Il Pd e le banche

Se volete far tacere il cittadino che protesta, che ha ancora la capacità d’indignarsi, dite che fa del moralismo. È spacciato.

Norberto Bobbio

De Bustis tra banche, palazzi e Vaticano

Per iniziare questo viaggio nel mondo delle banche analizziamo la parabola di un manager, Vincenzo Figarola De Bustis, paradigmatica della trasversalità di rapporti nel settore della finanza. Ingegnere informatico romano, il giovane De Bustis si occupava di sistemi di controllo delle banche già dopo il dottorato al Cnr. Negli anni Ottanta si è guadagnato la fama di innovatore al Banco di Roma, poi alla Bnl e in Cofiri, finanziaria del comparto agro-alimentare del colosso pubblico Iri. I media si accorgono delle sue doti quando afferra il timone della Banca del Salento, istituto controllato dalla famiglia di Giovanni Semeraro, proprietario del Lecce Calcio, poi affiancato dal costruttore Donato Montinari e in particolare da Lorenzo Gorgoni, cugino di Raffaele Fitto ma vicino a Massimo D’Alema. Gorgoni è un finanziere con interessi nei settori più svariati: vicepresidente vicario della banca leccese ma anche fondatore dell’immobiliare Milano Pace presieduta da Roberto De Santis e, in Piemonte, socio di Poltrona Frau al fianco di Deutsche Bank, Mps e Unicredit.

La Banca del Salento è un istituto fondamentale per lo sviluppo della regione, in grado di colmare lo spazio lasciato dal crac della Cassa di risparmio di Puglia. De Bustis è l’uomo giusto al posto giusto: da quando, nel 1992, diventa direttore generale la banca muta anima e corpo. Grazie a scelte innovative come il virtual banking (Banca 121), in sette anni l’istituto cresce da 5000 miliardi di lire di raccolta a 16.000 miliardi, da 35 a 220 sportelli, da 877 a 1400 dipendenti, più 1700 promotori. La Banca del Salento lancia prodotti finanziari aggressivi, alcuni azzeccati, altri però molto meno. Tra questi si riveleranno un disastro MyWay e 4You, piani d’investimento venduti tramite una campagna mediatica invasiva, con testimonial di primo piano quali l’attrice Sharon Stone.

L’incontro decisivo per Vincenzo De Bustis è con Massimo D’Alema. Non è chiaro chi l’abbia favorito, certamente uno tra i fedelissimi pugliesi del segretario del Pds: Flavio Fasano, Nicola Latorre o Gianluigi Pellegrino. D’Alema aveva già colto le qualità dell’ingegnere elettronico votato alla finanza e, nel momento in cui è stato chiamato a governare il paese, lo ha inserito nel cda di Sviluppo Italia, nuova società controllata dal ministero dell’Economia incaricata di promuovere l’industria al Sud. I due vengono notati assieme anche in occasione delle Regionali del 2000, a cena nella splendida cornice di Castello Monaci, a Salice Salentino. L’anno seguente De Bustis entra nel comitato elettorale di Gallipoli per il leader Massimo.

Il grande salto arriva a cavallo del nuovo millennio, quando il Monte dei Paschi acquisisce la Banca del Salento per la cifra astronomica di 2500 miliardi di lire. A conclusione dell’affare, Mps nomina De Bustis direttore generale. Gli ispettori della Vigilanza della Banca d’Italia, all’epoca retta dal governatore Antonio Fazio, elogiano la «visione anticipatrice» di De Bustis, ma i dubbi sull’istituto leccese non mancano. Un documento riservato presentato dall’advisor Rothschild e poi pubblicato da «Il Sole 24 Ore», osserva che le previsioni di crescita indicate dal piano industriale della banca erano eccessivamente ottimistiche. Il quotidiano di Confindustria scrive che «le perplessità della Rothschild non furono condivise dal cda di Mps, e in particolare dal presidente Pier Luigi Fabrizi, il quale riteneva gli advisor troppo cauti».283

Alla guida dell’antica banca senese, De Bustis può avvalersi di compagni di strada come Lorenzo Gorgoni, consigliere di amministrazione con l’1,7 per cento, e Gianluca Baldassarri, deus ex machina della finanza disinvolta presso il desk londinese del Monte. Nel 2012, quando Baldassarri sarà costretto a lasciare Siena per operazioni in derivati al centro di indagini della magistratura,284 Gorgoni resterà saldo nel cda in rappresentanza di Unicoop Firenze e di 58 azionisti pugliesi.

De Bustis collabora positivamente anche con l’azionista di maggioranza, la Fondazione Mps, presieduta dal 2001 da Giuseppe Mussari, avvocato della Curia e finanziatore abituale dei Ds locali. Il manager pugliese dichiarerà anni dopo: «Ero andato a Siena per fare il matrimonio con Bnl». A suo avviso la fusione, sostenuta dal vertice nazionale dei Ds, sarebbe naufragata per le regole imposte dalla Banca d’Italia.

Vincenzo De Bustis lascia la direzione generale di Mps nel 2003 per ragioni di opportunità legate a problemi passati: i prodotti finanziari MyWay e 4You. La vicenda, che nel frattempo è arrivata al Tribunale di Teramo per effetto di alcuni esposti di risparmiatori, cade tre anni dopo come una tegola su De Bustis. A suo carico il gip emette un decreto penale di condanna a 6 mesi commutati in pena pecuniaria, descrivendo i contratti relativi a MyWay e 4You «sostanzialmente ingannevoli». De Bustis si oppone al decreto affrontando il dibattimento per vedersi riconosciuta la totale innocenza. Il processo si celebra a Giulianova, inizialmente con una ventina di parti civili, molte delle quali in seguito ritirano le querele. La sentenza, emessa il 12 giugno 2012, assolve Vincenzo De Bustis e gli altri 17 imputati perché il «fatto non sussiste». Nel frattempo l’ingegnere-banchiere ha già appuntato nuove medaglie al petto. Dopo Siena, infatti, arriva un nuovo incarico di prestigio, quello di country manager della Deutsche Bank in Italia.

Nel 2009 De Bustis si stabilisce a Londra per costituire un fondo di private equity, il Mercantile Bridge Ltd, ma continua a tessere le relazioni italiane. Nel centrodestra è apprezzato da Gianni Letta, Giulio Tremonti e Gianni Alemanno. «ItaliaOggi» svela che il 12 maggio 2009, giorno in cui costituisce il fondo londinese, De Bustis scrive una lettera al sindaco Alemanno per chiedere di diventare socio fondatore di Roma Mediterraneo, presieduta dal banchiere Emmanuele Emanuele, dichiarando la sua disponibilità a versare 500.000 euro. L’indomani la giunta capitolina adotta la proposta di costituire la fondazione, preparandosi ad accogliere il finanziamento di De Bustis.

In consiglio comunale l’esponente de La Destra Francesco Storace chiede come sia possibile che la società di De Bustis sappia «il giorno prima quello che avrebbe deciso la giunta il giorno dopo». E ancora: «Dove avrà sede la fondazione? Avrà dipendenti comunali? Comporterà oneri aggiuntivi a carico della cittadinanza?».285 Alla fine il progetto non va in porto, ma la vicenda getta una luce sui rapporti che uniscono figure vicine a D’Alema a personaggi che si trovano dall’altra parte della barricata. Alemanno sceglie come dirigente delle assicurazioni del Comune Stefano Giovannini, amministratore delegato di Italbrokers, società di brokeraggio assicurativo del genovese Franco Lazzarini, uomo vicino al governatore Pd della Liguria Claudio Burlando. Nel cda di Acea, la multiutility romana del settore idroelettrico con otto milioni di utenti, entra nel 2009 Andrea Peruzy, segretario della fondazione Italianieuropei. Non a caso, Alemanno è stato soprannominato «Dalemanno».

Nel settembre del 2011 De Bustis torna nella sua Puglia come direttore generale della Banca Popolare di Bari. Il fondo londinese, trasformato in banca d’affari con il nome di Bridge Capitals, registra 230.000 euro di perdite nel 2012. L’intero ramo d’azienda viene conferito per quattro milioni di euro alla merchant bank romana Methorios, partecipata anche dalla Astrim del costruttore «rosso» Alfio Marchini, candidato perdente alle Comunali di Roma del 2013 con una lista civica. Rampollo della famiglia già proprietaria del palazzo di Botteghe oscure, l’ingegner Alfio Marchini è stato consigliere di amministrazione della Rai berlusconiana e sostenitore de «l’Unità» di Veltroni. Vicino a Giuliano Amato e al Vaticano, tramite la sua Astrim è socio di Gaetano Caltagirone in Acea e siede nel cda di Cementir. È un altro simbolo vivente della sinistra del nuovo millennio, che ruota attorno a società controllate e palazzi, banche e finanza.

