D’Alema, inciucio Maximo
Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole. E ciò che il potere vuole è completamente arbitrario o dettato da sua necessità di carattere economico, che sfugge alle logiche razionali.
Pier Paolo Pasolini
Contributi al partito
Il primo inciampo di D’Alema avviene nel 1985, quando il futuro segretario del partito riceve un contributo di 20 milioni di lire che nove anni dopo comporterà la sua iscrizione nel registro degli indagati per violazione della legge sul finanziamento ai partiti. Il sostenitore è Francesco Cavallari, re della sanità privata pugliese che arriva a gestire ben 11 cliniche con 4500 dipendenti. Quel regno si dimezzerà dopo alcune indagini che prendono le mosse nel 1994 e obbligano Cavallari a patteggiare 22 mesi di pena per associazione mafiosa, truffa e corruzione. Il 19 aprile, interrogato dal pm Alberto Maritati, Cavallari rivela: «Non nascondo che in una circostanza particolare ho dato un contributo di 20 milioni al Partito comunista. D’Alema è venuto a cena a casa mia e alla fine della cena io spontaneamente mi permisi di dire, poiché eravamo alla campagna elettorale del 1985, che volevo dare un contributo al Pci […]. Quando era in Regione ero solito recarmi da lui e prospettargli le nostre iniziative». L’inchiesta, assegnata ai sostituti procuratori Alberto Maritati, Giuseppe Scelsi, Giuseppe Chieco, Corrado Lembo, si chiude immediatamente per intervenuta prescrizione. Il 25 giugno 1995 il gip accoglie l’archiviazione. La vicenda, portata alla luce da Maurizio Tortorella su «Panorama» il 1° giugno 2000, non viene approfondita dai media sebbene fossero coinvolti big come Pinuccio Tatarella, cofondatore di Alleanza nazionale e vicepresidente del Consiglio nel governo Berlusconi.
Cavallari aggiunge in seguito: «Non ho mai capito perché i pm l’abbiano considerato un semplice finanziamento illecito, dunque prescritto. Io Massimo non lo finanziavo certo per simpatia o vicinanza politica. Io volevo che mi desse una calmata alla Cgil. Che infatti, da allora, smise di darmi noia».126
Il naufragio della Bicamerale
Nel luglio del 1995 D’Alema interviene a Radio Radicale per proporre una Commissione costituente parlamentare, invocando una tregua politica e aprendo alle modifiche della Costituzione. La madre Fabiola Modesti giustifica il tentativo con un paragone che vale più di tante interviste: «Quello che fa Massimo lo ha già fatto Togliatti prima di lui. Dovette persino allearsi con Badoglio».127 L’ipotesi di accordo tramonta per l’avversione di An, che ottiene di tornare al voto. Il professor Romano Prodi, o meglio il rassicurante «parroco di Scandiano», ha la credibilità giusta per condurre il centrosinistra alla prima vittoria politico-elettorale della storia. Prodi diventa presidente del Consiglio grazie alla desistenza con Rifondazione e alla spaccatura nel centrodestra: la Lega, con una campagna aggressiva contro «Roma Polo delle Libertà» e «Roma Ulivo», incassa il 30 per cento di voti al Nord. Nel programma il centrosinistra sottolineava la necessità di risolvere il conflitto d’interessi e il duopolio televisivo. Il leader Massimo va in direzione contraria: due settimane dopo il voto rende visita al presidente delle tv berlusconiane, Fedele Confalonieri, per rassicurare la proprietà. Nel settembre del 1996, dopo una comparsata al Maurizio Costanzo Show in cui D’Alema critica la pubblicazione di interrogatori e verbali in fase d’indagine, Giampaolo Pansa su «l’Espresso» conia il termine «Dalemoni». Il mese successivo il Cavaliere racconta di aver scovato una microspia di anomale proporzioni nella sua stanza di Palazzo Grazioli e accusa le «procure eversive che perseguitano il capo dell’opposizione». Tutto l’arco politico, a eccezione dell’ulivista Elio Veltri e del leghista Bobo Maroni, grida all’allarme democratico. Il «cimicione», secondo quanto accerterà la Procura di Roma, è un apparecchio non funzionante piazzato dal capo della sicurezza di Berlusconi incaricato di bonificare Palazzo Grazioli.
Il 22 gennaio 1997 nasce la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali sotto la presidenza di D’Alema, appoggiato platealmente da Forza Italia. L’invito di Giuliano Ferrara a occuparsi di giustizia per «rimettere in riga i pm» non cade nel vuoto. Il relatore Marco Boato dei Verdi, ex Lotta continua e Psi, compone una bozza che prevede un’azione penale non più obbligatoria ma stabilita annualmente dal ministro della Giustizia, la parificazione di membri laici e togati nel Csm, una sezione disciplinare affidata a una corte con maggioranza politica, la separazione delle carriere di pm e magistrati giudicanti e il filtro delle notizie di reato da parte della polizia che legherebbe le mani alle procure. È innegabile una similitudine con gli obiettivi del Piano di rinascita democratica di Licio Gelli, che mirava a colpire l’autonomia della magistratura.
Nel 1998 il pm del pool Mani pulite Gherardo Colombo, che aveva indagato proprio la P2, definisce la Bicamerale figlia del ricatto: «Una magistratura meno indipendente, o addirittura dipendente, non riuscirebbe più a svolgere il controllo di legalità che le è proprio».128
D’Alema bolla le considerazioni di Colombo come «profondamente sbagliate e tipiche dell’estremismo di sinistra», mentre Luciano Violante ammonisce i magistrati «a non farsi male da soli». La Bicamerale naufraga nel 1998 formalmente per il dietrofront di Berlusconi, che sperava in un cancellierato alla tedesca e soprattutto in un’amnistia.
Secondo il capo del pool Francesco Saverio Borrelli, «l’atteggiamento era: adesso state buoni, ragazzi, avete fatto questo lavoro, datevi una calmata. È il senso di un incontro casuale che ebbi con D’Alema. Mi disse proprio: non muovetevi, non parlate, non fate chiasso […]. L’Associazione nazionale magistrati è bene sia l’unico interlocutore del governo […]. Io con la Bicamerale mi sono spaventato, vedendo alcuni contenuti sui quali vi era convergenza. Insomma, su certe cose si può dialogare, certo, ma su alcuni principi… non si scende a compromessi. Evidentemente a un certo momento D’Alema ha avuto l’illusione di poter reggere le redini della storia, di poter guidare questo paese verso, non so, un altro destino, di poter neutralizzare il fenomeno Forza Italia».129
L’Ulivo continua comunque a seguire i desiderata berlusconiani sulla giustizia, dal limite di 180 giorni imposto ai pentiti per rilasciare dichiarazioni alla riforma dell’abuso d’ufficio che diventa perseguibile solo in caso di danno patrimoniale, sino alla soglia minima consentita per le false fatture. In particolare la riforma dei collaboratori di giustizia, invocata nel 1997 dall’allora ministro degli Interni Giorgio Napolitano, predisposta dal guardasigilli Giovanni Maria Flick e approvata nel 2001, provoca una drastica riduzione dei pentiti.
Molti anni dopo l’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo traccerà un amaro bilancio: «Dopo Tangentopoli il potere politico, tutto, di centrodestra e centrosinistra, a fronte del quadro devastante emerso dalle indagini non si è affatto preoccupato di prendere provvedimenti per contenere la corruzione, ma semplicemente di contrastare e rendere più difficili i processi. Il centrodestra lo ha fatto in modo talmente spudorato da risultare vergognoso […]. Ma il centrosinistra ha dimostrato abilità più sottili, per esempio con la riforma dell’abuso d’ufficio e la precedente introduzione della “modica quantità” nell’annotazione di fatture per operazioni inesistenti: cose passate in silenzio, senza il clamore delle leggi ad personam, ma che hanno reso più difficile contrastare i fenomeni».130
Nell’ottobre del 1998 il governo Prodi viene sfiduciato per la rottura del segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti, insoddisfatto per la mancanza di provvedimenti a favore delle fasce deboli della popolazione. Il popolare Franco Marini, molti anni dopo, riferirà di aver preso parte a una manovra di palazzo, insieme a Massimo D’Alema, per cambiare in corsa il governo. Ciò in virtù del consenso di alcuni parlamentari centristi, guidati da Clemente Mastella e ispirati da Francesco Cossiga, disponibili a votare un premier diverso da Prodi. A Palazzo Chigi sale D’Alema, subito costretto a gestire la tragica situazione nell’ex Iugoslavia. Il presidente emerito Cossiga, riguardo alla decisione di entrare in guerra a fianco della Nato, rivelerà come consuetudine anni dopo: «L’ambasciatore britannico e il consigliere militare statunitense vennero da me, che all’epoca guidavo un modesto partito di transizione […]. Io ascoltai. “La regione dei Balcani sta per esplodere, abbiamo bisogno dell’Italia, la più efficiente portaerei del Mediterraneo […].” Sapevo che erano venuti da me anche perché io, con i voti del mio partitino, potevo sostituire Rifondazione. E decidere. Così, a quel punto decisi pure che Massimo D’Alema sarebbe stato il premier giusto. Perciò salii al Quirinale e, in un colloquio di due ore e mezza, lo spiegai al mio successore, Oscar Luigi Scalfaro […]. La mattina dopo, alle 7, suonano alla porta di casa. Era Marco Minniti che mi spiega le perplessità di Massimo. Ma io lo mando indietro dicendo che non devono esserci perplessità».131
I favori a Berlusconi
D’Alema viene accolto nel salotto buono romano, incarnato simbolicamente dalle ospitate presso la collezionista d’arte Maria Angiolillo. Gli incontri con il potere delle banche assumono le sembianze innanzitutto di Cesare Geronzi di Capitalia. È importante la sua testimonianza a proposito della Bicamerale. «Poteva essere un gran disegno. In favore di quelle riforme, che avrebbero fatto guadagnare dieci anni al paese, ho speso parole con Silvio Berlusconi: “Guarda che D’Alema è una persona seria, il più serio dalla sua parte. Ti devi fidare”. Ma alla fine Silvio ribaltò il tavolo […]. Ho sempre confidato a D’Alema i passaggi più delicati. Berlusconi ha saputo che sarei andato a presiedere Mediobanca perché gliel’hanno detto. D’Alema lo ha saputo perché gliel’ho anticipato io.»
