Le donne del Pd
La cosa più rivoluzionaria è dire la verità.
Rosa Luxemburg
Il miraggio della parità
Il Partito democratico, sin dal battesimo del primo segretario Veltroni, si è riempito la bocca di parole come pari opportunità e meritocrazia. Al proprio interno sono stati effettivamente apportati alcuni meccanismi per garantire un’adeguata presenza «rosa». Nel 2008 le candidate superavano il 40 per cento, ma le elette sono state soltanto il 29,6 per cento: 86 su 290 deputati e senatori Pd all’opposizione. Cinque anni dopo la situazione è migliorata con l’introduzione del doppio voto – per un maschio e una femmina – alle primarie. In totale le parlamentari della XVII Legislatura raggiungono la percentuale del 37,9 per cento: 156 su 412. La cifra è frutto del combinato disposto tra il listino bloccato (23,8 per cento) e le candidate alle parlamentarie elette in gran quantità (43,8 per cento). Un dato tuttavia permane imprescindibile: nessuna esponente politica della sinistra italiana ha mai avuto un ruolo apicale.
I numeri sono impietosi: su venti Regioni esistono due sole governatrici, Catiuscia Marini in Umbria e Debora Serracchiani in Friuli-Venezia Giulia. Le donne sindaco sono soltanto 884 su 8000 Comuni. Nessuna donna ha potuto guidare un partito di sinistra, fatta eccezione per Grazia Francescato, eletta presidente dei Verdi nel 1999. A Bruxelles nel 2009 l’Italia era ventiquattresima sui 27 paesi Ue per rappresentanza femminile all’europarlamento, con 17 elette su un totale di 72.
La sinistra ha affidato alle donne qualche scranno di prestigio ma di scarso potere. Ancora nel 2006 le parlamentari della vincente Unione di Prodi risultavano il 23 per cento e le ministre dei Ds soltanto tre: Livia Turco alla Salute, Giovanna Melandri allo Sport e politiche giovanili, Barbara Pollastrini alle Pari opportunità. Tranne il ministero alla Salute, già ricoperto trent’anni prima da Tina Anselmi, gli altri dicasteri sono di rilevanza secondaria. Sette anni dopo, nel governo Letta, sono quattro: Emma Bonino agli Esteri, Maria Chiara Carrozza all’Istruzione, Josefa Idem allo Sport e Cécile Kyenge all’Integrazione. Alla presidenza della Camera sale Laura Boldrini, eletta con Sel in Sicilia senza passare per le primarie. Certamente si tratta di una nomina di alto profilo, ma l’evoluzione «rosa» della politica si ferma ancora alla terza carica dello Stato, già conquistata 34 anni prima da Nilde Iotti.
A ennesima riprova dell’esclusione femminile, tra i dieci saggi nominati dal presidente Napolitano nel marzo del 2013 per facilitare la nascita del governo Letta non è presente alcuna donna.
Anna Finocchiaro, l’inossidabile
Se una donna di sinistra arriverà mai a sedersi su una poltrona del potere vero, quel posto reca già il nome di Anna Maria Paola Luigia Finocchiaro. Classe 1955, rampolla della borghesia catanese di stirpe risorgimentale, un lustro da magistrato e un quarto di secolo in parlamento, Finocchiaro rappresenta la linea del Pd sul tema della giustizia. Dalemiana fino al midollo, è stata più volte indicata come la donna giusta per il ministero degli Interni, la segreteria del partito e la presidenza della Repubblica.
Il cosiddetto «giustizialismo» non è certo la sua bandiera. Da capogruppo dei progressisti in Commissione giustizia, nel 1994, si preoccupa quando i colleghi del Pds firmano un’interrogazione contro la decisione della Cassazione di spostare a Brescia il processo sulle tangenti della Fininvest alla guardia di finanza, sottraendolo al pool milanese di Mani pulite. Al «Corriere» rilascia la seguente dichiarazione: «Quando il paese si divide tra chi sta con Borrelli e chi sta contro Borrelli, significa che nel paese è passata l’idea che la Procura di Milano sia l’unico soggetto capace di esercitare il controllo giurisdizionale. Questo è un pericolo. Il populismo e il leaderismo devono rimanere estranei all’esercizio della giustizia. Non devono esistere supergiudici, altrimenti si innescano meccanismi di protagonismo dannosi alla democrazia. Il cittadino deve sapere che può fidarsi del lavoro di tutti i magistrati».225
Nel 1996 il neopremier Romano Prodi le affida il ministero per le Pari opportunità, nel 1998 D’Alema le assegna il ruolo di presidente della Commissione giustizia. In tale veste coltiva fino al 2001 il dialogo con i berluscones dopo il fallimento della Bicamerale. Tra i fedelissimi dalemiani, se Nicola Latorre è il luogotenente della Puglia e Marco Minniti della Calabria, Anna Finocchiaro è la «sergente di ferro» di Sicilia. Col ritorno al governo del Cavaliere, la catanese dalla voce baritonale si mostra un’oppositrice implacabile: chiede le dimissioni dei ministri Umberto Bossi e Giulio Tremonti, attacca Berlusconi, sfodera «requisitorie» televisive che zittiscono gli avversari. In concreto, però, continuano le sintonie con Forza Italia: «Non abbiamo paura di affrontare i nodi che pesano sul dibattito istituzionale, come l’obbligatorietà dell’azione penale e l’indipendenza del pm […]. Oggi i giudici si occupano di troppe questioni».226 Il «garantismo» di Anna si estrinseca negli elogi agli imputati eccellenti Giulio Andreotti e Salvatore Cuffaro, il governatore della Sicilia imputato di favoreggiamento a Cosa nostra. Secondo la responsabile Giustizia dei Ds entrambi sono degni di plauso poiché, non beneficiando come Berlusconi di leggi ad personam, hanno semplicemente affrontato i processi senza insultare i magistrati o darsi alla contumacia.