London merchant bank, a Roma

Alcuni personaggi legati a D’Alema si ritrovano nella misteriosa vicenda della London Court Italia Spa, la banca d’affari nata nel 1998 a Roma e controllata da Alberto Lolli Ghetti, figlio dell’armatore genovese Glauco e socio della Italbrokers. Fra i partner figura Vittorio Casale, condannato in primo grado per la bancarotta fraudolenta di quattro società controllate dalla milanese Operae Spa.286 Al fianco del presidente Piero Masia, come vice di London Court si posiziona Roberto De Santis, l’eclettico imprenditore leccese che si definisce «fratello minore di D’Alema».

L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga definisce l’istituto romano «una giovane, vivace, coraggiosa, piccola banca d’affari. Sappiamo che queste banche servono a promuovere affari e a organizzare le costellazioni del potere politico. Ma in un regime reale di economia privata non si vede perché, per fare delle scelte, si debbano salire le scale di Palazzo Chigi».287 In pratica, con il solito linguaggio criptato, Cossiga denuncia la contiguità di London Court con l’uomo politico che in quel momento presiede il Consiglio dei ministri: Massimo D’Alema.

Nel 2002 la merchant bank fiuta il business della tombola all’americana dando vita al Bingo con la Chance Mode Italia, gestore delle scommesse nei Gran Premi di Formula 1. Chance è guidata da Luciano Consoli, architetto già comunista, finanziatore de «la Voce» di Montanelli e poi ideatore della dalemiana Red Tv. La controllata Formula Bingo Servizi ottiene dal governo italiano il «chiavi in mano» per poi concedere le sale alle imprese. Il presidente della società è nientemeno che Vincenzo Scotti, ministro degli Interni rimosso ai tempi delle stragi. L’avventura però non ha un lieto fine: nel gennaio del 2004 Formula Bingo fallisce con sette milioni di euro di debito.

La London Court viene poi ceduta a Edoardo Lupi, originario di Varazze, già consigliere di amministrazione del CoRiBa, consorzio nato nel 1999 per occuparsi della «ricostruzione dei Balcani» e finito in liquidazione nel 2002. Il nuovo nome della London è Link Consulting Partners. Tra i consiglieri figura Salvatore Castellaneta, sindaco revisore della Milano Pace, l’immobiliare dell’onnipresente Roberto De Santis. Tutto continua a ruotare intorno a figure vicine a D’Alema.

La scalata a Telecom benedetta da D’Alema

Nel 1998, mentre a Roma nasce la London Court, a Siena il Monte dei Paschi lancia un’Offerta pubblica di acquisto (Opa) sul 70 per cento del capitale di Banca agricola mantovana (Bam). Nell’operazione da 1,5 miliardi di euro, Mps incrocia i destini di due soci di peso in Bam: Roberto Colaninno ed Emilio «Chicco» Gnutti, imprenditore bresciano nato nel settore degli elettrodomestici e cresciuto nell’alta finanza.

Il vettore di Gnutti è Holding Partecipazioni Aziendali (Hopa), dal 1995 società per azioni, controllata col 10 per cento tramite la sua Gp Finanziaria Spa e partecipata da un’ottantina di imprenditori lombardi, veneti ed emiliani. Nel 1999 Hopa si fonde con un’altra finanziaria del raider bresciano, Fingruppo Holding Spa, che ingloba il 30 per cento delle azioni. Tra i soci spiccano Unipol, Monte dei Paschi, Banca agricola mantovana, Chase Manhattan Bank, Fgf del presidente del Bologna Gazzoni Frascara, Finsthal del gruppo Falck e Antonveneta.

Sempre nel 1999 Colaninno, Gnutti e alcuni soci della Bam formano una cordata di 180 imprenditori in grado di supportare Olivetti nell’assalto a Telecom. La rete telefonica privatizzata, fino a quel momento controllata dall’Ifi della famiglia Agnelli con un pacchetto dello 0,6 per cento, è protetta dalla golden share, ossia il diritto di veto del ministero del Tesoro, il quale però non si presenta all’assemblea decisiva degli azionisti indetta per decidere le contromisure alla scalata. Il 19 febbraio il premier D’Alema esplicita un gradimento inopportuno definendo Colannino e soci «capitani coraggiosi». Il presidente di Telecom Franco Bernabè spiana la strada alla cordata, rinunciando a ricorrere al Tar contro l’interpretazione restrittiva della passivity rule, la norma della Consob che consente di bloccare un’Opa ostile.

La scalata, ovvero l’acquisizione della maggioranza delle azioni tramite un’offerta pubblica a tutti i soci, è realizzata da una società controllata da Olivetti, la Tecnost, e finanziata per 61.000 miliardi di vecchie lire da obbligazioni e da varie banche. Mps e Mediobanca non fanno mancare il proprio appoggio. Cesare Geronzi, allora vicepresidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca, rivelerà i rapporti strettissimi tra il timoniere Enrico Cuccia e il premier: «Cuccia poteva vedere in D’Alema un uomo di governo, libero dai pregiudizi di altri uomini di governo che, come Prodi, avevano una storia politica e personale diversa, legata a un mondo, la sinistra Dc, da sempre ostile a Mediobanca».288

Nel giugno del 1999 i «capitani coraggiosi» si aggiudicano il 51,02 per cento della compagnia telefonica nazionale. La loro cassaforte è Bell, società lussemburghese controllata dalla Hopa di Gnutti. Bell, che porta in pancia il 20 per cento delle azioni di Olivetti, risulta fondata da una società chiamata Oak Fund con sede alle Cayman. Il nome Oak («quercia» in inglese) incuriosisce, ma il gestore Giorgio Magnoni, un finanziere di grande esperienza, respinge qualsiasi associazione con il simbolo dei Ds: «Quando creammo il fondo pensai di dare un nome che evocasse la solidità dell’investimento, un simbolo, la quercia appunto […]. Escludo in modo totale e assoluto, almeno fino a quando sono stato il gestore, cioè fino al settembre 2000, che i soldi del fondo siano stati distratti per fini diversi da quelli per cui è stato costituito dieci anni fa: fare investimenti in aziende. Tra l’altro non abbiamo investito solo nell’operazione Telecom».289

Giuliano Tavaroli, ex capo della security Telecom condannato per aver coordinato un network di spionaggio illegale interno ed esterno al gruppo,290 racconta ai magistrati milanesi di tangenti in cambio del via libera alla scalata, facendo riferimento a un dossier su un conto londinese dell’Oak Fund. L’ipotesi non troverà mai alcun riscontro.

Nel 2001 Telecom passa di mano. Olimpia, controllata dalla Pirelli di Marco Tronchetti Provera e con soci di minoranza Benetton, Banca Intesa e Unicredit, compra il 23 per cento delle azioni. Nelle casse di Bell entrano 1,5 miliardi di euro per effetto di uno scambio nettamente favorevole che valuta 4,175 euro le azioni Olivetti, quotate 2,22 in Borsa. L’affare si chiude bene anche per due personaggi solo apparentemente collaterali: il presidente di Unipol Consorte e il suo vice Ivano Sacchetti. La coppia incassa una parcella di ben 18,5 milioni di euro da Hopa per la consulenza relativa all’acquisto di azioni Telecom. La lussemburghese Bell, per l’evasione fiscale sull’enorme plusvalenza, viene poi sanzionata dall’Agenzia delle entrate.

In questa complessa vicenda il legame tra finanza e politica è intrinseco. Gnutti frequenta a pieno titolo i salotti «rossi»: per qualche tempo è consigliere di amministrazione di Unipol e del suo polmone finanziario Finsoe, dal 2003 al 2005 è vicepresidente del Monte dei Paschi di Siena. Nella sua finanziaria, Hopa, sono presenti il fundraiser della fondazione Italianieuropei Vincenzo Morichini e i vertici di Italbrokers.

Il momento cruciale scocca nella primavera-estate del 2005, con la madre di tutte le operazioni: la scalata di Unipol alla Banca nazionale del Lavoro.