A proposito del rapporto tra il premier Massimo e il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia, Geronzi rivela un incontro dell’autunno del 1999: «Con il garbo dovuto, D’Alema prospetta all’anziano banchiere la questione di chi avrà l’onore e l’onere di raccogliere la sua eredità. Senza esserne richiesto, ma il feeling lo permetteva, D’Alema azzarda un suggerimento: Mario Draghi. […] Il vecchio banchiere lascia parlare il premier e poi, con uno dei suoi tipici sorrisi, lo tranquillizza: Mediobanca ha già affrontato la questione […]. Fuori è in paziente attesa Vincenzo Maranghi. Cuccia fa le presentazioni ed esce: “Vi lascio soli”. Dopo qualche minuto la porta si riapre. Appaiono D’Alema e Maranghi per il congedo. Ma non appena il successore designato riguadagna l’anticamera, con un movimento fulmineo data l’età, Cuccia si infila di nuovo nell’ufficio del premier e chiede a D’Alema: “Che ne pensa?”. D’Alema fu preciso nel raccontarmi la scena, ma non su questo punto. Si limitò a dirmi quanto fosse rimasto colpito dall’affetto del nonagenario Cuccia per Maranghi».132
Intanto, nel cruciale settore radiotelevisivo, il presidente della Commissione permanente del Senato Claudio Petruccioli non calendarizza l’esame della legge che, in ossequio alla sentenza della Corte costituzionale, avrebbe costretto Mediaset a vendere una rete alla vigilia della quotazione in Borsa. Nel luglio del 1999 Europa7 di Francesco Di Stefano vince la gara che assegna le frequenze televisive, ma non può trasmettere perché sono «occupate» abusivamente da Rete 4, priva di concessione. Lo Stato italiano subisce una procedura di infrazione da parte della Comunità europea nel 2006 per questa grave anomalia, peggiorata poi dalla legge Gasparri, che consentirebbe a Berlusconi di controllare persino la quarta rete su sette nazionali.133
La maggioranza di centrosinistra, che conciona sull’autonomia della magistratura in parlamento, respinge le richieste di arresto per Cesare Previti e Marcello Dell’Utri, il primo raggiunto da un ordine di custodia per corruzione in atti giudiziari per aggiustare il processo Imi-Sir, il secondo per calunnia pluriaggravata ad alcuni pentiti. Dell’Utri sarà poi assolto dall’accusa di aver ingaggiato il collaboratore di giustizia Cosimo Cirfeta per screditarne tre che parlavano della sua collusione con la mafia: Francesco Di Carlo, Francesco Onorato e Giuseppe Guglielmini.134
Per la sinistra il vero nemico è la Lega di Bossi, un partito che non supera il 10 per cento su scala nazionale e che, separato dal Polo delle Libertà, non può incidere. Berlusconi, assurto al rango di padre costituente con la Bicamerale, è considerato già finito. Del resto, il centrosinistra non lo aveva mai inquadrato come problema sin dalla sua ascesa imprenditoriale. Nel saldo convincimento di un ampio consenso popolare, il «premier Massimo» personalizza le Amministrative del 2000 sull’azione di governo. La Casa delle libertà e Bossi fanno il pieno al Nord vincendo in 8 regioni su 15. Con un atto di coerenza raro in politica, D’Alema rassegna le dimissioni.
Il capo dello Stato Ciampi affida l’incarico al ministro del Tesoro Amato che gestisce il fine legislatura in un clima surreale. L’ex Ulivo, dopo aver già fatto harakiri con due governi, non riesce a offrire una proposta in grado di avversare il ritorno di Berlusconi: getta in pista come candidato premier per le elezioni del 2001 l’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli, rinunciando ad allearsi con Rifondazione e Di Pietro. Dal canto loro gli ambienti vicini al Cavaliere, avvertendo il profumo di vittoria, si lasciano andare a clamorosi outing. Fedele Confalonieri dichiara: «La verità è che se Berlusconi non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento nel lodo Mondadori».135
Gli appelli contro il ritorno al potere di Berlusconi si moltiplicano. L’economista liberale Paolo Sylos Labini, l’editore Giuseppe Laterza, il direttore di «Micromega» Paolo Flores d’Arcais sono uniti nel chiedere l’applicazione della legge Scelba,136 che sin dal 1957 prevede l’ineleggibilità dei titolari di pubbliche concessioni. Sylos Labini, che nel 1974 fu il primo a sbattere la porta in faccia ad Andreotti dimettendosi dal ministero del Bilancio dopo la nomina a sottosegretario di Salvo Lima, firma un appello con Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Alessandro Pizzorusso: «È necessario battere col voto la cosiddetta Casa delle libertà. Destra e sinistra non c’entrano: è in gioco la democrazia».
Il j’accuse di Moretti: quelle riforme mai fatte e i Girotondi
Il tracollo di Rutelli alle elezioni del 2001 e il ritorno di Berlusconi risvegliano il popolo dell’Ulivo. Il catalizzatore spontaneo è Nanni Moretti, che aveva già denunciato la perdita di identità della sinistra con il film Palombella rossa (1989). In seguito il regista ha raccontato la frustrazione di una generazione di militanti per gli errori della classe dirigente. In Aprile (1998) un Moretti interprete di se stesso incita D’Alema durante il confronto di due anni prima a Porta a porta: «Non ti far mettere in mezzo proprio sulla giustizia da Berlusconi, D’Alema, di’ una cosa di sinistra… Di’ una cosa anche non di sinistra, di civiltà. Di’ qualcosa, reagisci!».
La sera del 2 febbraio 2002, al termine di una manifestazione a piazza Navona, Nanni sale sul palco subito dopo Fassino e Rutelli: «Noi, mi dispiace dirlo, con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai. Continuerò a votare per l’Ulivo e… Fassino, Rutelli, altre persone hanno ricordato l’enorme maggioranza che questo centrodestra tutto italiano, barbaro, ha, ma questa enorme maggioranza, non dico la vittoria, gliel’ha data l’Ulivo facendo l’altr’anno una campagna elettorale timidissima, non cercando l’unità. È il loro mestiere, io non riesco a parlare con Rifondazione comunista, non ci riesco, è più forte di me; ma il loro mestiere è fare politica, è cercare di presentarsi assieme a Di Pietro, assieme a Rifondazione comunista, insieme ad altri partiti. Insomma, facciamo che questa serata non sia stata proprio inutile».
La piazza esplode in un applauso liberatorio, Fassino e Rutelli sono impietriti, D’Alema incrocia senza salutare il regista che, scendendo dal palco, viene apostrofato da un dirigente con l’epiteto di «Tafazzi», ossia l’allegro masochista interpretato dal comico Giacomo Poretti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo. All’arrogante sarcasmo ripetuto più volte, Nanni risponde con un sorriso: «Guarda che abbiamo già perso». Lo scambio di battute sintetizza anni di dibattito successivo, o meglio soliloqui di esperti politologi, appiattiti su tesi certamente poco analitiche che considerano un autogol l’attacco a Berlusconi e ininfluenti le televisioni sul risultato elettorale.
Al cronista de «la Repubblica» che lo segue fino al bar, Moretti ribadisce i concetti espressi sul palco: «Io devo e voglio stare a sentire chi mi fa delle osservazioni sul mio lavoro. Tu scrivi articoli, io faccio film, loro fanno politica di professione. Ma non la sanno fare. Erano imbarazzati e imbarazzanti, inadeguati. Questi dirigenti dell’Ulivo che si fanno dare i calci in bocca credono nel Costanzo Show […]. Diceva il geografo [il professor Francesco “Pancho” Pardi, nda], ma le leggi perché non le hanno fatte quando governavano? È da qui che si deve ripartire, dagli errori. Non come dice Di Pietro: il passato è passato. No, perché sennò rifate lo stesso. Quelle tre leggi, l’antitrust, il conflitto d’interessi, la riforma della giustizia: andavano fatte».
La protesta contro le leggi ad personam e la tenue opposizione di centrosinistra cresce nel paese con il movimento apartitico dei Girotondi. In piazza si ritrovano esperienze diverse, da Nanni Moretti ai professori fiorentini Pancho Pardi e Paul Ginsborg, storico inglese trapiantato nella città di Machiavelli, dalle romane Marina Astrologo e Silvia Bonucci alle milanesi Daria Colombo e Ottavia Piccolo. Per il decennale di Mani pulite 40.000 persone saturano il PalaVobis. La manifestazione, organizzata il 23 febbraio col passaparola via posta elettronica grazie a Paolo Flores d’Arcais, è il primo atto di una stagione di indignazione trasversale e priva di etichette. Tra i «girotondini» non mancano i moderati delusi dalla mancata rivoluzione liberale, antitetica alla quintessenza del berlusconismo.
Il monopolio mediatico che alimenta la disinformatija viene denunciato nelle piazze da intellettuali, scrittori e giornalisti. Le uniche adesioni convinte di politici sono quelle dell’ex pm Antonio Di Pietro e di Nando Dalla Chiesa dei Democratici. Gli appelli a legalità, trasparenza e libertà d’informazione, che parevano un Urlo di Munch strozzato dalla vittoria berlusconiana nel ’94, trovano cittadinanza in questa prima «spina nel fianco»137 per l’intoccabile establishment.