Tornato al governo il centrosinistra nel maggio del 2006, il nome di Finocchiaro riecheggia in riferimento al ministero degli Interni e alla presidenza della Repubblica. Ma le alchimie di potere non prevedono un Viminale «rosso», ed è Giuliano Amato a conquistare la poltrona, mentre al Quirinale sale Giorgio Napolitano. A inizio legislatura, da capogruppo per l’Ulivo al Senato, Finocchiaro incontra l’approvazione bipartisan per il suo impegno a favore della legge sull’indulto: «Sono assolutamente con l’idea di Pecorella di fare subito l’indulto prima dell’estate, per fare poi l’amnistia in un secondo momento dopo la pausa estiva. I tempi, per quanto mi riguarda, si possono accelerare».227
Il momento di Finocchiaro sembra arrivare in occasione della nascita del Partito democratico. Nel maggio del 2007, all’ultimo congresso dei Ds a Firenze, la senatrice scandisce un discorso perfetto interrotto per ventun volte dagli applausi. La sua candidatura è sospinta da una base che chiede «donne e giovani per il futuro», i media si sprecano in paragoni con la leader socialista francese Ségolène Royal e sull’eventualità di una sfida col premier Prodi. La scelta ricade su Veltroni, che rinuncia all’Africa per tornare in pista con il «suo» Pd. Il passo indietro dei dalemiani forse dipende dalla diffusione delle telefonate dello scandalo Unipol-Bnl o da una visione strategica che impone un inabissamento. Finocchiaro non batte ciglio e nel 2008 accetta di candidarsi alla successione di Totò Cuffaro in Sicilia sfidando il segretario del Movimento per le autonomie (Mpa) Raffaele Lombardo.
Il ghost writer della sua campagna elettorale è il socialista Salvo Andò. La scelta fa discutere per i trascorsi dell’ex ministro e deputato craxiano. Nel 1993 la Direzione distrettuale antimafia di Catania aveva chiesto l’autorizzazione a procedere contro Andò per voto di scambio con Cosa nostra sulla base di accuse di pentiti poi smontate in aula. In uno dei maggiori scandali della Tangentopoli siciliana, l’ex ministro era stato condannato in primo grado a 5 anni e 6 mesi (e poi prosciolto nel 2004 per intervenuta prescrizione) per l’appalto da 173 miliardi di lire per la costruzione del centro fieristico di viale Africa a Catania, affidato al cavaliere del lavoro Francesco Finocchiaro in cambio di una tangente pari al 10 per cento.
Alle Regionali Lombardo doppia Finocchiaro, 65 per cento a 30, ma è presto costretto a rimpasti di giunta per le turbolenze degli alleati. Alla fine del 2009, quando si consuma la rottura col Pdl di Gianfranco Miccichè, il Pd assicura un appoggio esterno al terzo governo del fondatore di Mpa. Eppure, durante la campagna elettorale, Anna Finocchiaro dichiarava: «L’unico obiettivo è la gestione del potere in Sicilia. Si conferma una concezione del potere fatta di occupazione della cosa pubblica, di inefficienze e di sprechi. Oggi tutto è uguale a ieri: Lombardo come Cuffaro».228
L’ingresso del Pd nel sistema di potere clientelare non è sintomo di schizofrenia politica e non può ridursi a un accordo tra cacicchi locali. Il parlamento sta vivendo la prima crisi del governo Berlusconi, colpito nell’estate del 2009 dalle «scosse» del caso escort. L’appoggio democratico a Lombardo è dunque un laboratorio dell’inciucio in salsa siciliana, forse la prova generale del dialogo con un «diverso» centrodestra, che invece non potrà fare a meno di Berlusconi. Certamente, la brama di tornare al governo, locale e nazionale, dimostra ancora una volta l’elasticità programmatica di una sinistra che ha smarrito la propria identità.
Tegole mediatiche e giudiziarie
Anna Finocchiaro è una donna forte, resiste anche alla tempesta dell’antipolitica di Grillo e alla rottamazione invocata da Matteo Renzi. Nel dicembre del 2012, mentre i giornali stanno ancora scrivendo di un suo possibile passo indietro, l’ex magistrato catanese stupisce mettendosi in gioco alle primarie per la scelta dei parlamentari. Lo fa in quel di Taranto, città martoriata dall’inquinamento dell’Ilva, piazzandosi al primo posto con 5150 voti.