Unipol, scalata illegale a Bnl

Giovanni Consorte, per amici e compagni Gianni, incarna il nuovo dna della sinistra d’affari. Originario di Chieti ma bolognese d’adozione, è un ingegnere chimico che ha mosso i primi passi in Montedison. Dopo una breve esperienza nella Lega delle cooperative, Consorte per quasi un trentennio occupa ruoli di primo piano in Unipol, l’assicurazione rossa con sede a Bologna. Dal 1979 scala gli uffici del grattacielo di via Stalingrado, fino ad arrivare al vertice. Il 28 dicembre 2005, il giorno dell’addio, il «compagno Gianni» lascia 300 milioni di utile con un patrimonio netto di 6,2 miliardi e resta un simbolo della Bologna vincente. Riesce persino a salvare la società di calcio rossoblu dal fallimento.

Le sponde politiche di Consorte sono i dalemiani: con il tesoriere Sposetti ha ripianato parte dei debiti dei Ds, con D’Alema e Latorre parla dell’obiettivo: la Banca nazionale del Lavoro, controllata da un patto fra Generali, Diego Della Valle e Banco Bilbao Vizcaya Argentaria (Bbva).

Il feeling è in particolare con Chicco Gnutti, non solo per la consulenza dorata sull’affare Telecom. Gli intrecci tra gruppo bolognese e bresciano sono scatole cinesi inestricabili. Negli anni Unipol arriva a possedere il 7,1 dell’Hopa di Gnutti, che a sua volta raggiunge il 20 per cento di Finsoe, la holding che controlla Unipol.

Consorte stringe rapporti anche con Gianpiero Fiorani, amministratore delegato della Banca popolare di Lodi, protagonista della scalata ad Antonveneta, e con l’immobiliarista Stefano Ricucci, facoltoso odontotecnico di Zagarolo dalle fortune tanto rapide quanto opache, che con la sua cordata punta a Rcs, la casa editrice del «Corriere della Sera».

Il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, che dovrebbe vigilare, chiude un occhio sull’assalto di Unipol alla Bnl. Gli spagnoli del Bbva, partendo da una dote del 14,75 per cento, puntavano ad assumerne il controllo con il lancio, a fine marzo del 2005, di un’Opa da 6,5 miliardi. Invece Unipol, che deteneva solo l’1,99 per cento delle quote, accumula azioni tramite una serie di sofisticate operazioni occulte. Secondo l’accusa i prestanome di Gianpiero Fiorani e i cosiddetti contropattisti – Stefano Ricucci, Gaetano Caltagirone, Danilo Coppola e Giovanni Statuto – mentre tentano di scalare Antonveneta e Rcs, sbarrano la strada al Banco di Bilbao in Bnl. Fazio sonda l’interesse del nome altisonante degli immobiliaristi: Caltagirone. L’11 maggio e il 6 giugno Unipol chiede a Banca d’Italia di poter salire fino al 9,9 per cento e poi al 14,99, col pretesto di difendere la partecipazione in Bnl Vita (polizze vita), nascondendo alla Consob la reale situazione. Il 18 luglio, quando Unipol comunica l’Opa agli investitori, sta già controllando oltre il 50 per cento delle azioni, benché la legge imponga il lancio alla soglia del 30.

In seguito a esposti del Banco di Bilbao, la Procura di Roma avvia un’indagine a carico di ignoti, ma i pm milanesi Eugenio Fusco e Giulia Perrotti, già impegnati nell’inchiesta su Gianpiero Fiorani, lavoravano anche sul filone Bnl. All’inizio del 2006, con le dimissioni di Consorte e del governatore Fazio, palazzo Koch stronca le aspirazioni di Unipol e consegna di fatto la Banca nazionale del Lavoro ai nuovi competitor, i francesi del Bnp Paribas.

Lo stop alle due scalate bancarie risale al sequestro preventivo, disposto il 1° agosto 2005 dal gip di Milano Clementina Forleo, di 94 milioni di euro di azioni rastrellate in Antonveneta da Fiorani e alleati bipartisan: da Magiste di Ricucci a Unipol e Fingruppo di Gnutti. L’ingente somma è stata poi riutilizzata a fini sociali, per la scuola pubblica. Nel motivare il provvedimento, il gip sottolinea: «Dalle intercettazioni emerge l’esistenza di accordi riservati in ordine a entrambe le scalate bancarie. Accanto agli atti di pirateria finanziaria posti in essere dagli attuali indagati viene drammaticamente alla luce un sistema istituzionale gravemente malato, restio a prendere le distanze da logiche di favori e favoritismi, non certo consone ai capisaldi costituzionali».291

Alcune telefonate svelano che Francesco Castellano, allora presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano, si incontrava segretamente a Bologna con Consorte ed era in contatto con il procuratore aggiunto di Roma Achille Toro. La Procura di Perugia, che per competenza riceve gli atti dalla capitale con qualche mese di ritardo, archivia il caso. Si verificano fughe di notizie e violazioni del segreto investigativo, tra cui quella relativa alla pubblicazione della telefonata in cui Fassino chiede a Consorte: «Abbiamo una banca?».

Il 14 luglio 2005 il top manager di Unipol riceve una telefonata da D’Alema che lo avvisa: «Forse ti è arrivata la voce, diciamo… Devo farti un elenco delle prudenze che devi avere… Sì. Delle comunicazioni». Secondo la difesa del presidente dei Ds si tratta «delle comunicazioni istituzionali da dare agli organi di controllo», ma l’impressione è che D’Alema cerchi di far sapere a Consorte che il suo telefono è intercettato. L’assicuratore informa Latorre della necessità di vedersi di persona per «dei consigli».

La partecipazione «politica» è senza precedenti. La pubblica accusa inserisce nel fascicolo 73 telefonate in cui si odono le voci di tre parlamentari di Forza Italia e di tre Ds a colloquio con gli intercettati: il senatore azzurro Luigi Grillo conversa con Gianpiero Fiorani e la moglie del governatore della Banca d’Italia Cristina Rosati (non indagata); i colleghi di partito Romano Comincioli e Salvatore Cicu dialogano con Stefano Ricucci. Per quanto concerne la sinistra, il meno informato risulta il segretario dei Ds Piero Fassino, che ripete più volte le domande a Gianni Consorte sui meccanismi delle operazioni. Il presidente di Unipol è più «sul pezzo» con Nicola Latorre. Il 6 luglio 2005 Consorte racconta al senatore barese che i contropattisti, fondamentali con il loro 27,5 per cento di azioni in Bnl, sono intenzionati a vendere ma stanno alzando il prezzo:

Consorte: «Loro [gli immobiliaristi, nda] stanno provando a rilanciare… però hanno capito che non c’è spazio… Adesso il problema qual è? Queste quote le devono comprare terzi».

Latorre: «E certo… non potete prenderle voi».

Consorte: «Se non accettano vuol dire che hanno, cosa di cui ho gli elementi, trattato con gli spagnoli… Quindi io domani ho l’incontro con loro e ti dico come va a finire».

Latorre: «Ma che deve fare una telefonata Massimo… all’Ingegnere [Caltagirone, nda]?».

Consorte: «È meglio che Massimo fa una telefonata. Perché, a questo punto, se le cose non vengono fatte, si sa per colpa di chi… Massimo fa una telefonata e a quel punto abbiamo le prove che questi hanno lavorato su due fronti… Non abbiamo i soldi per farla… Che poi non è vero neanche quello, non è che non abbiamo i soldi per farla, è che noi non possiamo farla se no ci accusano di aggiotaggio e di insider, capito?».

Non c’è conferma della telefonata di D’Alema a Caltagirone, ma del piano di Consorte sì: il pacchetto azionario degli immobiliaristi finirà nelle mani di tre banche estere (Credit Suisse, Deutsche Bank e Nomura) con un’opzione d’acquisto a favore di Unipol. Il 7 luglio Consorte spiega a Latorre che il bersaglio è vicino ma, dice il presidente di Unipol, «adesso dovete darmi una mano a trovare i soldi». Nella stessa giornata Stefano Ricucci rassicura Latorre: «Noi abbiamo dato la nostra disponibilità». E il giorno seguente conferma: «Diglielo a Gianni [Consorte, nda] che gli abbiamo fatto ’sto regalo… su un piatto d’argento glielo abbiamo servito».

Alle 23.18 del 7 luglio viene intercettata una chiamata di Consorte a Latorre, che poi passa il telefono a D’Alema:

Latorre: «Ah, te l’ho detto, firmo io le fideiussioni. Non rompere, stai tranquillo».

Consorte: «Ma tu non sei credibile con i soldi, non c’hai una lira… tu mi porti solo debiti».

Latorre: «Se c’è una cosa che non ti porto sono i debiti».

Consorte: «Senti, hai parlato con Massimo?».

Latorre: «Sì, ma lui domani deve andare a Massa Carrara».

Consorte: «Domani vado in Consob. Incontro le cooperative… ci devono dare ancora un po’ di soldi… Se me li danno… eh… andiamo avanti».

