande» imprenditoria, la nomenklatura del Pd ha provato a spazzare dalla memoria – in questo del tutto simile a Silvio Berlusconi – un passato che resta parte integrante del presente. Non le macerie del comunismo, messo in soffitta dalla svolta della Bolognina, bensì la mutazione genetica di quelle radici valoriali che appaiono estremamente fragili, labili, degradate.

Il libro si propone di analizzare le profonde ragioni di questa trasformazione, attraverso un’articolata inchiesta su personalismi e scandali della sinistra che ha varcato la stanza dei bottoni. La gestione opaca dei contributi pubblici ai partiti che gli italiani avevano bocciato per via referendaria, le fondazioni politiche che rischiano di diventare camere di compensazione per le lobby, il legame a doppio filo con le banche, le inchieste della magistratura incentrate su figure cruciali dei democratici.

Nonostante questi problemi il Pd pare privilegiare l’interpretazione «berlusconiana» del consenso elettorale, posto a lavacro onnicomprensivo della questione etica: l’esclusione di amministratori antimafia diviene l’altra faccia della medaglia di signori delle tessere e indagati che si arroccano nuovamente in parlamento.

Una situazione, per contenuto e stili di condotta, neppure immaginabile negli anni Settanta: ben diversi erano i tempi di Pio La Torre e di Enrico Berlinguer. I successori, direttamente o indirettamente, hanno favorito l’anomala ascesa del Cavalier Berlusconi, finendo per promuovere l’accettazione di una subcultura che ha facilitato lo sdoganamento dei conflitti d’interesse di ognuna delle parti. Nell’intervista che ci ha concesso nel dicembre del 2012, Achille Occhetto accusa la classe dirigente di aver tradito la causa: da una parte realizzando nel Pd «una fusione a freddo di ex comunisti e democristiani», dall’altra scendendo a compromessi con Berlusconi e imponendo una concezione politica incentrata sulla «funzione del partito autoreferenziale». La sua conclusione è una parafrasi di Niccolò Machiavelli: «Quando i mezzi sono sporchi… sporcano anche i fini».

Proprio per questa ragione è necessario indagare a fondo sulle ragioni della crisi dei democratici in un paese diviso, illuminare i buchi nel tessuto connettivo di una forza che, attraverso una palingenesi di facciata, prosegue nella simbiosi col berlusconismo. I precedenti accordi sottobanco trovano la sublimazione nel governo di larghe intese disegnato dal capo dello Stato Giorgio Napolitano e affidato all’ex democristiano Enrico Letta. Come è giusto non fare sconti al berlusconismo, riteniamo sia importante scavare nei grandi tabù della sinistra, a cominciare dalla questione morale, proprio quando la tentazione dell’oblio induce a stendere un velo sulle miserie e sulle corruzioni. È invece un dovere capire e denunciare perché un paese senza memoria è condannato a ripetere i propri errori.