I problemi però paiono inseguirla. Nel maggio del 2012 il settimanale «Chi» pubblica alcune foto che ritraggono Finocchiaro all’Ikea con agenti della scorta e il suo autista che spinge il carrello della spesa. La capogruppo dei senatori Pd cerca di placare le polemiche con un messaggio su Twitter: «Chi ha una tutela deve sempre avvertire dei suoi movimenti. E poi non ho chiesto io la scorta, mi è stata assegnata quando ero candidata in Sicilia e da allora il ministero dell’Interno continua a ravvisare la necessità che io l’abbia». L’orgoglio da optimates la fa incespicare anche in una gaffe televisiva. All’ex ministro dell’Istruzione del Pdl Mariastella Gelmini che obietta come una presenza femminile basata sui numeri possa non bastare, perché rischia di essere solo di facciata, Finocchiaro risponde: «Qua stiamo parlando di parlamentari della Repubblica, non stiamo parlando di bidelle […]. Con tutto il rispetto per un lavoro importantissimo».229
Un’altra tegola giunge inaspettata dal marito, il ginecologo Melchiorre Fidelbo. La vicenda riguarda l’assegnazione senza gara pubblica di un appalto da 350 milioni di euro per informatizzare il Presidio territoriale di assistenza (Pta) di Giarre. Fidelbo è amministratore della Solsamb Srl, costituita il 20 settembre 2007 e autrice di un progetto relativo a una Casa della salute per il Consorzio sanità digitale ambiente. Massimo Russo, assessore regionale alla Sanità della giunta Lombardo, che nel frattempo è succeduto a Cuffaro, apporta modifiche sulla base del piano sanitario nazionale e localizza i progetti nei presidi di Giarre, Salemi (Trapani), Palazzo Adriano (Palermo) e Mazzarino (Caltanissetta). La convenzione con Solsamb viene firmata nel luglio del 2010. Tutto fila liscio sino all’inaugurazione del centro sanitario di Giarre in novembre, quando la protesta di alcuni cittadini accende i riflettori. Al taglio del nastro sono presenti l’assessore Russo, i dirigenti dell’Asl catanese, il ministro alla Salute Livia Turco, i coniugi Melchiorre Fidelbo e Anna Finocchiaro. Un manifestante grida vergogna all’indirizzo di quest’ultima, che lo affronta vis à vis: «Vergogna di che?». Un mese dopo l’assessore Russo, pur criticando chi vuole gettare ombre sulla sanità regionale, invia due ispettori a raccogliere le copie delle delibere. La relazione dei funzionari registra profili di illegittimità nell’affidamento e spinge la Regione a revocare l’appalto in autotutela. Il sostituto procuratore di Catania Alessandro La Rosa apre un’inchiesta che nell’ottobre del 2012 porta al rinvio a giudizio di Fidelbo e dei direttori sanitari succedutisi: Antonio Scavone, Giuseppe Calaciura e Giovanni Puglisi. Il marito di Finocchiaro, al pari degli altri imputati, assicura la regolarità delle procedure: «È tutta una strumentalizzazione per colpire mia moglie, alla quale vogliono far pagare l’appoggio a Lombardo […]. Io ho presentato un progetto su fondi vincolati che altrimenti sarebbero andati perduti. Nessuno poteva ottenere l’incarico sulla base di un mio progetto, semmai potevano presentarne un altro».230
Il processo al consorte è una delle ragioni che ostacolano l’ipotesi della candidatura di Anna Finocchiaro a membro laico del Csm, dove sarebbe stata chiamata a esprimersi sulle carriere dei magistrati, compresi quelli impegnati a giudicare Melchiorre. La scelta attendista di Anna, che torna in Senato come presidente della Commissione affari costituzionali sull’onda dei voti alle primarie del febbraio 2013, potrebbe anche dipendere da altri obiettivi di prestigio. Verso la fine della campagna elettorale Finocchiaro assicura che sarà la sua ultima legislatura, ma il suo nome risulta in pole position fra quelli delle donne in lizza per la successione al capo dello Stato Giorgio Napolitano. Si dichiarano disposti a votarla l’esponente montiana Giulia Bongiorno, ex Alleanza nazionale e già legale di Andreotti, e persino il segretario della Lega nord Roberto Maroni. Dopo una lunga serie di eleganti smentite, la senatrice catanese tradisce nervosismo alla vigilia delle votazioni. La causa è Matteo Renzi, che dai microfoni del Tg5 ha bocciato la sua eventuale candidatura rievocando la vicenda della scorta all’Ikea.