Latorre: «Partiamo […]. Se vuoi ti passo Massimo».

Consorte: «Dai, passamelo». (Ride.)

D’Alema: «Lei è quello di cui parlano tutti i giornali…».

Consorte: «Guardi, la mia più grande sfortuna… Io volevo passare inosservato, ma non riesco a farcela».

D’Alema: «Eh, inosservato, sì…».

Consorte: «Massimo, ti giuro, il mestiere che faccio io, più si passa inosservati e meglio è… Niente, Massimo, sto provando a farcela… Con l’Ingegnere abbiamo chiuso l’accordo questa sera…».

D’Alema: «Ah».

Consorte: «Nel senso che loro ci danno tutto. Adesso mi manca un passaggio importante e fondamentale. Sto riunendo i cooperatori perché sono tutti gasati… Gli ho detto: però dovete darmi i soldi, non è che potete solo incoraggiarmi».

D’Alema: «Di quanto hai bisogno ancora?».

Consorte: «Di qualche centinaio di milioni di euro».

D’Alema: «E dopodiché, fate da soli?».

Consorte: «Sì, Unipol, cinque banche, quattro popolari e una banca svizzera».

D’Alema: «Ah, ah».

Consorte: «Eh, eh […]. E andiamo avanti, facciamo tutto noi. Avremo il 70 per cento di Bnl».

D’Alema: «Ho capito».

Consorte: «Secondo te, Massimo, ci possono rompere i c… a quel punto?».

D’Alema: «No, no… Sì, qualcuno storcerà il naso, diranno che tu sei amico di Gnutti e Fiorani […]. Va bene. Vai avanti, vai!».

Consorte: «Massimo, noi ce la mettiamo tutta».

D’Alema: «Facci sognare! Vai!».

Consorte: «Anche perché se ce la facciamo, abbiamo recuperato un pezzo di storia, Massimo, perché la Bnl era nata come banca per il mondo cooperativo».

D’Alema: «E si chiama “del Lavoro”, quindi possiamo dimenticare?».

Consorte: «Esatto… È da fare uno sforzo mostruoso, ma vale la pena a un anno dalle elezioni».

D’Alema: «Va bene, vai…».

Il 14 luglio alle 9.26, sempre tramite il telefono di Latorre, D’Alema parla del deputato Udc Vito Bonsignore, azionista di Bnl, che Consorte vorrebbe avere dalla sua parte. Dalla telefonata si apprende che Bonsignore chiede un tornaconto politico:

D’Alema: «È venuto a trovarmi Vito Bonsignore…».

Consorte: «Sì. Ci ho parlato ieri… Uhm».

D’Alema: «Che dà… un consiglio».

Consorte: «Sì, se rimanere dentro o vendere tutto».

D’Alema: «No, voleva dirmi… voleva sapere se io gli chiedevo di fare quello che tu gli avevi chiesto di fare… oppure no». (Ridacchia.)

Consorte ride.

D’Alema: «Che voleva alcune altre cose… diciamo».

Consorte: «Ecco immaginavo. Non era disinteressato».

D’Alema: «A latere su un tavolo politico…».

Consorte: «Eh, eh».

D’Alema: «Ti volevo informare che io ho… ho regolato da parte mia».

Consorte: «Eh».

D’Alema: «Lui mi ha detto che lui resta, ha detto che resta…». Consorte: «Ah, sì. Uhm. Bene».

D’Alema: «È disposto a concordare con voi un anno, due anni…». Consorte: «Uhm, uhm».

D’Alema: «… il tempo che vi serve».

Consorte: «Sì, sì. No, ma io lì sono stato… In effetti, ho detto: “Guardi, decida come ritiene meglio – dico – se lei vuole uscire, noi… onoreremo gli impegni subito come facciamo con gli altri, se lei rimane ci fa piacere…”».

D’Alema: «Eh… Gianni, andiamo alla… al sodo, se vi serve resta…».

Consorte: «Sì, sì, sì, sì. E basta».

D’Alema: «Poi… noi non ci siamo parlati eh?».

Consorte: «No, assolutamente…».

D’Alema: «Però ecco…». (Ridacchia.) «Ecco, però ti volevo dire questo.»

Consorte: «Lunedì… lunedì lanciamo l’Opa. Abbiamo finito».

Nel corso della giornata Latorre informa il presidente di Unipol di aver ricevuto una chiamata da Caltagirone, il quale «vuole essere amico nostro». Il 17 luglio Consorte annuncia sia al segretario Fassino sia a Latorre il lancio dell’Opa per il giorno seguente.

Quando scoppia la polemica sui giornali, Fassino e D’Alema difendono Ricucci e Gnutti, considerandoli alla stregua di capitani d’industria, mentre Latorre trova questa motivazione per lasciare al suo posto il governatore Fazio: «Chiedere le dimissioni è destabilizzante». Piero Fassino rivendica: «È normale che un segretario di uno dei principali partiti italiani interloquisca con gli esponenti più rappresentativi del mondo economico e finanziario. Parlo normalmente con Tronchetti Provera, Montezemolo, De Benedetti. Non credo sia motivo di scandalo».292

Le telefonate sono un’istantanea della trasformazione degli ex comunisti. Due anni dopo, mentre i dialoghi deflagrano interamente sui media, D’Alema decide di intervenire nella trasmissione Ballarò: «È del tutto normale che la classe politica si occupi di fusioni bancarie, se non vengono commessi reati. Anzi, chi si occupa di politica ha il dovere di occuparsi di tutto ciò che interessa la vita del paese […] Voi credete che le grandi operazioni che si fanno in Gran Bretagna o in Spagna non abbiano l’interesse della politica?». Il leader Ds ricorda di essere rimasto «certamente ferito dal fatto che Consorte aveva guadagnato tanti soldi. Ma se si tratta di un reato bisogna attendere la sentenza: oggi si parla di Consorte come di Al Capone». Quando il conduttore Giovanni Floris, circa la sua telefonata con il presidente di Unipol, osa domandare qual è la contropartita politica che chiedeva Bonsignore, D’Alema taglia corto: «Ma lei non si preoccupi».293 I telespettatori e gli elettori dei Ds avrebbero il diritto di saperlo, ma nessuno se ne preoccuperà più.

Forleo, attaccata e isolata anche a sinistra

Il Potere, di destra e di sinistra, si schiera compatto quando qualcuno, applicando la legge, osa ostacolarne i piani. Un caso emblematico è l’isolamento del gip di Milano Clementina Forleo, oggetto di una serie di ripercussioni professionali e attacchi politico-giudiziari da quando è giudice delle inchieste sulle scalate bancarie. Come se non bastasse, in quel periodo subisce una serie di gravi intimidazioni.

I genitori di Forleo muoiono il 25 agosto 2005 in un incidente stradale in provincia di Brindisi. Lo schianto è fortuito, ma desta impressione che sia stato preannunciato da una lettera anonima, seguita da un’altra che prospettava a Forleo un’identica fine. La giudice ha ricevuto un proiettile alla vigilia della puntata di Annozero del 25 ottobre 2007, seconda e ultima in cui è stata invitata come ospite. Oltre al danno, s’è aggiunta la beffa di essere denunciata per ingiuria da un tenente dei carabinieri di Brindisi addetto alla sua tutela, soltanto per avergli chiesto conto della mancata acquisizione dei tabulati dell’utenza dei genitori, colpiti dall’incendio della masseria e da telefonate mute prima dell’incidente mortale. Il 4 dicembre 2009 la giudice è rimasta coinvolta in uno strano incidente in autostrada mentre tornava a Milano dopo la giornata in tribunale a Cremona: la sua macchina ha sbandato contro il guardrail a causa di un pneumatico sgonfio mentre un’auto tentava un sorpasso azzardato. Non ci sono prove che questi fatti siano collegati, ma le coincidenze restano inquietanti. In più, il magistrato è stato privato di qualsiasi forma di protezione.