I Girotondi tornano a organizzare una manifestazione col sistema del passaparola e di internet, questa volta a Roma. La «festa di protesta» del 14 settembre 2002 in piazza San Giovanni è un’adunata analoga alle grandi manifestazioni comuniste e sindacali. Davanti a un milione di persone che chiedono scuola pubblica, stop alla guerra in Iraq e lotta alle mafie, Nanni Moretti scandisce: «Noi continueremo a delegare ai partiti, ma visto che un po’ ci siamo svegliati la nostra delega non sarà sempre in bianco. Teniamoci in contatto, non perdiamoci di vista». L’embrione di una nuova o ritrovata bussola di valori si spegne come ogni evento emozionale straordinario, dunque di carattere autentico ma contingente. C’è chi segue Di Pietro e Pancho Pardi nell’Italia dei valori o più tardi appoggia il movimento di Beppe Grillo, chi lascia l’impegno civile per disincanto o senso d’impotenza per il mancato cambiamento.
All’unanimità presidente del Copasir
Dopo la delusione cocente della corsa al Quirinale del 2006, Massimo D’Alema accetta di fare il vice del premier Romano Prodi e il ministro degli Affari esteri. Con Berlusconi nuovamente al potere, nel 2010, l’ex ministro degli Esteri viene incoronato all’unanimità presidente del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo per i servizi segreti. La riforma del sistema di sicurezza nazionale, tre anni prima, aveva sostituito Sisde e Sismi, rispondenti al Viminale e al ministero della Difesa, con le nuove strutture: Agenzia informazioni e sicurezza interna (Aisi) ed estera (Aise). Contemporaneamente il compito di coordinarle e di riferire al governo è passato dal Cesis al Dipartimento informazioni per la sicurezza (Dis).
La riorganizzazione dei servizi è legge il 7 agosto col voto unanime dei partiti, su proposta dello stesso D’Alema. Oltre alla razionalizzazione interna degli organismi di informazione e sicurezza, il cui bilancio è di 650 milioni di euro l’anno, la legge rafforza i poteri di controllo parlamentare e le indagini telematiche. Il premier, su richiesta del presidente del Copasir, dovrà spiegare le motivazioni dell’opposizione del segreto di Stato al Comitato, che potrà bocciarlo con una maggioranza di due terzi dei membri. Il controllo parlamentare si manifesta non solo sulle motivazioni esterne e sulla legittimità in linea di principio ma anche con la possibilità, sia pure da parte di un ristrettissimo collegio, formato da presidente e vice del Copasir, di avere accesso a tutte le informazioni in base alle quali il presidente del Consiglio giunge alla decisione di apporre il segreto di Stato.
A livello operativo, si registra l’aumento delle intercettazioni preventive e una maggiore attenzione alla sfera economica.
Al riguardo D’Alema sottolinea: «In un momento di grave crisi economica come quello che stiamo passando, vi è il forte rischio di infiltrazione di capitali mafiosi, ma anche quello della penetrazione di capitali stranieri che intendono prendere il controllo di settori strategici della nostra economia. Va tutelata l’indipendenza del paese».138
Galassia D’Alema: gli amici pugliesi
D’Alema è arrivato ai vertici del potere ma non ha mai reciso i legami con le sue radici al Sud. Il bisnonno Antonio era un possidente di Miglionico, un paese nei pressi di Matera. Nel 1979 il partito spedisce Massimo in Puglia, per farsi le ossa in terra di frontiera. Negli anni Ottanta, durante le visite a Gallipoli da segretario regionale comunista, D’Alema allaccia rapporti con politici e imprenditori. In una regione tradizionalmente moderata, il leader Massimo viene sempre eletto in parlamento dal 1987. Il punto di riferimento politico è l’avvocato Flavio Fasano, già legale del boss della Sacra corona unita Rosario Padovano, sindaco di Gallipoli dal 1993 al 2000, poi consigliere e assessore provinciale dei Ds.
Nell’estate del 1994 il primo cittadino si adopera per organizzare un tête-à-tête fra Massimo D’Alema e il filosofo Rocco Buttiglione, eletti da pochi giorni segretari nazionali dei rispettivi partiti, Pds e Ppi. Il fatidico incontro avviene il 4 agosto presso Il Bastione, ristorante all’estremità della città vecchia amato sia da D’Alema sia da Buttiglione, gallipolino doc. Il piatto forte è il cosiddetto ribaltone, ossia la caduta del governo Berlusconi, che si realizzerà in autunno grazie all’uscita di scena della Lega nord.
Per il 20 agosto Flavio Fasano organizza un nuovo happening tra i due leader nazionali, stavolta pubblico, presso il centro parrocchiale Buon Pastore. L’annuncio del forfait da parte del filosofo provoca alcuni problemi. Una nota diffusa dall’addetto stampa del professor Buttiglione comunica che la famiglia «ha ricevuto a Gallipoli per tutta la giornata di oggi numerose telefonate di pesanti insulti e addirittura minacce da parte di sconosciuti a causa del presunto “rifiuto” del segretario del Partito popolare a partecipare a un incontro pubblico per il quale non aveva mai dato nessuna conferma. La vicenda, da tormentone dell’estate politica, sta assumendo connotati equivoci e sgradevoli, sicuramente non imputabili all’onorevole Massimo D’Alema, ma che inducono a riflessioni poco confortanti». L’episodio non frenerà le tappe di avvicinamento al ribaltone e l’alleanza nazionale tra sinistra e centro. Tra l’altro D’Alema, Fasano e Buttiglione in un’occasione scelgono per le vacanze a Gallipoli lo stesso complesso residenziale, in piazzetta Falcone e Borsellino, un monumentale palazzo bianco che si affaccia sul mare. In particolare il segretario dei Ds e il sindaco, oltre che compagni di barca, lo sono di pianerottolo.
Sempre a Gallipoli, durante un comizio, il premier D’Alema garantisce il buon andamento delle Regionali del 16 aprile 2000: «Le elezioni le vinceremo noi. Conquisteremo otto regioni, il Polo di Berlusconi tre. Le altre quattro ce le divideremo. Finirà dieci a cinque. E forse undici a quattro». Il Polo delle Libertà vince otto a sette e il presidente del Consiglio rassegna le dimissioni.
Forse in polemica con il partito, da cui si allontana anche fisicamente aprendo un ufficio romano a piazza Fontanella Borghese, alle seguenti Politiche D’Alema propende per una sfida uninominale senza tendere la rete di sicurezza del sistema proporzionale. Si candida nel solito collegio Gallipoli-Casarano contro il big di An Alfredo Mantovano, ex magistrato leccese. Fasano è il primo alleato con le liste civiche collegate Polis e Gallipoli Mediterranea. Alla vigilia delle elezioni Mantovano lancia pesanti sospetti: «Sono in vantaggio, ma c’è gente che corre con Forza Italia e poi vota per D’Alema». Il 13 maggio 2001 il presidente dei Ds ottiene il seggio parlamentare incamerando 38.000 consensi, pari al 51,49 per cento, contro il 45,37 di Mantovano. A fare la differenza è proprio il risultato di Gallipoli: 8256 contro 5087. Si realizza un incredibile voto disgiunto tra le Politiche e le Comunali, che contemporaneamente eleggono sindaco Giuseppe Venneri del Polo delle Libertà, appartenente alla corrente del governatore della Puglia Raffaele Fitto.
È soprattutto Forza Italia a sostenere in loco il leader Massimo. Antonio Abbate, primo dei non eletti al Comune per gli azzurri, dichiara: «Mantovano aveva vinto, io stesso e tutti quelli che mi vogliono bene pensavamo di votarlo. Tuttavia abbiamo ritenuto che far perdere all’Italia la figura politica di D’Alema sarebbe stato come se la Juventus si fosse privata di Zidane. Pur sapendo che io ero e sono del centrodestra, D’Alema si è sempre comportato con me da ottimo amico. Così, io l’ho rispettato nel momento del bisogno. Fino al punto da dimenticare la mia stessa elezione al municipio». Un altro soccorso azzurro è quello di Salvatore Magno, imprenditore nel settore della sanità, dal 1995 al 2000 coordinatore del collegio di Gallipoli per Forza Italia: «Certo, alla Camera ho contribuito all’elezione di D’Alema: gli abbiamo dato duemila voti».139
È lo sdoganamento da sinistra del potere consociativo, che richiama ai fasti del passato della Democrazia cristiana con i suoi ras locali, modello Ciriaco De Mita in Irpinia. Sul parallelo di D’Alema si dispongono leader dell’opposizione e grandi imprenditori, che spesso combaciano. Ad esempio Vincenzo Barba, armatore e petroliere, primo contribuente della provincia di Lecce con la società Nuova AnPa, noto per aver portato la squadra di calcio del Gallipoli dall’Eccellenza alla Serie B. Pur essendo fieramente di centrodestra, Barba ammette: «Alla Camera ho fatto votare per D’Alema: non potevamo non tenere conto né fare a meno del suo spessore politico». Secondo Elio Pendinelli, ex An, «Barba è stato decisivo: ha “portato” non meno di mille voti […]. Come sono state decisive le due liste civiche che facevano capo all’ex sindaco diessino Flavio Fasano, grande amico di D’Alema».140
Nella primavera del 2009 il Ros dei carabinieri di Lecce scopre un piano del boss della Sacra corona unita Rosario Padovano, mandante dell’omicidio del fratello Salvatore il 6 settembre 2008, per uccidere il senatore Vincenzo Barba. E molto altro. Gli inquirenti sobbalzano nell’ascoltare i consigli che Fasano, a tre giorni dal fratricidio, dispensa al boss pur non essendo più il suo legale. Da quell’intercettazione scaturisce un’altra inchiesta a carico di Fasano per presunti appalti truccati.