Rosy Bindi, la pasionaria
Almeno formalmente il tabù di una donna alla guida di un partito progressista è stato rotto. Rosy Bindi, nei quattro anni di segreteria Bersani, ha ricoperto la carica onorifica di presidente del Partito democratico. In quel che resta della sinistra italiana la lunga carriera di una democristiana doc, fieramente anticomunista, non può soddisfare le femministe storiche, i militanti dell’ex Pci ma nemmeno tutti coloro che chiedevano di ripartire dai temi della sinistra. D’altronde l’integralismo cattolico nel Pd era ben rappresentato dai teodem di Paola Binetti, fondatrice del Campus biomedico romano dell’Opus Dei, fiera oppositrice delle unioni omosessuali e della fecondazione assistita, uscita dal partito nel 2010 per protesta contro la candidatura della radicale Emma Bonino a governatrice del Lazio. Bindi è molto più open minded, perlomeno politicamente. Militante dell’Azione cattolica, nubile per scelta, austera ma popolare, sponsorizza l’alleanza di centrosinistra nascendo come prodiana e crescendo con i dalemiani.
Rosy, classe 1951, cresce a Sinalunga, paesino della Valdichiana a 30 chilometri dal capoluogo Siena, in una famiglia di agricoltori. Dopo la laurea alla Luiss, la giovane Bindi ottiene un posto da ricercatrice in Diritto amministrativo: è l’assistente personale del professor Vittorio Bachelet nella facoltà di Scienze politiche. Il capo dell’Azione cattolica, vicepresidente del Csm e amico di Aldo Moro, viene assassinato dalle Brigate rosse il 12 febbraio 1980 mentre si trova sulla scalinata dell’istituto assieme a Rosy Bindi, fortunatamente illesa.
Dopo la tragedia lei si tuffa nel lavoro, come ricercatrice e docente alla facoltà di Giurisprudenza di Siena, e ogni minuto libero lo dedica al volontariato, tanto da meritare la nomina a vicepresidente dell’Azione cattolica. Rosy, da sempre ispirata al cattolicesimo «popolare» di don Giuseppe Dossetti, nel 1989 si iscrive al partito del compianto professor Bachelet nella corrente di Mino Martinazzoli, quella contraria all’asse con Bettino Craxi. Alle Europee dello stesso anno 211.000 preferenze nella circoscrizione Nord-Est le consegnano un posto a Strasburgo.
In Italia, durante Tangentopoli, Bindi si incarica di fare pulizia nella Dc veneta, chiedendo le dimissioni degli esponenti raggiunti da un avviso di garanzia. Da commissaria del partito è soprannominata la «pasionaria» ma anche «grande epuratrice». Nella Seconda repubblica, invece, sarà la «Giovanna d’Arco della sinistra».
Nella veste di segretario regionale Ppi del Veneto, è tra gli esponenti dell’ex sinistra democristiana a sposare con convinzione il progetto dell’Ulivo. Nel 1996 Prodi le assegna il ministero della Sanità e a molti sembra la persona giusta al momento giusto. Bindi non teme di sfidare l’impopolarità schierandosi a favore della medicina ufficiale contro i tanti pazienti che in buona fede sostengono il metodo del professor Luigi Di Bella, ossia una cura naturale dei tumori – priva di risultati certi – tramite l’uso della somatostatina. La ministra approva un’importante riforma del servizio sanitario nazionale: il decreto 229 del 1999 ne accentua i caratteri federalistici, affidando più poteri alle Regioni e delegando ai Comuni i servizi sociali; introduce i fondi integrativi per compensare prestazioni non più garantite dallo Stato come le cure termali e odontoiatriche; stabilisce l’esclusività per i medici ospedalieri, che possono esercitare l’attività privata solo intra moenia.
Alla caduta di Prodi, mentre l’Ulivo si spacca sulla scelta di andare alle elezioni, Rosy chiede di continuare l’opera di governo, venendo per l’appunto confermata dal nuovo premier D’Alema. Bindi è un personaggio politico autentico, che sa dialogare con la società civile, affrontando anche il rischio della contestazione, scendendo ora nell’arena ostile dei Girotondi ora in quella dei no global del Social Forum. Nel 2010 manifesterà per le donne e contro la riforma berlusconiana sulle intercettazioni telefoniche, trovandosi fianco a fianco, imbarazzata, con Patrizia D’Addario. A partire dal 2001, nel collegio di Cortona, è la rossa Toscana a permetterle di tornare in parlamento, ma lei rifiuta l’etichetta di cattocomunista: «Non sono mai stata comunista e mai lo sarò. Anzi, sono contenta di avere fatto in modo che quelli che lo erano ora non lo siano più».231 All’interno della Margherita, come responsabile di Politiche sociali e Salute, non aderisce al gruppo dei prodiani ma alla corrente del reggiano Pierluigi Castagnetti.
Nel luglio del 2007 si candida ufficialmente a leader del nascituro Pd. Dalla sua parte ci sono Arturo Parisi, Nando dalla Chiesa, Roberto Zaccaria, intellettuali come Gad Lerner e Gianfranco Pasquino. D’Alema e Fassino dichiarano di votare l’ultrafavorito Veltroni ma non attaccano la brava Rosy. Il cui risultato è modesto: 453.000 voti, pari al 12,88 per cento. L’impegno invece è massimo. Sia nel partito, dove fonda la corrente Democratici davvero, sia in aula a battagliare contro il governo Berlusconi: nella XVI Legislatura fa registrare zero assenze. Il 7 novembre 2009 la Convenzione nazionale democratica, salutando il nuovo segretario Bersani, nomina Bindi presidente. Il voto unanime è sottolineato da un caloroso applauso.