Gli attacchi politici, invece, piombano su Forleo con una puntualità svizzera dopo la trascrizione delle 73 telefonate degli «scalatori» indagati a colloquio con i sei parlamentari. Quasi tutto l’arco costituzionale, terrorizzato dalla pubblicazione sui giornali, ignora o più probabilmente finge di non sapere che il Codice di procedura penale prevede il contraddittorio delle parti, previa conoscenza delle conversazioni. Il 6 giugno 2007 i presidenti delle Camere Fausto Bertinotti e Franco Marini esprimono preoccupazione. Lo stesso giorno ma segretamente, secondo il racconto del senatore Ds Ferdinando Imposimato, alcuni parlamentari dalemiani chiedono al ministro della Giustizia Clemente Mastella di inviare gli ispettori al Tribunale di Milano. Cinque giorni dopo Guido Calvi, avvocato di D’Alema, arringa a mezzo stampa: «È augurabile che la Procura della Repubblica di Milano, avanti allo scempio che sta avvenendo nel Palazzo di Giustizia, intervenga, come è suo dovere, per impedire che siano commessi fatti evidentemente qualificabili come reati e prosegua questa sconcertante sequela di momenti indecorosi per la giustizia e per il paese».294

Il 20 luglio 2007 Forleo, su richiesta della procura, chiede al parlamento l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni, in ossequio alla legge Boato,295 non solo a carico dei privati ma anche «per rendere possibile la procedibilità penale nei confronti dei suoi membri […], complici di un disegno criminoso di ampia portata che si stava consumando proprio ai danni dei piccoli e medi risparmiatori in una logica di manipolazione e lottizzazione del sistema bancario e finanziario nazionale».

Gli attacchi di Violante e D’Alema

Il «disegno criminoso» è il concorso nel reato di aggiotaggio informativo296 contestato a Gianni Consorte, i due membri sono gli onorevoli D’Alema e Latorre. La richiesta suscita una levata di scudi della politica. Il 23 luglio 2007 il capo dello Stato Giorgio Napolitano, durante un plenum del Csm, rinnova «il richiamo a non inserire in atti processuali valutazioni e riferimenti non pertinenti e chiaramente eccedenti rispetto alle finalità dei provvedimenti». In seguito precisa che non si riferiva alla vicenda delle scalate. Il dominus dei Ds in materia di giustizia, Luciano Violante, sentenzia: «Il gip ha commesso un abuso».297 D’Alema evoca un’azione disciplinare: «La valutazione di tale condotta potrà, se del caso, essere adeguatamente valutata da altri organi istituzionali». Le azioni nei confronti della giudice, puntualmente, arrivano. Quella di tipo disciplinare, che giudica «eccessivo» il provvedimento del gip, viene promossa il 28 novembre 2007 dal procuratore generale della Cassazione Mario Delli Priscoli, ma ben presto finisce nel nulla. Forleo rivela che il senatore Ds Ferdinando Imposimato, ex giudice antiterrorismo e suo amico, gliel’aveva anticipata dopo una chiamata urgente per incontrarla a Roma l’8 settembre 2007. Imposimato nega mentre il giornalista Oliviero Beha e l’ex deputato Elio Veltri confermano di aver ricevuto le confidenze del senatore circa pressioni di ambienti dalemiani sul pg della Cassazione e sul presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. I quali si affrettano a smentire.

All’interno del Csm, dopo un’iniziale pratica a tutela, si compie una duplice inversione a U. Dapprima il Consiglio superiore della magistratura contesta a Forleo le dichiarazioni rese nella prima puntata di Annozero del 4 ottobre 2007, in cui si era limitata a parlare della «solitudine del giudice» e di pressioni dei poteri forti, difendendo il pm di Catanzaro Luigi de Magistris, sotto tiro per le sue inchieste. In seguito il Csm muta l’oggetto del procedimento, che diventa per «incompatibilità ambientale incolpevole» e finisce per incentrarsi su presunti problemi conflittuali e «caratteriali», fisiologici in ogni ambiente di lavoro e slegati dall’attività giurisdizionale.

Il Csm dunque costringe Forleo a ripercorrere anche i momenti successivi alla minaccia con il proiettile e interpella diversi colleghi. «Il pm milanese Orsi riferiva che […], nel settembre 2007, la collega gli disse di aver visto il dottor D’Ambrosio a pranzo con i colleghi Fusco, Greco e Perotti ipotizzando che l’ex procuratore oggi senatore Ds avesse potuto, incontrando i colleghi coassegnatari, influire sulle indagini in corso nel procedimento Bnl.»298

Forleo racconta che l’allora procuratore di Milano Mario Blandini l’aveva convocata per parlarle della chiamata di un personaggio preoccupato per «telefonate imbarazzanti per il nascente Partito democratico». Blandini cerca di smentire ma cade in errore, affermando che era stata Forleo ad andare a riferirgli di telefonate imbarazzanti nei brogliacci: il gip non poteva esserne a conoscenza in quanto la procura non aveva ancora trascritto le intercettazioni.

Alla vigilia dell’istruttoria Letizia Vacca, vicepresidente della prima commissione del Csm in quota Comunisti italiani, bolla come «cattivi magistrati» de Magistris e Forleo e poi non si astiene dal voto. La decisione di trasferire il gip a Cremona viene sancita da una maggioranza bulgara il 22 luglio 2008, con la sola opposizione dei membri togati iscritti a Magistratura indipendente. Com’era prevedibile, nell’aprile del 2009 il Tar annulla il trasferimento, sottolineando che il provvedimento del Csm si pone «al di fuori del parametro normativo»: non è stata data «un’esauriente spiegazione» sul perché l’indipendenza e l’imparzialità del gip sarebbero state messe in dubbio dalle sue dichiarazioni; il procedimento non doveva seguire la strada amministrativa del trasferimento d’ufficio, ma quella disciplinare; ancor prima, la mancata astensione della consigliera Vacca avrebbe prodotto «un’alterazione del procedimento».299

Le «giornate dell’odio» contro Forleo secondo il gip Salvini

L’Anm, a cui Forleo è iscritta pur non aderendo ad alcuna corrente, attacca la pronuncia dei giudici amministrativi. Il sindacato delle toghe parla persino di un’interpretazione delle norme che impedirebbe al Csm di sanzionare le «opacità e le zone grigie» che appannano il prestigio della magistratura. Edmondo Bruti Liberati, procuratore aggiunto di Milano, protesta sulla mailing list dei colleghi.

Il reintegro di Forleo negli uffici meneghini si concretizza soltanto nell’aprile del 2012, dopo la conferma al Consiglio di Stato e la rinuncia del Csm ad avviare il procedimento disciplinare tradizionale. Ma le ripercussioni non finiscono mai. Anna Finocchiaro ha denunciato per diffamazione Forleo, che aveva riferito la confidenza di Ferdinando Imposimato sulla riunione presso il suo ufficio con Nicola Latorre e Guido Calvi per spingere il guardasigilli Mastella a ordinare un’ispezione ministeriale. Il senatore Latorre ha citato in sede civile la giudice per un’intervista a «Panorama» in cui parlava del suo coinvolgimento nell’inchiesta.

Nel frattempo viene alla luce un fatto nuovo. Il 19 giugno 2011 il gip di Cremona Guido Salvini scrive una lettera sulla mailing list di Magistratura indipendente per affermare di essere stato, all’epoca in cui prestava servizio al Tribunale di Milano, «testimone diretto dello sviluppo dell’azione ambientale contro la collega [Clementina Forleo, nda]» e di «aver assistito a scene desolanti quali l’indizione con passa parola di riunioni pomeridiane in alcune stanze per discutere la strategia contro la collega, guidate dai maggiorenti dell’ufficio tra cui un paio di colleghi “Verdi” [Movimento per la giustizia, nda] più rancorosi di tutti, come spesso accade, anche se del tutto estranei al caso». Salvini aggiunge di essersi dissociato da tali iniziative, che gli ricordavano le «giornate dell’odio» descritte da George Orwell nel romanzo 1984, e commenta: «Non ci si comporta così tra magistrati ed è facile e privo di rischi accerchiare una persona in un ufficio e magari in questo modo anche portarla a sbagliare, visto anche il carattere poco diplomatico della vittima».

Il sostituto procuratore generale della Cassazione Carmelo Sgroi, il 12 luglio 2012, archivia il caso senza prima aver acquisito la testimonianza orale di Salvini, con la singolare motivazione della genericità della sua denuncia scritta. Il Csm e l’Anm non intervengono neppure con un comunicato. Nessun organo di informazione, fatta eccezione per un’intervista di Forleo al settimanale «Oggi», si è occupato della vicenda. Eppure delle due l’una: o Salvini ha mentito e dunque merita una punizione, o vanno accertate le gravissime responsabilità di un complotto di magistrati ai danni del gip di Milano che indaga sulle scalate bancarie. Un giudice che, applicando l’articolo 3 della Costituzione repubblicana, ha terremotato il Sistema.

Indagabili mai indagati

Il processo per la scalata a Bnl ha un percorso accidentato fino alla fine. Intanto esistono due distinti procedimenti: quello incardinato a Roma per i preliminari rastrellamenti di azioni va in fumo per prescrizione. A Milano, dopo il patteggiamento di Fiorani, nell’ottobre del 2011 il tribunale conferma l’impianto accusatorio, condannando in primo grado per aggiotaggio e insider trading 13 imputati su 21, tra cui Fazio, Consorte, Sacchetti, Caltagirone, Bonsignore e Gnutti.