Le vicende penali non hanno ovviamente nulla a che vedere con D’Alema. Ma stiamo parlando di un ex sindaco che per vent’anni si è occupato di organizzargli regate, vacanze, campagne elettorali, incontri con soggetti di primo piano della politica e della finanza.
Fasano, ossia il fedelissimo scomodo
Flavio Fasano è nato nel 1959 a Taviano, paesino dell’entroterra leccese a metà strada tra Gallipoli e Santa Maria di Leuca, il tacco d’Italia che unisce Ionio e Adriatico. Penalista di professione e comunista per passione, in politica spazia con eclettismo dal ramo forense ai piani urbanistici.
Nella giunta di Gallipoli Fasano getta le basi per una solida carriera. Fresco amministratore all’inizio degli anni Novanta, denunciò il rischio di infiltrazioni che portarono allo scioglimento del Comune per mafia.141 Il condizionamento del consiglio comunale da parte di gruppi della Sacra corona unita, secondo la relazione della Commissione antimafia firmata dal senatore comunista Paolo Cabras, «si manifestava con la persistente assegnazione, nell’arco di un decennio, di appalti per il Comune e per l’Unità sanitaria locale Lecce 13 alle ditte della famiglia Capati, con irregolarità nell’attuazione del piano di edilizia economica e popolare per privilegiare gli interessi dei clan locali, con l’occupazione e la costruzione abusiva del macello comunale da parte di gruppi della criminalità organizzata».142
Nel dicembre del 1993, al termine dei diciotto mesi di commissariamento, Fasano vince le elezioni comunali. Nel frattempo gli piovono addosso accuse di abuso d’ufficio da cui uscirà sempre indenne per proscioglimento nel merito e per intervenuta prescrizione. L’ex sindaco viene riconosciuto colpevole in via definitiva per una sola vicenda, quella del Praia del Sud, un megavillaggio con quasi duecento bungalow, bar, ristorante, posti tenda e supermercato. L’accusa di abuso edilizio riguarda il permesso di costruire nel 1990, e le proroghe successive, nonostante la zona fosse sottoposta a vincolo di «inedificabilità assoluta». Il 28 gennaio 2011 la Cassazione conferma la condanna a 5 mesi con la condizionale per Fasano.
Indagini e processi non ne intralciano le ambizioni. Già consigliere nazionale dell’Anci, Fasano lascia il Comune ionico per tentare di arpionare uno scranno in parlamento, non uno qualsiasi: il seggio con su scritto D’Alema, eletto nel 2004 a Bruxelles, si è infatti liberato. Alla fine, come candidato del centrosinistra per le suppletive, la spunta Lorenzo Ria della Margherita, partito che aveva già ceduto la presidenza della Provincia di Lecce agli alleati Ds nella persona dell’ex senatore Giovanni Pellegrino.
Fasano, nel frattempo sbarcato in consiglio provinciale con il record di voti a Lecce nel 2004, viene nominato consigliere dell’Agenzia nazionale per il turismo e assessore nella giunta Pellegrino con delega all’Edilizia scolastica, Impiantistica sportiva e Strade.
Tutto fila per il verso giusto fino a un casuale posto di blocco, il 9 aprile 2009, all’altro capo dell’Italia. La squadra mobile varesina rinviene una pistola clandestina in una tasca di Carmelo Mendolia, killer di origini gelesi ma residente a Gallarate. Durante l’interrogatorio il pregiudicato confessa di aver ucciso il boss di Gallipoli Salvatore Padovano detto «Nino Bomba», condannato a 26 anni al maxiprocesso del 1989 alla Sacra corona unita e uscito nel 2006 per buona condotta. Per comprendere l’influenza della famiglia Padovano, basti pensare che è riuscita a occupare per 40 anni il teatro comunale Garibaldi, proprio di fronte al municipio di Gallipoli: il superboss Luigi, conosciuto come «Gino l’Americano», ci ha vissuto fino alla morte, i figli Salvatore e Rosario sino agli arresti per mafia. In seguito è rimasta la vedova Palmira Pianoforte.143
Salvatore Padovano viene freddato il 6 settembre 2008 sulla strada per Santa Maria al Bagno. Il suo assassino, Mendolia, chiama in correità due complici e un insospettabile mandante, il fratello della vittima, Rosario Padovano, anche lui uscito dal carcere dopo 18 anni e impegnato nel sociale in Umbria, dove gestisce una coop per disabili. Secondo Mendolia, il boss salentino aveva in progetto di uccidere anche il senatore Pdl Vincenzo Barba perché temeva potesse ostacolare il suo futuro impegno politico. Gli inquirenti non credono alle proprie orecchie quando, intercettando l’utenza di Rosario Padovano 72 ore dopo il delitto, ascoltano la conversazione con Fasano, che era stato tempo addietro suo avvocato. Da quel momento si sviluppa una nuova inchiesta sul malaffare pubblico che porta all’arresto di Fasano il 10 maggio 2010. Si tratta di una presunta turbativa d’asta di due anni prima, riguardante un appalto da tre milioni di euro per la rimozione della cartellonistica pubblicitaria e la gestione degli spazi, ma anche il progetto della Provincia per la realizzazione dell’Istituto nautico di Gallipoli. Come ricorda il gip nell’ordinanza di custodia cautelare, Rosario Padovano «poteva contare su un risalente rapporto personale con l’avvocato Flavio Fasano, cui si rivolgeva abitualmente per chiedere consigli di ogni tipo, come il comportamento da tenere in relazione a notizie apparse sulla stampa, eccetera, al di fuori di un mandato difensivo, dunque sulla scorta di un rapporto di pregressa conoscenza personale».
Il sottosegretario Alfredo Mantovano stigmatizza, oltre alle presenze del sindaco Venneri e dell’onorevole Barba al funerale del boss Salvatore Padovano, un altro episodio: «Quando, pochi giorni dopo l’omicidio di Nino Padovano, convoco a Gallipoli una riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza, al quale vengono invitati il sindaco e il presidente della Provincia, Giovanni Pellegrino si presenta in compagnia di Fasano. Io, un po’ a disagio, interrogo con gli occhi Pellegrino e lui risponde: “È qui per competenza territoriale”. Oggi mi chiedo a che titolo fosse lì Fasano, a sentire le valutazioni e le analisi sull’omicidio e le strategie investigative che si intendeva adottare».144
Nel processo per i presunti appalti truccati la difesa eccepisce sull’utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, considerandole dialoghi tra avvocato e cliente. Un sostegno arriva persino dal procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, che in due lettere del 27 ottobre e del 14 dicembre 2011 attesta come Padovano abbia sostenuto un «colloquio investigativo antimafia» dopo i contatti tra l’avvocato Fasano e la magistratura. Di parere opposto il tribunale che, d’accordo col capo della Dda di Lecce Cataldo Motta, evidenzia come «nell’informativa di reato non vi sia alcun riferimento al fatto che l’avvocato Fasano fosse il legale di Rosario Padovano». Dunque le intercettazioni, per quanto non penalmente rilevanti, sono valide. Nella telefonata del 9 settembre 2008 Fasano parla con Rosario Padovano, che ha portato la madre a vedere la salma del fratello nelle camere mortuarie dell’ospedale di Lecce contro il volere della cognata:
Fasano: «Senti, come è stata accolta ieri tua mamma là? Ti ha detto niente?».
Padovano: «Eh».
Fasano: «Quando sei andato a Lecce».
Padovano: «Avvocato, purtroppo le solite nefandezze».
Fasano: «Davvero?».
Padovano: «Anna [la moglie di Salvatore Padovano, nda] aveva lasciato detto che non doveva vederlo né mio padre né mia madre, però io aumma aumma gliel’ho fatto vedere».
Fasano: «Ma davvero?».
Padovano: «Era un diritto di mia madre vederlo e sono andato in ospedale… cose… ho parlato».
Fasano: «Lo so che sei andato in ospedale, ma dico, non è che la signora ti ha impedito… [incomprensibile] di vederlo».
Padovano: «A mia madre voleva impedirlo, ha lasciato detto a quelli».
Fasano: «E la signora diceva questo a tua madre».
Padovano: «No direttamente, a quelli della camera mortuaria ha detto di non farlo vedere se veniva la madre o il padre… di non farlo vedere che era un desiderio del marito».
Fasano: «Va bene, lasciamo perdere, senti, è inutile dirti… io oggi non vengo a dare le…».
Padovano: «Sì».
Fasano: «Non devo fare niente, voglio dire».
Padovano: «Sì».
Fasano: «Perché diciamo…».
Padovano: «Perché poi magari… sottolineazione stupida da parte mia… da noi graditissima presenza vostra… magari da loro».
Fasano: «Appunto».
Padovano: «Mi innervosirei a vedere sguardi che non meritate insomma».
Fasano: «No, figurati, siccome per me lui non c’è più e se ne è andato, il fatto se lo è cercato».
Padovano: «Eh».
Fasano: «Le persone a cui tengo sei tu e tua madre, tuo padre, e lo sapete da che parte sto».
Padovano: «Sì».
Fasano: «Per il resto non mi interessa».
Nella telefonata del 10 settembre Padovano parla in modo oscuro e allusivo con Fasano della dinamica dell’omicidio:
Padovano: «Da mia sorella, sì. Sono stato questa mattina da mio cognato e dopo vado più tardi con mio cugino Giorgio, anche. Eh… stavo dicendo… oggi no! Leggevo sul giornale… che insinuavano… praticamente… insinuavano ora, sospettano che… il killer avesse agito a volto scoperto no? E che per paura i presenti non… non dicevano… non rivelavano il nome, insomma».
Fasano: «Come fanno a sapere queste cazzate i giornalisti?».