Nei confronti televisivi Rosy sa farsi valere, aggredisce gli avversari punto per punto a differenza di molti concilianti diessini. D’altronde la «Giovanna d’Arco della sinistra», frequentatrice di parrocchie e sagre paesane, è l’antitesi del berlusconismo, anche nella sua forma estetica di ostentazione dell’opulenza e della mondanità. Il Cavaliere l’aveva già attaccata a freddo l’8 aprile 2003, sostenendo a Brescia la candidatura a sindaco di Viviana Beccalossi: «È più brava che bella, il contrario di Rosy Bindi». Sei anni dopo replica l’insulto nei confronti della presidente del Pd, «rea» di aver considerato gravissima la pretesa che il capo dello Stato esercitasse una moral suasion sulla Corte costituzionale impegnata a giudicare il lodo Alfano. Berlusconi, citando una battuta di Vittorio Sgarbi, esclama: «Ravviso che lei è sempre più bella che intelligente». Bindi replica: «Sono una donna che non è a sua disposizione e ritengo gravi le sue affermazioni».232
Se lo scontro con il leader del Pdl è duro, le aperture all’altro centrodestra non mancano. Nell’ottobre del 2010 Rosy propone un’alleanza a Gianfranco Fini: «Se si vota proporremo un’alleanza per la democrazia, in difesa della Costituzione, anche con Fli».233 Bindi fa da pontiere anche due anni dopo a Siena in occasione del disastro finanziario della banca Monte dei Paschi. L’ala della Margherita locale, tagliata fuori dalle nomine del nuovo cda, fa mancare l’appoggio alla maggioranza provocando le dimissioni del sindaco Pd Franco Ceccuzzi. Lei interviene: «Credo che Ceccuzzi per le scelte che ha fatto nella sua veste di sindaco, soprattutto per il rilancio della Banca Mps, e per la coerenza con la quale si è dimesso possa essere la persona giusta per ricandidarsi non appena sarà possibile andare a votare».234
Quando la dimensione dell’inchiesta su Mps viene a galla nella sua complessa gravità, Rosy tiene a sottolineare: «Da tutta questa vicenda un risultato positivo sarà che si interromperà il rapporto tra il terzo istituto bancario italiano e la città di Siena. Non me ne vogliano i senesi, io sono di provincia, son fuori le mura. Non mi sono mai interessata, né qualcuno ha fatto qualcosa perché mi interessassi di questa vicenda […]. Il Monte è stato sempre molto importante per Siena, ma credo che abbia contribuito a fare di quella una città un po’ troppo assistita».235 Non è un’autodifesa di convenienza ma un dato oggettivo: la sua vera terra è Sinalunga. In paese è benvoluta, si fa vedere spesso anche senza l’auto blu e la scorta d’ordinanza. Raccontano al bar della piazza, proprio dinanzi alla chiesa locale: «Capita ancora che Rosy Bindi arrivi qui a prendere un gelato a bordo della sua vecchia bicicletta che usava da ragazzina. È rimasta umile come allora».
Umile ma determinata, è un’indomita oppositrice della rottamazione invocata da Renzi. Quando il sindaco di Firenze perde il ballottaggio con Bersani, Bindi è al settimo cielo, rilascia dichiarazioni a macchinetta sino all’ultimo minuto della festa del comitato elettorale. Alle primarie per i parlamentari si candida a Reggio Calabria e con 7500 preferenze conquista il posto di capolista. Durante un convegno a Reggio sul diritto alla salute, in campagna elettorale, impedisce alle telecamere della trasmissione Report di riprendere e registrare. Lo fa in modo tranquillo, per questo ancora più sorprendente, senza l’aggressività o l’arroganza che contraddistinguono altri colleghi.
Le rare volte in cui la deputata toscana ha perso le staffe a convegni pubblici è stato nei confronti di sostenitori dei diritti degli omosessuali. Prodi nel 2006 le aveva creato un ministero ad hoc, quello della Famiglia,236 e Bindi si era fatta promotrice, assieme a Barbara Pollastrini, della prima regolamentazione su diritti e doveri delle coppie di fatto (Dico). La legge, nonostante i tentativi di limare le posizioni estreme della Chiesa romana e dei movimenti civili, non fu approvata. Comunque la «pasionaria» è stata promossa all’esame di «laicità politica»: d’altronde non professa l’uso del cilicio né considera l’amore tra persone dello stesso sesso una devianza della personalità, per dirla con l’ex collega democratica Paola Binetti. E tanto basta ai dirigenti del partito. Anche se Rosy, quello che pensa, lo aveva già messo nero su bianco quando era ministro della Famiglia: «I Dico non prevedono alcuna equiparazione tra famiglia e coppie di fatto né etero né omosessuali… La famiglia è tra un uomo e una donna e quindi il desiderio di maternità e di paternità un omosessuale se lo deve scordare. Non sarei mai favorevole al riconoscimento del matrimonio fra omosessuali: non si possono creare in laboratorio dei disadattati. È meglio che un bambino cresca in Africa piuttosto che con due uomini, o due donne».237
Melandri, fatina veltroniana
Alla vigilia delle Politiche del 2013 il ministro dei Beni culturali Lorenzo Ornaghi nomina Giovanna Melandri presidente della fondazione del Maxxi, il Museo nazionale dell’arte del XXI secolo di Roma reduce da un periodo di commissariamento. Per ricoprire questo ruolo Melandri lascia la vita parlamentare, sottolineando di percepire 90 euro l’anno: 30 per ogni seduta del consiglio di amministrazione.