Le motivazioni indicano in Antonio Fazio il «regista occulto» dell’operazione e in Consorte l’«assoluto protagonista della tentata scalata», riconoscendo che Vito Bonsignore ha assunto «un ruolo attivo e di grande rilievo in tutta la vicenda».300

Il 30 maggio 2012 la seconda sezione penale della Corte d’appello di Milano ribalta la situazione, non ritenendo provato il reato di aggiotaggio perché «il fatto non sussiste». Consorte e Sacchetti sono riconosciuti colpevoli solo di insider trading e ostacolo agli organi di vigilanza per la comunicazione al telefono di notizie riservate. Tutti gli altri imputati sono assolti da ogni addebito. Il 7 dicembre 2012 la Cassazione conferma le condanne per insider trading e annulla le assoluzioni relative all’aggiotaggio, rinviando le carte per un nuovo appello. Ma il 19 dicembre scatta la tagliola della prescrizione: lo stop, dunque, si è rivelato decisivo. A ogni modo, nessuno dei personaggi coinvolti – condannati e prescritti – sconta la pena in cella.

Per completare le indagini, però, occorreva accertare le eventuali responsabilità dei parlamentari, nella fattispecie D’Alema e Latorre, secondo il gip Forleo «complici» del piano di Consorte. Per quanto riguarda le famigerate telefonate tra politici e raider, nel novembre del 2007 la sentenza della Corte costituzionale, dimezzando la legge Boato, ha dato il via libera all’utilizzo processuale dei dialoghi che riscontravano le accuse a Consorte e Ricucci.301

Nell’estate del 2007 Veltroni aveva invitato il suo partito a votare «sì» all’uso delle intercettazioni riguardanti i Ds, mentre Latorre aveva dichiarato di rimettersi alla volontà del Senato.

Salvati D’Alema e Latorre

Per quanto concerne D’Alema, la Giunta delle elezioni e delle immunità della Camera ricorda che all’epoca delle telefonate il leader Massimo era parlamentare europeo, per cui la richiesta va presentata a Strasburgo, non a Roma. Nel merito tuttavia sottolinea la distinzione tra «utilizzabilità investigativa» e «utilizzabilità probatoria» delle intercettazioni. Ciò significa che i pm, sulla base di quelle conversazioni, sono autorizzati a iscrivere comunque Massimo D’Alema sul registro degli indagati. E soltanto in un secondo momento, alla soglia del processo, dovranno chiedere il placet parlamentare previsto dalla legge Boato. La risposta della Camera arriva sul tavolo del presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro, che la gira a Clementina Forleo. La gip, il 15 febbraio 2008, emette una nuova ordinanza ricordando l’interpretazione della Giunta. La Procura di Milano però non procede con le indagini ma chiede al parlamento europeo l’autorizzazione a usare le telefonate di D’Alema. Il 18 novembre Strasburgo risponde in modo negativo.

Per Nicola Latorre, il 29 maggio 2008 la Giunta del Senato restituisce gli atti al tribunale meneghino, che li trasmette alla procura. Il procuratore capo Bruti Liberati tira fuori dal cassetto la non-risposta dei parlamentari il 29 luglio, proprio nei giorni in cui il gip competente Clementina Forleo è assente per malattia a causa di un piccolo incidente domestico. Piero Gamacchio, gip di turno per le urgenze, reitera al parlamento la richiesta per l’uso delle intercettazioni del senatore Latorre, sostanzialmente identica alla precedente. Il relatore della Giunta del Senato Giampiero D’Alia (Udc) sottolinea che non ricorrono i presupposti per l’esame nel merito della domanda: l’uso di quelle telefonate può avvenire solo «per finalità diverse da quelle probatorie». In pratica, la procura avrebbe potuto indagare Latorre, come D’Alema, ma non l’ha fatto.

L’allora senatore Ds Gerardo D’Ambrosio, storicamente vicino ai pm milanesi, rispondendo a Liana Milella su «la Repubblica» del 23 luglio 2007, ha dichiarato: «Sono un garantista per eccellenza. Ma se dagli ascolti veniva fuori una complicità nei reati di Consorte l’iscrizione andava fatta, e se l’autorizzazione veniva negata si archiviava tutto».

Mps: partito e banca sono vasi comunicanti

Il rapporto tra postcomunisti e banche è conclamato nell’istituto di credito più antico del mondo. Stiamo parlando del Monte dei Paschi di Siena, terza banca italiana con 2900 filiali, 31.000 dipendenti, oltre sei milioni di clienti. Sorto come Monte di Pietà nella Repubblica di Siena, ha convissuto con i dominatori di ogni epoca: dalla dinastia fiorentina de’ Medici all’asburgico Granducato di Toscana, dal fascismo al monocolore rosso.

Nel borgo medievale che sembra una città-anfiteatro, destra e sinistra, finanza spregiudicata e ideale socialista si saldano nell’unione totalizzante per la banca, in quel senso di appartenenza a metà fra l’orgoglio autonomista e l’endemica opacità in cui si annidano poteri quali l’Opus Dei e la massoneria. Il direttore del «Corriere di Siena» Stefano Bisi è presidente del Collegio dei Maestri venerabili della Toscana: 110 logge e 3000 fratelli del Grande Oriente d’Italia. Bisi ama definire quello ruotante attorno al Monte dei Paschi un «groviglio armonioso» che produce solo benessere. In effetti la piccola Siena, con i suoi 55.000 abitanti, è un’isola felice, ottava in Italia per reddito pro capite (20.359 euro nel 2012).

Quell’armonia rischia di dissolversi dopo mezzo millennio con la crisi del Monte dei Paschi. Nei conti del 2011 l’istituto di credito registra 4,69 miliardi di netto negativo e per la prima volta pianifica migliaia di licenziamenti e tagli di filiali, mentre gli aiuti di Stato non allontanano lo spettro della nazionalizzazione. La Fondazione Mps ha un’esposizione di 350 milioni di euro, ma i debiti sarebbero stati nettamente superiori se non avesse venduto edifici storici, quote in Mediobanca e Cassa depositi e prestiti; e se nel 2012, come extrema ratio, non fosse stata costretta a cedere il 12,5 per cento di azioni della banca scendendo al di sotto della maggioranza assoluta.

Il tracollo del Monte dei Paschi – l’istituto bancario di Rocca Salimbeni e la fondazione di palazzo Sansedoni – ha posto sulla graticola un’intera classe dirigente. Un lustro di scelte incomprensibili, come l’acquisizione strapagata di Antonveneta e il tentativo di occultare le perdite coi derivati, ha provocato la prima forzosa uscita di scena dei vertici della banca e lo scioglimento del consiglio comunale.

Se i nodi a monte sembrano inestricabili, le recenti virate manageriali sono targate Partito democratico. Montepaschi infatti è l’unico colosso del credito a essere controllato dalla fondazione di riferimento, a sua volta nelle mani della politica. La responsabilità è della legge Amato-Ciampi del 1990,302 che ha trasformato gli enti bancari come le Casse di risparmio in società per azioni, ma il passo seguente dell’effettiva privatizzazione non è mai avvenuto per l’inerzia generale.

Nel consiglio della Fondazione Mps, otto membri sono espressione del Comune, cinque della Provincia, uno a testa di Regione, università e arcidiocesi. Dunque la sinistra, ininterrottamente al governo in Toscana, esprime 14 consiglieri su 16, con l’aggiunta intermittente dell’ateneo, che per anni ha schierato il rettore Luigi Berlinguer, senese doc e uomo di potere: già membro laico del Csm, poi europarlamentare e presidente del Comitato dei garanti del Pd.

La Fondazione è strumento di potere e di consenso: i 2,1 miliardi di euro elargiti complessivamente in sedici anni sono serviti a soddisfare bisogni ma anche a creare legami. Nel 2011 sono stati donati 126 milioni, dei quali 17 al Comune di Siena, 15,6 alla Provincia, 3,8 all’università, 1,3 alla Regione e 1,3 alle parrocchie. Una lunga lista di iniziative senza fini di lucro che ha sopperito anche ai tagli dei governi centrali nei settori più disparati, dal restauro alla ricerca medica. Ciò avviene in tutte le fondazioni italiane, ma in Mps il peso della fondazione è nettamente superiore in termini di partecipazione azionaria. E il legame con la politica è evidente. I dirigenti senesi, i manager e i consiglieri di controllate e piccole partecipate della banca versano contributi al Pd locale. Tutte scelte libere e personali, ma piuttosto diffuse.