Padovano: «Oh! Appunto! Eh… Il fatto è… che… insomma Giorgio non… non è proprio il tipo, come abbiamo parlato, avrebbe detto su… poi una cosa strana, perché io ho capito come se si sono convin… la dinamica dovrebbe rivedersi… vorrei un consiglio vostro…».
Fasano: [incomprensibile] «Tu puoi venire nel pomeriggio da me a Lecce?».
Fasano respinge ogni accusa, rinuncia alla candidatura alle Regionali e si dimette dal Pd il 19 novembre 2009. Non senza essersi scagliato contro Rosario Padovano: «Mi rendo conto ancora di più di aver fatto bene quando nel 1991, da sindaco di Gallipoli, denunciai il tentativo del clan Padovano di mettere le mani sulla città e su quella denuncia si spezzò sul nascere quella paurosa scalata perché la magistratura fece sciogliere il consiglio comunale. Sono stato vittima, ma come me tantissimi altri, di un’atroce capacità mimetica di Rosario Padovano, capace di apparire, dall’alto dei suoi 18 anni di carcere, realmente ravveduto del suo passato e disposto a inserirsi nella società […]. Rosario Padovano, invece, è rimasto quel criminale che era». 145
Carriere dall’hinterland salentino
Mentre D’Alema è presidente del Consiglio, un salentino ignoto al grande pubblico diventa il numero due della London Court, la merchant bank che secondo Francesco Cossiga «saliva le scale di Palazzo Chigi». Roberto De Santis da Martano di Lecce ama definirsi il «fratello minore di D’Alema», cui è legato da un’amicizia giovanile. Quando Massimo era segretario regionale del Pci lui militava nella Fgci. A differenza di tanti altri, però, dopo l’esperienza come assessore all’Urbanistica a Martano, De Santis nel 1989 lascia la politica. Muove i primi passi come rappresentante di liquori, si immerge nel settore commerciale delle cooperative di costruzioni diventando financo dirigente della Legacoop.
De Santis, per quanto risulti ancora ufficialmente residente a Maglie, gira come una trottola internazionale a caccia d’affari. Risulta cointestatario di Icarus, il Baltic di 15 metri acquistato da D’Alema, assieme all’assicuratore romano Vincenzo Morichini, fundraiser di Italianieuropei. Con quest’ultimo è socio nella Parciv Srl, piccola immobiliare romana liquidata nel 2010 dove si sono seduti alcuni elementi leccesi della stessa galassia: gli avvocati Giorgio Bovi e Federico Massa, legale del vicepresidente della Regione Pd Sandro Frisullo, il geometra Giuseppe Marzo, azionista di minoranza di Italbrokers.
La coppia De Santis-Morichini stringe rapporti anche con il lobbista Luigi Bisignani, intercettato nell’inchiesta sulla loggia P4.146 I pm della Procura di Napoli ascoltano una conversazione con «Bisi» che probabilmente ha per oggetto la nomina di Morichini a presidente di Ina Assicurazioni, poi scemata.
Il trasversalismo del «fratello minore» di D’Alema emerge anche dai rapporti con Massimo De Caro: orvietano di origini baresi, militante di estrema sinistra con due lauree a Siena, De Caro è stato direttore della Biblioteca dei Girolamini a Napoli e consulente di Giancarlo Galan al ministero dell’Agricoltura e ai Beni culturali.
Se con Roberto De Santis si occupa di telefonia, sondando un possibile affare relativo a Telecom Argentina, la controllata di Telecom Italia, il rapporto più solido è con Marcello Dell’Utri: in comune hanno l’interesse per gli scritti antichi e due procedimenti penali. Per il saccheggio di migliaia di libri di pregio alla Girolamini, avvenuto nell’aprile del 2012, De Caro è stato condannato in primo grado a 7 anni di carcere. Dell’Utri, indagato per concorso in peculato, ha ammesso di aver ricevuto tre volumi in regalo ma senza conoscerne la provenienza.
De Caro è anche vicepresidente di Avelar Energia, società svizzera del gruppo Renova appartenente ai magnati russi dell’alluminio e del petrolio Viktor Veksel’berg e Igor Akhmerov.Nel 2012 viene iscritto sul registro assieme al fondatore di Forza Italia nell’inchiesta della Procura di Firenze su una presunta corruzione per l’affidamento ad Avelar del maxi-impianto solare di Gela, un investimento da 100 milioni di euro. Gli inquirenti sospettano che per ottenere il via libera al progetto, il cui consulente è lo stesso De Caro, sia stato richiesto l’intervento del braccio destro di Berlusconi. Nel mirino del Ros dei carabinieri c’è un versamento di 400.000 euro effettuato nel 2009 dall’affarista a Dell’Utri, denaro proveniente da un conto cipriota riconducibile al gruppo Avelar Energia. De Caro spiega che si tratta invece dell’acquisto di un raro incunabolo.
Roberto De Santis è partner anche dell’imprenditore barese Enrico Intini nelle società In Tour Srl e Milano Pace Spa. Entrambi sono accusati dalla Procura di Monza di finanziamento illecito al Pd e al sindaco di Sesto San Giovanni Filippo Penati per sovvenzioni alla sua fondazione Fare Metropoli.
L’impresa dal nome meneghino ma con mission a Sesto è nata nel 2003 allo scopo di costruire e vendere palazzi in via Pace. L’imprenditore dei trasporti Piero Di Caterina, prima a disposizione del partito e poi grande accusatore di Penati, consegna alla Procura di Monza una radiografia dei rapporti di forza parlando della Milano Pace: «Mi hanno fregato un affare enorme. In via Pace c’era un bel terreno in vendita, ero pronto a investire 50 milioni e a far lavorare le cooperative di Sesto. C’era solo un problema di bonifica di un’ex fornace, nulla di drammatico. Invece il Comune mi blocca, cerco di muovere Penati, faccio pressioni. Niente. Mi dicono che lì non può costruire nessuno. Poi, all’improvviso, arriva il Borrelli, un immobiliarista di Sesto mio concorrente. Che si mette in società con una cordata di pugliesi. A quel punto il Comune sblocca tutto. Anzi, l’affare raddoppia, ai prezzi di allora». Come dire: gli amici di Penati sono serie B, i dalemiani serie A. Sesto è il Sud, Gallipoli il Nord. Latorre, il factotum
Il senatore Nicola Latorre, presidente della Commissione difesa, è il più presente al fianco di Massimo D’Alema negli anni del potere romano. Nato a Fasano, paesino in provincia di Brindisi, ma più vicino alla città di Bari, consegue la maturità classica e frequenta l’Azione cattolica come tanti compagni timorati di Dio. Ai pragmatici studi da avvocato penalista, Latorre associa l’attivismo giovanile nella Fgci brindisina dove, alla fine degli anni Settanta, incontra D’Alema, leader della federazione. Da quel momento diventano quasi inseparabili.
Nel 1980 Latorre viene eletto in consiglio comunale, l’anno seguente è assessore ai Lavori pubblici e nel 1983 già candidato alla Camera con 14.700 preferenze. È un riformista col mito dei grandi democristiani Aldo Moro e Mariano Rumor, da cui mutua l’arte del compromesso nel laboratorio pugliese delle alleanze possibili. Dopo un ribaltone della giunta democristiana per la dimissione degli assessori socialisti che si alleano con il Pds, Latorre diventa nel 1992 il primo sindaco di scuola comunista di Fasano. Il tentativo di tornare alla guida del municipio, fallito nel 1995, conduce alla svolta. L’avvocato di Fasano viene chiamato a Roma da un collega avvocato brindisino, il dalemiano di ferro Antonio Bargone, sottosegretario ai Lavori pubblici del primo governo Prodi. Neppure due anni dopo Nicola entra a Palazzo Chigi dalla porta principale: D’Alema lo sceglie come capo della segreteria del presidente del Consiglio. Latorre conferma le sue capacità mediatorie nel ruolo di responsabile per le Politiche istituzionali dei Ds: gestisce i rapporti con gli alleati più scomodi come l’Italia dei valori; rintuzza le critiche rivolte al suo leader, fonda con lui e Giuliano Amato l’associazione Futura.
Nell’aprile del 2005, alla vigilia della tentata scalata alla Bnl dell’amico Gianni Consorte di Unipol, Latorre viene eletto al Senato al posto di Giuseppe Degennaro del Pdl, scomparso in gennaio. Secondo la guardia di finanza di Bari, quella campagna elettorale per il seggio di Bari-Bitonto sarebbe stata pagata anche da Michele Labellarte.147
Latorre nega tutto: «Non ricordo di aver mai conosciuto Labellarte. Non riesco a ricordare se il suo nome l’ho appreso dalle indagini, oppure prima, considerato che era cliente di un mio carissimo amico, l’avvocato Gianni Di Cagno. Non escludo di avergli stretto la mano in qualche incontro elettorale ma Labellarte, vi assicuro, non ha mai finanziato la mia campagna politica».148
Il senatore barese si appunta varie medaglie: prima membro delle Commissioni tesoro e finanze, affari costituzionali e difesa, poi vicepresidente del gruppo dell’Ulivo e componente della Commissione di vigilanza sulla Rai. La voce di Latorre viene udita dalla Procura di Milano anche per telefonate con Marco Mancini, agente del Sismi intercettato nelle inchieste su due scandali: il rapimento di Abu Omar, imam egiziano sequestrato a Milano nel 2003 da un commando della Cia, e i dossier illegali realizzati in collaborazione con l’ex capo della security di Telecom Giuliano Tavaroli. Anche qui nessuna parvenza di illecito: complimenti e auguri. Mancini, interrogato, afferma di aver ricevuto nel 2003 un fascicolo della security su conti esteri legati ai Ds e, su suggerimento del suo capo Niccolò Pollari, di averli mostrati a Latorre. Il senatore Pd smentisce categoricamente. Dei conti esteri non si troverà mai traccia.