Melandri è l’eterna promessa veltroniana, una «tecnica» dal curriculum di tutto rispetto: ricercatrice, economista, ecologista, femminista, suggella al Maxxi il suo percorso politico votato al bene più prezioso del paese, la cultura. L’amicizia con il compagno «americano» Walter era scritta sin dall’ostetricia: Giovanna nasce nel 1962 a New York, dove il padre Franco Melandri lavora come direttore di Rai Corporation, dunque collega d’oltreoceano di Vittorio Veltroni. La madre, Cesarina Minoli, è una traduttrice, mentre il cugino sarà un volto importante della tv pubblica italiana: Gianni Minoli. Melandri si laurea in Economia alla Sapienza e per quattro anni coordina un gruppo di lavoro all’ufficio studi della Montedison, poi diviene il motore di Legambiente.238
Nell’anno della svolta della Bolognina Melandri entra nella direzione nazionale del neonato Pds. La prima elezione a deputata, nel 1994, avviene però tra le file di Alleanza democratica, partito alleato che si trova su posizioni più moderate, guidato da Willer Bordon.
I temi di cui Melandri si occupa sono svariati: nei Ds è la responsabile della Comunicazione, in parlamento riesce a far approvare una legge più severa contro la violenza sessuale, inoltre coordina il gruppo di lavoro su trapianti e procreazione medicalmente assistita. Nella società civile si spende per la legalità con l’associazione Cento passi in memoria di Peppino Impastato e Libertà e giustizia, e per la partecipazione femminile in politica tramite Emily in Italia.
Nel 1998 entra nella squadra del governo D’Alema sedendosi al posto che era occupato da Veltroni: ministero dei Beni culturali con delega allo Sport. Nel 2006, durante il secondo mandato di Prodi, ottiene un ministero senza portafoglio: si occupa di politiche giovanili e attività sportive nel periodo in cui scoppia lo scandalo delle partite truccate. Melandri si muove a tentoni con dichiarazioni di tenore «calcistico», ossia favorevoli a tutti i protagonisti in conflitto fra loro. Durante il mondiale vittorioso Melandri rilascia numerose interviste, è sempre presente in tribuna col presidente Napolitano e in sala stampa, scende persino negli spogliatoi dei campioni. La passione per la Nazionale abbinata alla grazia le vale il soprannome di «Fatina» degli azzurri.
Nel febbraio del 2007 Melandri smentisce il gossip de «l’Espresso» sulla sua presenza alla festa di Capodanno nel resort di Flavio Briatore a Malindi. Ammette di essere stata in Kenya, ma nella martoriata Watamu per i senzatetto e i bimbi sieropositivi, non certo ospite del manager della Renault. Simona Ventura e Carlo Rossella invece confermano di averla vista e poco dopo appare la foto che ritrae Giovanna in una danza scatenata. Il padrone di casa, già sulla graticola per il lussuoso locale notturno in Costa Smeralda, il Billionaire, chiude il cerchio: «Giovanna Melandri è stata da me in Kenya, ha bevuto champagne al tavolo con noi e poi ha negato l’evidenza scrivendo che non era mai stata da me». Questa caduta di stile contribuisce ad alimentare il mito dell’ipocrisia dei radical chic. La vicinanza nei salotti romani tra Pdl e centrosinistra è risaputa, ma i media paiono accanirsi particolarmente su Giovanna. Ad esempio, sono ventidue le assenze democratiche in occasione del voto sullo scudo fiscale berlusconiano del settembre del 2009, che passa con soli venti voti di scarto. Melandri finisce sotto accusa, eppure è una delle poche a provare che quel giorno doveva intervenire per il Pd in Spagna, al Global Progress Conference.
Nel partito segue l’amico Veltroni nell’ultima scommessa, il Partito democratico e le primarie che lo proclamano segretario. Nel maggio del 2008 Giovanna viene nominata ministro della Comunicazione del governo ombra creato da Veltroni, uscito con le ossa rotte dalla sfida per il governo reale con Berlusconi.