Tra il 2002 e il 2005 l’ex vicepresidente Franco Bassanini ha dato 70.000 euro, il vicepresidente di Mps Capitale Service Saverio Carpinelli ha versato 176.000 euro. Giuseppe Mussari, per 10 anni al timone di fondazione e banca, ha finanziato i Ds e il Pd per complessivi 683.500 euro. Nello stesso lasso di tempo, in totale, il partitone ha ricevuto 1,5 milioni di euro da soggetti legati al Monte. Inoltre, come avviene nelle cooperative e nelle ex municipalizzate, diversi politici «trombati» alle elezioni hanno trovato una ricollocazione grazie alla banca.

Ancora nell’agosto del 2012 il cassiere del Pd Antonio Misiani scriveva ai tesorieri delle Unioni regionali e provinciali sulla nuova tipologia di gestione di contributi e quote associative sulla base della riforma del sistema di rimborsi elettorali: «La modalità che abbiamo individuato […] è l’apertura di conti correnti intestati al Partito democratico […]. A tale scopo abbiamo concluso una convenzione con il Monte dei Paschi di Siena, presente in ciascun capoluogo di provincia, che prevede il riconoscimento di un tasso di interesse creditore pari al 4 per cento lordo, nonché il contenimento delle commissioni e dei costi di gestione».303

Dunque il partito e la banca sono vasi comunicanti. L’istituto senese, come gli altri, assicura finanziamenti a 360 gradi: dalle parrocchie allo sport, dalle coop a Comunione e liberazione, senza scordare i media locali. Dal 1975 al 1983 concesse fiumi di prestiti a Silvio Berlusconi per la costruzione di Milano 2 e Milano 3. Inoltre il ragionier Giuseppe Spinelli ha utilizzato la filiale del Monte di Arcore per pagare negli anni circa 20 milioni di euro alle ragazze che partecipavano ai festini con Berlusconi.

L’ingresso formale del centrodestra in Mps risale al 2001, quando il sindaco di Siena Pierluigi Piccini, tra gli otto consiglieri della Fondazione di competenza comunale, ha nominato anche il segretario provinciale di Forza Italia Fabrizio Felici. Tre anni dopo Denis Verdini, plenipotenziario toscano del Pdl nonché proprietario del Credito cooperativo fiorentino, ha accusato Felici di non seguire i dettami del partito. Il riferimento in Mps per il centrodestra è dunque diventato Andrea Pisaneschi, avvocato e docente di Diritto. Entrato nel consiglio di amministrazione nel 2002, sei anni dopo Pisaneschi andrà a presiedere una banca cruciale per la storia bancaria senese e italiana: Antonveneta.

Consigli per gli acquisti

A cavallo del nuovo millennio il Monte dei Paschi ha aperto la stagione delle grandi acquisizioni con Banca agricola mantovana e la salentina 121 di De Bustis. Qual era il grande progetto della gauche caviar romana? La creazione di un «terzo polo bancario» nazionale assieme a Bnl. A sospingerlo era in particolare Massimo D’Alema, che a Siena poteva contare su Carlo Luigi Turchi, già revisore dei conti del Pci e nel medesimo ruolo al Monte dei Paschi fino alla morte nel 2004.

Il primo scontro tra il partito nazionale e il «sistema» locale si è registrato nel 2000 proprio sull’ipotesi della fusione con Bnl. Pierluigi Piccini, allora sindaco di Siena, racconterà del suo fallito approdo alla presidenza della Fondazione per un presunto veto trasversale: «Nell’estate del 2000 incontrai Massimo D’Alema, il quale mi fece chiaramente intendere che sarebbe stata un’opportunità per la banca acquisire Bnl. Ero tiepido a tale proposito perché volevo comprendere se l’operazione fosse veramente vantaggiosa per Siena. Questo atteggiamento ha determinato il veto».304

In seguito, l’ipotesi della fusione con Bnl è stata sostenuta anche da Unipol. Lo rivelerà Gianni Consorte in un’intervista: «Nell’aprile 2005 io e il vicepresidente Ivano Sacchetti abbiamo proposto a Mussari di fare lui l’operazione: un’Opa su Bnl in contanti che gli avrebbe permesso di arrivare attorno al 60 per cento e avere così il controllo della banca. Avevo calcolato che gli sarebbe costato 4,8 miliardi. Alla fine, Mussari avrebbe fuso Mps con Bnl e il Monte Paschi sarebbe diventato la più grande banca italiana. A noi avrebbe dato due o trecento filiali che avrebbero razionalizzato la sua rete e fatto crescere la nostra Unipol banca. Ero già d’accordo con l’allora governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Anzi, era stato lui a chiederci di fare l’operazione, così da fermare i baschi di Bbva, il Banco di Bilbao che aveva lanciato una Ops per conquistare Bnl. Loro pagavano con la carta, scambiando titoli, noi avremmo pagato cash. Avremmo vinto […]. Poi nel giugno 2005 chiedo a Mussari di venderci il loro pacchetto di Bnl: Montepaschi aveva un 4-5 per cento, se non ricordo male, tanto che esprimeva un uomo nel consiglio di amministrazione della banca romana. Mussari mi ha risposto ancora di no. Allora, tra il 1° e il 15 luglio 2005 – non un giorno prima – avvio contatti con gli uomini del cosiddetto contropatto Bnl, che non avevo mai visto prima, per acquistare le loro azioni Bnl».305

Il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio ha reso queste dichiarazioni ai magistrati che lo interrogavano sulla scalata di Unipol: «Le posso dire su questa questione, su Bnl, che sono venuti da me Fassino e altri a chiedere se si poteva fare una grande fusione Unipol-Bnl-Montepaschi. Io li ho ascoltati… Primissimi mesi del 2005 o fine 2004. Chi erano? Fassino… e Bersani […]. Di queste cose ne avvengono tante… Io, tra l’altro, pubblicamente nelle considerazioni finali del 2004, avevo detto: al consolidamento manca un’altra grande operazione. L’altra grande operazione era Bnl-Monte Paschi, che poi non si è potuta fare».306

Ma gli esponenti dei Ds più influenti sul «sistema Siena», Giuliano Amato e Franco Bassanini (di area socialista), erano contrari al progetto dalemiano. Pare che il timore maggiore fosse di finire sotto l’egida di Unipol. Infatti Mps non ha appoggiato Consorte nell’assalto a Bnl.

Per realizzare un grande gruppo bancario del Nord, l’istituto senese ha cercato di acquisire Antonveneta, finita nelle mani di Abn Amro nel 2006 e passata al Banco di Santander l’8 ottobre 2007. Poco dopo il Monte dei Paschi si è fatto avanti ufficialmente, consigliato dagli advisor Mediobanca e Merril Lynch: era l’ultimo treno per formare una banca sistemica nazionale, il terzo gruppo dopo le storiche fusioni di Unicredit con Capitalia e Banca Intesa con San Paolo di Torino. Anche la francese Bnp Paribas era interessata all’acquisto di Antonveneta e aveva offerto 7,5 miliardi. Lo sostiene Alessandro Daffina, amministratore delegato di Rothschild, all’epoca advisor del Santander: «Botin [presidente del Santander, nda] ci disse che aveva parlato con Mussari e gli aveva dato un aut-aut. O chiudiamo a nove subito o chiedo a voi e ai francesi un rilancio partendo da nove. Per questo Mussari passò in una notte da otto a nove miliardi».307

La mossa finale di Mussari, vicino ai poteri forti

La trattativa dell’anno fu condotta solo per telefono e senza una due diligence sulla situazione contabile di Antonveneta: Mps versò agli spagnoli circa 9,2 miliardi di euro in contanti. Nel biennio successivo ha pagato altri 7,6 miliardi di oneri per sostituire i finanziamenti concessi dal Santander alla banca padovana. In base ai calcoli del nucleo valutario della guardia di finanza, la Procura di Siena stima un’effettiva spesa, al netto della liquidità, di quasi 16,8 miliardi.

Questa costosa acquisizione è dipesa solo dalla erronea prospettiva di un profitto annuo ragguardevole o dietro si nascondevano interessi occulti? Va ricordato che in quel periodo non era ancora fallita la banca d’affari newyorkese Lehman Brothers (settembre 2008) che ha innescato il crollo dei titoli mobiliari mondiali, ma resta il fatto che l’operazione Antonveneta, a prescindere dagli eventuali profili penali della compravendita e dei successivi tentativi di occultare le perdite, rappresenta il punto di non ritorno per Siena.