Nicola, esattamente come l’amico Massimo, non teme di esplicitare i buoni rapporti con il fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Nel 2007 il senatore Pdl invita Latorre alle lezioni di etica e politica del suo omonimo circolo di Milano: «Ho stilato io la lista dei possibili relatori, certo. E Nicola Latorre, non lo nascondo, è tra quelli che stimo di più […]. Va aggiunto anche il fatto che Latorre è persona perbene, illuminata e pacata. Insomma, uno che ragiona. Non è un fanatico, e i fanatici io non li amo mai, sia se sono a destra, sia se sono a sinistra. Stimo Nicola umanamente e politicamente, ed è stato coraggioso ad aver accettato l’invito». Il senatore Ds conferma immantinente: «Con il senatore Dell’Utri esiste un rapporto di grande cordialità e di stima reciproca. La mia impressione su di lui è estremamente positiva: penso sia una persona pacata, sensibile e di spessore».149 Solo tre anni dopo, con la conferma in Appello della condanna di Dell’Utri quale tramite tra Cosa nostra e Berlusconi, Latorre si spinge a chiederne le dimissioni.
Un quadretto del braccio destro di D’Alema è rubato dalle telecamere di La7 nel programma Omnibus del 19 novembre 2008. Mentre il deputato dell’Italia dei valori Massimo Donadi attacca Italo Bocchino del Pdl per la mancata elezione di Leoluca Orlando nella Commissione di vigilanza, Latorre scrive sul bordo di un giornale un suggerimento al deputato di centrodestra: ricordare il veto posto dall’Idv alla nomina dell’azzurro Gaetano Pecorella alla Corte costituzionale. Bocchino raccoglie al volo: «Se voi ci avete detto no a Pecorella perché noi non possiamo fare altrettanto con Orlando?». A quel punto Latorre strappa il bigliettino, ma i giornalisti di La7 lo raccattano. Il conduttore Antonello Piroso ne svela il contenuto: «Io non lo posso dire. E la Corte costituzionale? E Pecorella?».
Le scosse e il valzer degli ex pm
Quella del 2009 è un’estate calda in Puglia. Il protagonista mediatico è il titolare della Techno Hospital Gianpaolo Tarantini, commerciante di protesi sanitarie aduso a cercare appalti e favori con mezzi leciti e illeciti. Gianpi diviene noto al grande pubblico il 17 giugno dopo l’intervista di Fiorenza Sarzanini sul «Corriere della Sera» in cui Patrizia D’Addario svela le notti di sesso col premier Berlusconi. Il pm della Procura di Bari Giuseppe Scelsi sta da tempo intercettando Tarantini, indagato per aver pagato e portato escort all’«utilizzatore finale», a sua volta ascoltato indirettamente mentre parla con Gianpi. Da quel momento sui quotidiani campeggeranno per mesi vizi, bugie e ipotesi di reato connessi ai festini presidenziali, oltre alla storia personale di D’Addario, già candidata in Puglia in una lista di centrodestra, e quella di Tarantini.
Sono i retroscena della lunga estate nel tacco d’Italia a scatenare le ipotesi più svariate. D’Alema rilascia queste dichiarazioni il 9 giugno, otto giorni prima dello scoop giornalistico: «La vicenda italiana potrà conoscere delle scosse, non c’è dubbio. Berlusconi è animato dal mito dell’eterna giovinezza, un mito pericoloso […]. Per scosse si intendono momenti di conflitto, di difficoltà, anche imprevedibili, che richiedono un’opposizione in grado di assumersi le proprie responsabilità».150
L’ex governatore di centrodestra Raffaele Fitto sbotta: «Come mai queste doti di preveggenza si manifestano proprio in Puglia? […] Avrà forse ricominciato a frequentare quegli ambienti baresi in cui, a partire dai primi anni Novanta, D’Alema ha improvvisamente (ma provvidenzialmente anche per lui) garantito più di una carriera politica a chi faceva tutt’altro mestiere?».151 I media berlusconiani parlano persino di un complotto. Nei mesi seguenti se ne torna a discutere in sede di Csm, quando il procuratore capo Antonio Laudati deve rispondere alle accuse del pm Scelsi di aver cercato di rallentare le indagini sul caso escort a Palazzo Grazioli. Nella sua audizione del settembre del 2011 Scelsi accenna anche ai contatti con Maritati: «Feci presente al collega Laudati che io personalmente avevo avuto richieste di informazioni da parte dell’onorevole Alberto Maritati, vicino all’ambiente dell’onorevole D’Alema, e che avevo categoricamente rifiutato di dare notizie, come tra l’altro risultava da alcune conversazioni intercettate sull’utenza di Roberto De Santis, persona assai vicina a D’Alema e suo compagno di barca. Dalle conversazioni intercettate, infatti, risultava sia l’incarico dato da De Santis a Maritati di raccogliere informazioni sulla vicenda per la quale erano state disposte le perquisizioni, sia la risposta dell’onorevole Maritati che aveva riferito a De Santis della impossibilità di avere alcuna informazione stante la mia categorica chiusura».
Chi è Maritati? Come abbiamo visto, è il sostituto procuratore che assieme a Scelsi si occupa del procedimento sul finanziamento dell’imprenditore Cavallari a D’Alema, prosciolto nel 1995 per intervenuta prescrizione. Dopo una carriera togata come giudice del tribunale, pretore, pm e infine viceprocuratore nazionale antimafia, Maritati si butta in politica. Viene eletto senatore il 27 giugno 1999 con i Ds nelle votazioni suppletive a Lecce, in sostituzione del senatore Alberto Lisi di An, deceduto. Il 4 agosto è nominato sottosegretario agli Interni del primo governo D’Alema, come vice del ministro Rosa Russo Iervolino. Alcuni osservatori ritengono che sia proprio l’ex magistrato a gestire di fatto il Viminale. Tuttavia il governo seguente, presieduto da Giuliano Amato, non conferma Maritati, che si candida invano a sindaco di Lecce contro l’ex An Adriana Poli Bortone. La sinistra evidentemente non ha alcuna intenzione di perderlo, dato che lo candida in parlamento per tre volte con esito positivo, nel 2001, 2006 e 2008. Maritati fa il giro delle commissioni strategiche: giustizia, elezioni e immunità parlamentari, diritti umani e immigrazione, prima che l’ultimo governo Prodi lo nomini sottosegretario alla Giustizia.
Nella memoria difensiva davanti al Csm il procuratore di Bari Laudati, dopo aver rigettato le accuse del pm Scelsi, riferisce: «Il 28 maggio 2009 veniva intercettata, attraverso l’utenza in uso a Roberto De Santis, una conversazione tra il medesimo e il senatore Alberto Maritati nel corso della quale quest’ultimo, rappresentando di trovarsi a Bari, gli chiedeva di sapere il nome della persona in ordine alla quale, su richiesta del De Santis, avrebbe dovuto raccogliere notizie. De Santis, mostrandosi imbarazzato dal dover fornire telefonicamente l’informazione, ma non potendo interloquire in altro modo con Maritati, trovandosi a Roma, citava Tarantini. Nel pomeriggio Maritati contattava nuovamente De Santis riferendogli di avere avuto un incontro con un suo amico magistrato, persona questa individuabile nel dottor Scelsi».152
Il senatore Maritati reagisce con forza: «Io non ho mai chiesto notizie a nessuno, figurarsi a Scelsi, che conosco da una vita e so che non spiaccica una parola. Anche perché in quei giorni io non sapevo assolutamente che esistesse un’indagine e non sapevo neppure chi fosse Tarantini […]. Non capisco Scelsi. O fraintese qualcosa nel mio discorso e sbagliò allora a pensar male di un amico. Oppure oggi mente spudoratamente […]. Con De Santis parlai una decina di giorni prima che scoppiasse il caso D’Addario sui giornali. Ricordo che mi accennò a qualche sua preoccupazione, ma non ricordo se mi parlò di Tarantini, io non ne sapevo davvero nulla, perciò potrei aver detto a De Santis quello che dico a tutti quando vengono da me a chiedere consigli: se tu non hai fatto niente, puoi stare tranquillo […]. Però adesso basta con D’Alema! Ogni volta si ritira fuori sempre la stessa storia del ’95, quando io ero pm a Bari e insieme ad altri tre magistrati, compreso Scelsi, indagai su un imprenditore, Cavallari, che aveva dichiarato di aver dato soldi a Tatarella e D’Alema. Ma io non prosciolsi proprio nessuno. Chiedemmo piuttosto l’archiviazione perché il presunto reato, mai verificato, si era comunque estinto, nel frattempo. Io ero viceprocuratore nazionale antimafia quando nel ’99 il partito mi offrì di entrare in politica. E subito dopo essere stato eletto, mi dimisi dalla magistratura. Entrai nel governo D’Alema come sottosegretario all’Interno per la mia personalità, non per avergli fatto un favore quattro anni prima… Ma quale favore? Quante vigliaccate, quante fandonie».153
Alberto Maritati non è l’unico magistrato pugliese a entrare in politica. Il sostituto procuratore della Dda di Bari Gianrico Carofiglio, già scrittore di successo, viene eletto deputato Pd nel 2008, il collega Michele Emiliano diventa sindaco di Bari quattro anni prima. Entrambi restano in aspettativa come quasi tutti i colleghi. Va sottolineato che il potenziale conflitto d’interessi è numericamente maggiore per i giudici amministrativi, che sono impegnati come capi uffici legislativi e di gabinetto, o consulenti nei ministeri, e poi tornano a giudicare gli atti dello stesso governo.