L’ultima polemica riguarda la nomina alla presidenza del Maxxi. Una mozione firmata dai deputati del Pdl Paola Frassinetti e Marco Marsilio chiede di «attivare procedure di selezione aperte, pubbliche, trasparenti, al fine di individuare un presidente dotato delle necessarie competenze tecniche manageriali […]. È noto che Giovanna Melandri è cugina del giornalista Gianni Minoli (a sua volta presidente del Museo di arte contemporanea di Rivoli), la cui figlia è moglie di Salvo Nastasi (ex capo di gabinetto del ministro Ornaghi). In qualunque nazione civile, basterebbe il semplice sospetto o la pura possibilità, anche a prescindere dal fatto se sia realmente avvenuto, che un capo di gabinetto abbia potuto adoperarsi per creare le condizioni utili a suggerire al ministro prima il commissariamento, e poi la nomina a presidente della fondazione da lui vigilata, di una persona che risulta essere la cugina del suocero, a rendere non solo inopportuna, ma persino impensabile una decisione del genere». Su Twitter il direttore di «Micromega» Paolo Flores d’Arcais è lapidario: «La nomina di Melandri da parte di Ornaghi è un’autentica volgarità, anche nella beneficenza bisognerebbe avere stile».
A scatenare altri vespai sono la censura pre-elettorale di Girlfriend in a coma, documentario di Bill Emmott e Annalisa Piras sul declino italiano, e l’assunzione del collaboratore Francesco Spano come segretario generale con uno stipendio lordo di 72.000 euro annui. A quel punto si scaglia contro Melandri anche l’ex presidente del Maxxi Pio Baldi, a suo tempo defenestrato per i debiti accumulati: «Il contributo del Mibac al Maxxi previsto per il 2012 ammontava a due milioni di euro. In seguito, il budget è stato aumentato di circa 1,4 milioni. In queste condizioni, anch’io avrei avuto la possibilità di andare in pari con il bilancio».239
Marianna Madia, l’inesperienza al potere
Bella, bionda, in gamba e con gli amici giusti. Marianna Madia, promettente ricercatrice scoperta da Enrico Letta, ex fidanzata del figlio di Giorgio Napolitano, portata in parlamento da Veltroni, è una delle deputate più interessanti del Pd. Ai più, la carriera lampo di Madia ingenera il dubbio amletico: raro esempio di meritocrazia o classica raccomandazione?
Il padre Stefano Madia, attore e giornalista Rai, consigliere comunale a Roma nella lista civica per Veltroni, muore a soli 49 anni nel dicembre del 2004. Lei vive con la madre a Fregene. I brillanti risultati dopo la maturità francese al Lycée Chateaubriand di Roma l’inducono ad affacciarsi alla vita pubblica. Nel corso di una conferenza conosce Enrico Letta che la invita ad Arel, il prestigioso pensatoio fondato trent’anni prima da Beniamino Andreatta. Lei si presenta con il curriculum giocoforza scarno, sovrascrivendo: «Laurea con lode prevista per il prossimo 26 marzo 2004». La previsione si rivela azzeccata, sia per il 110 e lode in Scienze politiche, sia per il ruolo di coordinatrice dell’Osservatorio energia e ambiente in Arel. Marianna fila come un Frecciarossa: consegue il dottorato di ricerca in Economia del lavoro all’Imt di Lucca, coordina la rivista mensile telematica «Europa Lavoro Economia» (Ele), cura un blog all’avanguardia (Marianna Madia blog) da cui si rivolge soprattutto ai giovani precari. Il desiderio di sfondare non pone limiti alla Provvidenza. Madia partecipa come ospite fra il pubblico alla trasmissione Economix in onda a notte fonda su Rai3. Da comparsa a protagonista il passo è breve: partecipa alla realizzazione di eCubo, programma di Rai Educational dedicato a economia, energia ed ecologia, che sarà premiato al festival europeo Green Wave 21° Century.
Però la ragazza acqua e sapone, con i boccoli e le fossette, alla tv preferisce la lettura e gli incontri. Nel 2007 pubblica per Il Mulino Un welfare anziano. Invecchiamento della popolazione o ringiovanimento della società e scrive sul quadrimestrale «Arel rivista». Di certo non sono un freno la parentela con il legale dei Mastella Titta Madia, fratello del padre Stefano, e l’amico di famiglia Walter Veltroni. Nel 2008 è proprio l’«operazione rinnovamento» del segretario del Pd a catapultarla alla Camera dei deputati: fuori l’ottantenne Ciriaco De Mita, dentro la ventottenne Marianna sul trono di capolista nel Lazio. Lei si presenta alla stampa rivendicando la «straordinaria inesperienza» politica, parlando di «rivoluzione dolce» e di impegno per l’ambiente al primo punto.
L’ex presidente Francesco Cossiga scrive una lettera, pubblicata sul quotidiano «Il Tempo», in cui la invita a lasciar perdere e a metter su famiglia. La tenace Marianna risponde ottenendo un invito a casa Cossiga, con cui scopre di aver condiviso il fisioterapista. La democratica emergente è un’ospite gradita nelle stanze del Quirinale, essendo stata la compagna di Giulio Napolitano, collaboratore di Arel: «Be’, sono stata a cena, sul Colle, una sola volta. Ma non credo che, ai lettori del “Corriere”, interessino le mie vicende amorose. Specie se sono finite».240 In seguito si fidanza con Mario Gianani, da cui ha un figlio. Gianani è un produttore cinematografico in società con Saverio Costanzo e Lorenzo Mieli, figli di Maurizio e Paolo, rispettivamente direttori del Maurizio Costanzo Show e di Rcs.
In parlamento Marianna si accomoda a fianco di D’Alema, del quale tesse le lodi a più riprese. Contraria all’aborto, apprezza Ségolène Royal anche per la capacità di conciliare vita politica e quattro figli. Madia fa parte dei ventidue democratici assenti in aula durante l’approvazione dello scudo fiscale: quel giorno si trovava in Brasile per alcuni accertamenti clinici. È membro della Commissione permanente lavoro pubblico e privato, dove insiste sul tema del precariato. L’onorevole Madia presenta una proposta di legge con Cesare Damiano, Livia Turco, Giulio Santagata e Arturo Parisi per il superamento del dualismo nel mercato del lavoro e l’allargamento dei diritti. Nel 2011 pubblica Precari. Storie di un’Italia che lavora,241 analisi critica delle politiche del governo Berlusconi con prefazione del segretario della Cgil Susanna Camusso. Nello stesso anno entra nel comitato di redazione della rivista «Italianieuropei», dell’omonima fondazione di Massimo D’Alema, ma non dimentica le origini insediandosi nel comitato direttivo di Arel.
Nel dicembre del 2012, finalmente, arrivano le consultazioni primarie, chiave per il lavacro ex post della mancanza di gavetta nel partito. Per Madia è la prova del nove. Raccoglie 500 firme in pochi giorni e 5000 consensi fra gli elettori: «Ho cercato tutte le persone con cui ho lavorato in questi cinque anni. Gente che conoscevo, niente liste preconfezionate. Ho fatto incontri, mandato centinaia di sms e di mail, ma non in batteria, personalizzate, creando tipo delle catene di Sant’Antonio, ma soprattutto sono stata ininterrottamente al telefono, ho l’orecchio fuso […]. Ho capito molti meccanismi nel partito, di cui mi sento una nativa. Ci sono tanti aspetti da perfezionare, nella federazione romana». Non può mancare un pensiero per D’Alema: «Lui è un padre nobile del partito, non si mette a fare campagna. Però in ogni caso mi mancherà. Nessuno sarà mai come lui».242
A sorpresa, appena rieletta, l’onorevole Madia si scaglia contro il partito: «Nel Pd a livello nazionale ho visto piccole e mediocri filiere di potere. A livello locale, e parlo di Roma, facendo le primarie dei parlamentari ho visto, non ho paura a dirlo, delle vere e proprie piccole associazioni a delinquere sul territorio». 243
225 Francesco Verderami, «Basta con queste vergini violate, sembra che in Italia ci sia solo il pool», «Corriere della Sera», 7 dicembre 1994.
226 Agenzia Ansa, 14 dicembre 2001.
227 Agenzia Ansa, 5 luglio 2006.
228 Agenzia Ansa, 24 febbraio 2008.
229 Porta a porta, Rai1, 28 gennaio 2013.
230 Alfio Sciacca, Appalto al marito della Finocchiaro. Finanza in Regione, «Corriere della Sera», 31 dicembre 2010.
231 Carlo Puca, Rosy Bindi: tranquilli, non morirò comunista (e ormai neanche democristiana), «Panorama», 27 ottobre 2010.
232 Porta a porta, Rai1, 7 ottobre 2009.
233 Giovanna Casadio, Bindi, un’alleanza anche con Fini, «la Repubblica», 4 settembre 2010.
234 Intervista a Teleidea, 7 luglio 2012.
235 Porta a porta, 30 gennaio 2013.
236 Il ministero della Famiglia è stato creato nel 2006 per effetto dello spacchettamento del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, suddiviso in tre ministeri con quelli della Solidarietà sociale e del Lavoro, poi riassorbito dal governo Berlusconi nella delega al sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
237 Lettera a «la Repubblica», Perché gli omosessuali non possono adottare, 20 marzo 2007.
238 A Legambiente è stata membro del direttivo, responsabile dell’ufficio internazionale e dell’annesso comitato scientifico, autrice della riforma fiscale dell’associazione e del rapporto annuale sullo stato dell’ambiente in Italia. Nel 1990 partecipa alla Conferenza sviluppo sostenibile di Bergen e due anni dopo si fa notare alla Conferenza Onu di Rio de Janeiro su ambiente e sviluppo.
239 Andrea Dusio, «Incarico alla Melandri? Maxxi intreccio familiare», «il Giornale», 25 ottobre 2010.
240 Fabrizio Roncone, «Vada per carina, raccomandata no», «Corriere della Sera», 1° marzo 2008.
241 Marianna Madia, Precari. Storie di un’Italia che lavora, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011.
242 Giovanna Cavalli, Marianna Madia ce la fa e scherza: tre voti erano sicuri, «Corriere della Sera», 31 dicembre 2012.
243 Agenzia Ansa, 25 giugno 2013.