Ma torniamo nel laboratorio pugliese. Il pm Emiliano è il titolare dell’inchiesta sulla missione Arcobaleno, voluta nel 1999 in Albania dal governo D’Alema per sostenere i kosovari in fuga dalla guerra. Le indagini si concentrano sulla Protezione civile, che avrebbe favorito l’albergatore albanese Isufi Ramhi nel furto di centinaia di quintali di pasta e alimenti vari destinati ai profughi. Quando Emiliano si candida alle Comunali, l’imponente mole di risultanze investigative passa al pm Marco Dinapoli. Il collegio del tribunale cambia composizione quattro volte rinviando la prima udienza prevista il 5 febbraio 2009 per sette volte in due anni.
Il processo, che avrebbe visto sfilare 100 testimoni con la presidenza del Consiglio parte civile, si chiude il 17 maggio 2012 col proscioglimento degli 11 imputati per prescrizione dei reati di associazione per delinquere, peculato e abuso d’ufficio. Tra loro anche l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Barberi, all’epoca capo dipartimento della Protezione civile.
A marzo Emiliano viene travolto dalle polemiche dopo l’arresto di tre dirigenti pubblici per truffa su appalti relativi a parcheggi interrati finiti all’impresa Dec dei fratelli Daniele e Gerardo Degennaro, quest’ultimo consigliere regionale Pd. Il sindaco di Bari sottolinea di non aver mai favorito la Dec, perdente in altre gare pubbliche, ma l’imbarazzo è forte per un omaggio culinario: 50 cozze pelose, 2 chili di seppioline di Molfetta e ostriche imperiali inviate per Natale da Vito Degennaro, fratello degli indagati e padre di Annabella, la ventiseienne democratica assessore comunale all’Innovazione. Il pm titolare dell’inchiesta, affiancata dal procuratore aggiunto Renato Nitti, è Francesca Pirrelli, moglie di Carofiglio e amica di Patrizia Vendola, ragion per cui in passato si astenne in un procedimento per diffamazione concernente il governatore della Puglia. Il valzer degli ex pubblici ministeri pugliesi scesi in politica si chiude momentaneamente con il dottor Lorenzo Nicastro, già titolare del filone sugli accreditamenti alle cliniche private. Nel 2010 Nicastro sveste la toga per assumere l’incarico di assessore all’Ecologia della giunta di Nichi Vendola.
Il «pericolo» magistratura e il «compagno» Di Pietro
Nel settembre del 2009 D’Alema è protagonista di una metamorfosi in parte analoga a quella subita due lustri addietro da Veltroni. A Enrico Lucci del programma satirico di Italia 1 Le Iene che gli chiede se si definisce comunista, risponde: «Sono un democratico e sono anche un socialista». Alla domanda se si sarebbe mai alleato con Craxi, sottolinea: «Molto, ma molto prima di Tangentopoli… Ma non dipendeva da me, ero piccolo».
Tre anni dopo D’Alema aggiunge: «Non è mai esistito un complotto del Partito comunista insieme ai magistrati […]. Certamente Berlinguer identificò in Craxi il suo avversario principale, a mio parere sbagliando».154 La dichiarazione potrebbe sembrare l’ultima fase di un processo di riabilitazione postuma del leader socialista, morto latitante in Tunisia il 19 gennaio 2000. Il D’Alema premier ha offerto invano i funerali di Stato alla famiglia, Veltroni ha sottolineato l’innovazione di Craxi rispetto a Berlinguer, Fassino lo ha inserito nel Pantheon del nascituro Pd confidando, su «Il Foglio», che ai Ds era mancato il coraggio per applaudire il discorso di Bettino alla Camera. Superfluo ricordare la contraddizione con il periodo delle inchieste del pool Mani pulite. D’Alema, allora capogruppo del Pds alla Camera, replicava in questi termini al segretario del Psi: «L’odio verso di noi è stata l’unica, autentica passione politica che Craxi ha nutrito […]. Dimentica che il Psi e il suo segretario con le sue pratiche tangentizie hanno condizionato tutta la vita economica e sociale del paese, facendo danni gravissimi. Craxi ha anche il torto di aver fatto una chiamata di correità della vecchia classe dirigente contro il risanamento del paese».155
I rapporti non sono mai stati negativi, come dimostra un incontro segreto avvenuto nel marzo del 1990, in occasione di un’assemblea del Psi a Rimini, dedicata alle riforme istituzionali: «Al termine D’Alema e Veltroni non hanno voluto fornire particolari sui contenuti della conversazione che si è svolta nel camper, adibito a studio per Craxi, posteggiato alle spalle della presidenza della conferenza». 156
Al di là delle mai chiarite affinità politiche, D’Alema condivide con Craxi l’astio verso i magistrati di Mani pulite, definiti nel 1993 «il soviet di Milano». La frase all’epoca passa inosservata tra gli attestati di stima per il pm Antonio Di Pietro, soprattutto quando, nel maggio del 1996, lascerà la toga per entrare ufficialmente in politica con la nomina a ministro dei Lavori pubblici del governo Prodi. Si dimette il 14 novembre in seguito a un avviso di garanzia ricevuto dalla Procura di Brescia per un caso che si chiuderà con una sentenza di proscioglimento.
Il ritorno in politica di Di Pietro viene caldeggiato per mesi da D’Alema sino all’offerta della candidatura nel seggio del Mugello (Firenze), in sostituzione del senatore Pino Arlacchi che nell’estate del 1997 ha ricevuto l’incarico di vicesegretario generale dell’Onu. L’incontro tra Tonino e il segretario del Pds, organizzato dagli avvocati pugliesi Antonio Bargone e Giovanni Pellegrino, si svolge nell’appartamento di Nicola Latorre nel «Cremlino del Testaccio», dove risiede anche Giuliano Ferrara, che si candida per il Polo della Libertà contro Di Pietro. Dunque al Mugello va in scena una sfida suggestiva dal risultato scontato e ininfluente sugli equilibri parlamentari, che però è utile a fare chiarezza: da un lato Di Pietro, voluto dai dalemiani, e dall’altro l’avversario della magistratura per antonomasia, il ghost writer di Berlusconi Giuliano Ferrara.
D’Alema palesa subito la tattica nei confronti del simbolo di Mani pulite che vola nei sondaggi di popolarità soprattutto a sinistra: concedergli dall’alto la patente di legittimità. «Di Pietro viene da una famiglia di contadini meridionali, un mondo profondamente anticomunista; i suoi parenti avranno votato sempre per la Dc [l’ex magistrato, al fianco, annuisce]. Un mondo separato dal nostro popolo da un muro. Per questo l’incontro fra questi due mondi sarà positivo.»157
Il 24 ottobre l’agenzia Ansa riporta alcune anticipazioni del libro di Bruno Vespa, La sfida, al quale D’Alema affida altre chiavi di lettura: «La candidatura di Di Pietro è stata un segnale all’opinione pubblica che Berlusconi non aveva avuto il via libera dall’accordo sulla Bicamerale per attaccare la magistratura […]. Nel momento in cui sostengo un’attenzione maggiore alle garanzie individuali voglio dimostrare che questa svolta garantista non è la resa dei conti contro il pool di Milano e contro Mani pulite».
Scorrendo le dichiarazioni di D’Alema alle agenzie di stampa si ricava uno spaccato significativo delle tappe di avvicinamento a Di Pietro nel periodo che va dall’istituzione della Bicamerale alla candidatura del Mugello. L’8 dicembre 1996, intervistato da Maurizio Costanzo, afferma: «Quest’uomo, fino a prova contraria, ha servito il paese e ha dato un colpo, e che colpo, alla corruzione. Spero che ne esca presto». Il 9 maggio 1997 a Roma, al congresso della Federcasalinghe, invita Di Pietro a «cambiare insieme l’Italia». Il 10 giugno, di nuovo nel salotto televisivo di Costanzo: «Non condivido affatto le posizioni di chi dice “Attenti sennò arriva Di Pietro”, perché questo è indice di pochezza…».
Le rivelazioni di Flores D’Arcais
Eppure in privato l’opinione sull’amico Tonino è ben diversa. Nell’ottobre del 2000 Paolo Flores D’Arcais rivela al «Corriere della Sera» i dettagli di una cena risalente al luglio 2006: «Quella sera mi resi conto di quanto Massimo D’Alema detestasse Antonio Di Pietro e l’intero pool milanese. Mi disse che tutto Mani pulite, e sottolineò tutto, era stato fin dall’inizio un complotto contro il Pds. E alle mie ripetute obiezioni, continuava a ripetere: “Io lo so che ce l’hanno con noi, lo so, lo so…”. Aveva un tono di assoluta e violenta certezza. A un certo punto D’Alema affermò testualmente, riferendosi a Borrelli, D’Ambrosio e Colombo: “Si sono fatti subornare, strumentalizzare, da quei reazionari di Davigo e Di Pietro”».
Flores D’Arcais rende pubblico il dialogo con il leader del Pds perché la rivista che dirige, «Micromega», ha appena ospitato una rivelazione choc di Antonio Di Pietro, il 9 ottobre 2000. L’ex magistrato, che in quel momento è senatore dell’Ulivo, riferisce di aver saputo di un presunto coinvolgimento di D’Alema nella decisione di pubblicare il dossier contro di lui nel luglio del 1993 su «Il Sabato», settimanale vicino a Comunione e liberazione. Il servizio conteneva l’elenco di «amici di Tonino» coinvolti nell’inchiesta del pool usciti presto dal carcere. D’Alema risponde dal salotto di Porta a porta parlando di «una cosa palesemente assurda, il segnale possibile dell’inizio di una campagna elettorale velenosa. A questo punto auspico che mi chieda scusa: è il comportamento minimo di una persona civile, dato che mi ha rivolto accuse ingiuste».
Dopo lo scontro nessuno tornerà più sull’argomento del dossier, né fornirà riscontri il cui onere spetta all’accusa. Politicamente resterà una distanza incolmabile. Se è vero che l’Italia dei valori diventa fedele alleato nelle regioni rosse entrando nelle giunte Ds-Pd in Emilia, Toscana, Liguria, Marche, Umbria, Basilicata e Puglia, a livello nazionale il tira e molla continua. L’ex pm corre da solo nel 2001, torna all’ovile come ministro alle Infrastrutture del nuovo governo Prodi cinque anni dopo, affianca Veltroni nella sconfitta del 2008 e infine viene scaricato. La foto che immortala il patto tra Bersani, Vendola e Di Pietro alla festa dell’Idv, nel settembre del 2011 a Vasto di Chieti, viene riposta nel cassetto nel giro di pochi mesi. Sulla carta, a far saltare tutto sono le critiche dell’Idv al governo Monti e al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per il conflitto con la Procura di Palermo sulle telefonate con Mancino. L’intervento del puntuale Latorre nel programma di Rai3 Agorà del 27 giugno 2012 per affermare che il leader Idv «con le sue scelte si sta allontanando dalla possibilità di partecipare a una alternativa di governo» è il preludio alla rapida «sentenza»: il nuovo diniego della patente di alleato a Di Pietro.
D’Alema, nel corso di una lunga intervista al «Corriere della Sera» per spiegare la compatibilità futura di Monti con il centrosinistra allargato a Casini, afferma: «Vendola ha ragione quando chiede di discutere i contenuti, ma ha torto quando regala le chiavi del suo partito a Di Pietro. Quali valori di sinistra [Nichi, nda] vedi in lui?».158 Il segretario di Sel esegue e il centrosinistra accoglie un partito neonato, il Centro democratico di Bruno Tabacci e dell’ex capogruppo Idv Massimo Donadi. Di Pietro è in crisi di consensi nel paese per una serie di errori che vengono esagerati e talvolta manipolati dal circuito mediatico. Gli elettori però non gli perdonano le manciate di candidati che, una volta eletti, sono stati indagati o sono saltati sul carro parlamentare di Berlusconi.
Le accuse personali sull’uso privato dei fondi elettorali non trovano riscontro in tribunale, ma Tonino balbetta alle domande di Report sul numero di proprietà immobiliari, alcune affittate all’Idv, e su una donazione di 954 milioni di lire ricevuta nel 1995 dall’imprenditrice delle macchine da cucire Maria Virginia Borletti, usata anche per acquistare un appartamento.159 C’è poi la gestione familiare del partito: Di Pietro, la moglie Susanna Mazzoleni e la tesoriera Silvana Mura sono soci dell’associazione Italia dei valori che gestisce i rimborsi elettorali. Il cognato Gabriele Cimadoro, entrato in politica nel 1994, prova il Ccd, l’Udr, i Democratici di Rutelli, l’Udc e, dulcis in fundo, l’Idv. Il figlio Cristiano Di Pietro è consigliere comunale nella natìa Montenero di Bisaccia, prima di entrare nel consiglio regionale del Molise. Non bastasse, alla fine del 2012 i capigruppo regionali di Lazio ed Emilia-Romagna Vincenzo Maruccio e Paolo Nanni vengono accusati di uso illecito dei contributi per i gruppi consiliari.
È molto interessante valutare il comportamento del Pd e dell’arcinemico D’Alema nel momento in cui i media e le forze politiche mettono sulla graticola Di Pietro. Salvo una battuta di Bersani sul ticket con Grillo che non sarebbe «utile al paese», nessuno accusa più l’ex pm. L’inspiegabile atto cavalleresco sembra derivare da un timore atavico, come se vi fosse la speranza di liberarsi dell’ingombrante figura senza doverla sfidare, subendone un contrattacco.
Il dato inconfutabile è che a vent’anni da Mani pulite il magistrato protagonista di quella stagione è alle corde, mentre il leader Massimo continua a essere il dominus del centrosinistra. Nei confronti dell’ordine giudiziario il dirigente democratico mostra un atteggiamento togliattiano, da Giano bifronte: generalmente rispettoso delle indagini, talvolta autore di attacchi intrisi di violenza verbale.
Ab origine, secondo il direttore di «Micromega» Flores d’Arcais, l’avversione alla magistratura si manifestava nei confronti di Mani pulite. Il 23 dicembre 2010 il quotidiano spagnolo «El Pais» pubblica grazie a WikiLeaks un dispaccio segreto del 2008 in cui l’ambasciatore americano a Roma Ronald Spogli riferiva a Washington: «Sebbene la magistratura italiana sia tradizionalmente considerata orientata a sinistra, l’ex premier ed ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha detto lo scorso anno che la magistratura è la più grande minaccia allo Stato italiano». D’Alema risponde che l’ambasciatore l’ha «frainteso». Come usa giustificarsi il «rivale» Silvio Berlusconi.
126 Marco Travaglio e Peter Gomez, Onorevoli wanted, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 388.
127 Giorgio Battistini, Politici contro. In campo le mamme, «Il Messaggero», 11 luglio 1995.
128 Giuseppe D’Avanzo, Le riforme ispirate dalla società del ricatto, «Corriere della Sera», 22 febbraio 1998.
129 Antonio Tabucchi, I magistrati dalla penna rossa, «Micromega» n. 1, 2002.
130 Paolo Foschini, Mani pulite non è servita. Centrodestra e centrosinistra uniti nell’ostacolare i processi, «Corriere della Sera», 5 febbraio 2012.
131 Fabrizio Roncone, «Portai D’Alema a Palazzo Chigi per fare la guerra», «Corriere della Sera», 23 febbraio 2008.
132 Massimo Mucchetti intervista Cesare Geronzi, Confiteor. Potere, banche e affari. La storia mai raccontata, Feltrinelli, Milano 2012, pp. 136-37.
133 La legge 112 del 3 maggio 2004 del ministro delle Telecomunicazioni Maurizio Gasparri stabilisce il passaggio dall’analogico al digitale terrestre e, in materia di antitrust, che un soggetto non possa superare il 20 per cento dei ricavi del sistema integrato delle comunicazioni, che comprende non solo televisione, radio, editoria, stampa quotidiana e periodica, ma anche internet, cinema e pubblicità.
134 La Cassazione, rigettando il ricorso del procuratore generale di Palermo Antonino Gatto, conferma la sentenza di assoluzione per Marcello Dell’Utri in data 16 maggio 2012.
135 Curzio Maltese, Sinistra, giudici, Rai, ora basta con le guerre, «la Repubblica», 25 giugno 2000.
136 L’articolo 10 della legge 361 del 1957 considera ineleggibili «coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese private risultino vincolati con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica, che importino l’obbligo di adempimenti specifici, l’osservanza di norme generali o particolari protettive del pubblico interesse, alle quali la concessione o l’autorizzazione è sottoposta; i rappresentanti, amministratori e dirigenti di società e imprese volte al profitto di privati e sussidiate dallo Stato con sovvenzioni continuative o con garanzia di assegnazioni o di interessi, quando questi sussidi non siano concessi in forza di una legge generale dello Stato; i consulenti legali e amministrativi che prestino in modo permanente l’opera loro alle persone, società e imprese vincolate allo Stato nei modi di cui sopra».
137 Francesco Pardi, La spina nel fianco. I movimenti e l’anomalia italiana, Garzanti, Milano 2004.
138 Ferruccio Pinotti, «Sette», 5 ottobre 2012.
139 Lello Parise, Gallipoli torna laboratorio. Ecco chi ha scelto D’Alema, «la Repubblica», 6 giugno 2001.
140 Ibidem.
141 Lo scioglimento per mafia di Gallipoli è effetto del decreto del 9 luglio 1991 del ministro degli Interni Vincenzo Scotti.
142 Commissione parlamentare antimafia, Resoconto stenografico, 3 marzo 1993.
143 Antonio Nicola Pezzuto, Gallipoli, la città bella dove il silenzio è bipartisan, «Antimafia 2000», 16 febbraio 2013.
144 Francesca Mandese, Mantovano: «Fasano al vertice di polizia dopo il delitto Padovano. A che titolo?», «Corriere del Mezzogiorno», 17 novembre 2009 .
145 Dal sito www.lecceprima.it, 13 novembre 2009.
146 Nell’inchiesta P4 della Procura di Napoli Luigi Bisignani patteggia 1 anno e 7 mesi, sentenza resa esecutiva dalla Cassazione che respinge il ricorso dell’imputato il 28 novembre 2012.
147 Informativa del nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza allegata all’avviso di chiusura delle indagini «Domino 2» notificato a diciassette indagati il 14 maggio 2012.
148 Antonio Massari, «Il cassiere del clan aiutò Latorre», «il Fatto Quotidiano», 28 giugno 2012.
14924 Angela Frenda, Dell’Utri invita Latorre come docente: «Stimo Nicola». Il ds: «È reciproco», «Corriere della Sera», 9 marzo 2007.
150 Intervista di Lucia Annunziata, In mezz’ora, Rai3, 14 giugno 2009.
151 Agenzia Ansa, 15 giugno 2009.
152 Memoria difensiva del procuratore di Bari Antonio Laudati al Csm, 22 settembre 2011.
153 Fabrizio Caccia, L’ex pm, De Santis e il sospetto della soffiata, «Corriere della Sera», 1° ottobre 2011.
154 Presentazione romana del libro di Fabrizio Cicchitto (La linea rossa, Mondadori, Milano 2012) il 25 luglio 2012.
155 Camera dei deputati, Resoconto stenografico, 4 agosto 1993.
156 Agenzia Ansa, 23 marzo 1990.
157 Firenze, comizio alla Festa dell’Unità, 3 settembre 1997.
158 Intervista di Dario Di Vico, «Corriere della Sera», 1° luglio 2012.
159 Intervista di Sabrina Giannini, Gli insaziabili, Report, Rai3, 28 ottobre 2012.