Gli artefici sono innanzitutto il direttore generale Antonio Vigni, entrato nel 1972 in Mps come semplice dipendente, e Giuseppe Mussari, rampante avvocato di Catanzaro che ha afferrato la presidenza della Fondazione Mps nel 2001 e della banca nel 2006, e non l’ha mollata neppure quando, quattro anni dopo, è stato posto alla guida dell’Associazione bancaria italiana (Abi) attraverso un’elezione per acclamazione. Nella perfetta osmosi tra sinistra e centro, alla presidenza della Fondazione Mps nel frattempo era salito Gabriello Mancini, funzionario della Asl di Poggibonsi, storico esponente locale della Dc.

Sempre presente ai congressi dei Ds, Mussari intrecciava rapporti anche con Denis Verdini e Gianni Letta. In una governance da manuale Cencelli, oltre al «forzista» Andrea Pisaneschi, una posizione importante era quella del vicepresidente Gaetano Caltagirone, editore di «Messaggero», «Mattino» e «Gazzettino», nonché suocero del leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. Il presidente di Mps era molto apprezzato dai cattolici: in un procedimento penale è stato il legale difensore di monsignor Giuseppe Acampa, economo della Curia accusato di aver incendiato documenti sulla vendita di lasciti alla Chiesa. Il processo si è chiuso nel luglio del 2011 con l’assoluzione di Acampa, una vittoria dalla duplice valenza per l’avvocato-banchiere Mussari.

La coraggiosa denuncia di Raffaele Ascheri

Raffaele Ascheri, docente, scrittore e blogger, è stato il primo a denunciare il sistema senza il supporto di un editore, compilando una coraggiosa trilogia: ha dato alle stampe nel dicembre del 2007 La Casta di Siena, nell’aprile del 2009 Le mani sulla città e tre anni dopo Biografia non autorizzata di Giuseppe Mussari. Per tutta risposta è stato inondato di querele. Il 28 gennaio 2011 è stato condannato in primo grado a un risarcimento record: 90.000 euro in favore di Acampa, 70.000 all’arcivescovo Antonio Buoncristiani e 50.000 alla diocesi di Siena, più 30.000 euro di spese processuali. La Corte d’appello di Firenze ha sospeso l’esecutività della sentenza poiché il giudice che l’ha firmata, Giuseppe Cavoto, «risulta uscito dall’ordine giudiziario il 18 maggio 2010».308 Un fatto davvero raro, se non unico.

Nell’intervista che ci concede nel febbraio del 2013, Raffaele Ascheri riflette sui momenti cruciali del mondo che ruotava attorno a Mps: «L’inizio è il 1999, con l’acquisto della Banca 121, decotta, a un prezzo molto alto. La cosa clamorosa è che Vincenzo De Bustis della 121 viene messo a capo di Mps. Anche Mussari nasce dalemiano al 100 per cento; poi, nel 2005, quando D’Alema spinge per l’operazione di fusione con Bnl, la Casta locale si allontana e si lega di più ad Amato e Bassanini. D’Alema era amico di Carlo Luigi Turchi, storico revisore del Pci: pare che all’arrivo in città non andasse neanche in albergo ma si recasse direttamente a casa di Turchi. Nel 2005 Mussari, che era già potente a livello locale, si reca con il sindaco Maurizio Cenni e il presidente della Provincia Fabio Ceccherini a Roma in macchina: dicono di no a D’Alema e ai Ds sulla fusione con Bnl. Infatti in quel periodo, 2005-2006, si crea un momento di frizione. La longa manus di Amato e Bassanini, molto legato a Mussari, c’è sicuramente. Dopodiché, piano piano, tutto si ricompatta».

Ascheri descrive il clima bipartisan che cresce nella fase dell’operazione Antonveneta: «Francesco Gaetano Caltagirone, vicepresidente e primo azionista privato di Mps, benedice il matrimonio della figlia Azzurra con Pier Ferdinando Casini a Siena, nel Palazzo pubblico: officia il sindaco Cenni, presenti Mussari e Vigni. La cerimonia si svolge in un luogo in cui mai nessun matrimonio si è svolto e mai si svolgerà: chiudono tutto il palazzo e usano la sala con il simbolo di Siena. Poi vanno a festeggiare nel resort della Monti Riffeser [editore de “La Nazione” di Firenze, “Il Giorno” di Milano e “Il Resto Del Carlino” in Emilia, nda]. Il matrimonio fa capire il peso enorme di Francesco Gaetano Caltagirone e le relazioni tra Mussari e il mondo romano, potere ex democristiano e Vaticano. Significativo anche il lasso temporale: le nozze si celebrano il 26 ottobre 2007, l’affare Antonveneta viene annunciato in pompa magna il 12 o 13 novembre. Santander è la banca quasi ufficialmente dell’Opus Dei. Mussari tesse relazioni a 360 gradi: con Denis Verdini e Altero Mattioli del Pdl, con la Chiesa, con il Pd che è il suo partito. All’appello mancano solo i radicali. Mussari è un arrampicatore sociale, un Bel Ami».

Lo scenario, ad avviso dello scrittore senese, avrebbe persino potuto essere peggiore: «Mussari si è avvicinato anche a Tremonti. Quando ha comprato 26 milioni di euro di Btp, molti di più di Intesa e di altri, si trattava di una captatio benevolantiae verso Tremonti, allora ministro dell’Economia. Mussari ha utilizzato la banca in modo sistematico, quotidiano, per ambizione personale, puntando a Roma. Qui nessuno lo potrà mai dimostrare perché non è accaduto che Tremonti diventasse presidente del Consiglio (come si ipotizzava nell’estate del 2011, prima dell’incarico a Monti). Ma se lo fosse diventato, avremmo avuto Mussari ministro».

Megastipendio di Mussari e omertà generale

A parte Ascheri, pochissimi altri hanno rovinato la lunga luna di miele di Mussari con i poteri forti. Nell’autunno dell’affaire Antonveneta, il 2007, mentre gli azionisti pubblici di Mps (Ds e Margherita) si stavano fondendo nel Partito democratico, gli oppositori interni si contavano sulle dita di una mano. Forse perché era stato cacciato un pezzo da novanta come Nicola Scocca, direttore finanziario della Fondazione Mps, che denunciava il rischio di una deprivazione del patrimonio. In assemblea alcuni piccoli azionisti avevano chiesto spiegazioni in un silenzio surreale. Invece i sindacati continuavano a esprimere grande soddisfazione per l’acquisto di Antonveneta.

Mps ha attuato una ricapitalizzazione che sfiora i cinque miliardi di euro, condizione posta dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Nel 2009 il governo Berlusconi ha consentito anche all’istituto toscano, fra gli altri, di emettere 1,9 miliardi di euro di Tremonti bond, obbligazioni decise dall’omonimo ministro del Tesoro. Pochi mesi prima Tremonti aveva nominato Franco Bassanini presidente della Cassa depositi e prestiti partecipata dalle fondazioni.

Nel 2011 la Banca centrale europea ha concesso un prestito di 34 miliardi di euro all’1 per cento di interesse a Mps, che ne ha utilizzati 26 per comprare Btp con rendimenti dal 3 al 6 per cento. In quel periodo si sono cominciati a udire i primi forti scricchiolii pubblici, allorché la European Banking Authority (Eba) ha intimato di far fronte alla svalutazione dei Btp nel portafoglio di Siena con un aumento di capitale da 2,1 miliardi. La Fondazione ha fatto la sua parte nel rastrellamento della liquidità, ma senza vendere azioni della banca. Contrariamente a quanto consigliavano i nuovi advisor, Credit Suisse e Rothschild, ha contratto un prestito di 600 milioni da una cordata di undici istituti bancari guidata da JP Morgan. In sei anni il patrimonio della Fondazione calerà da 13 miliardi di euro a meno di due miliardi.

In un’assemblea del Monte, celebrata nell’evocativa data dell’8 settembre 2011, va in scena il primo scontro. Il vicepresidente Gaetano Caltagirone, che poi se ne andrà vendendo le azioni, contesta a Giuseppe Mussari la «rischiosità» della situazione, anche per via dei tanti Btp che si stanno svalutando per effetto dello spread. I mesi successivi sono caratterizzati dall’ansia di reperire liquidità.

Nel gennaio del 2012 si dimette il direttore generale Vigni, seguito da Mussari in aprile, non senza laute prebende. Vigni, che guadagnava da 1,4 a 1,9 milioni di euro l’anno, intasca una liquidazione di quattro milioni di euro, poi oggetto di procedura sanzionatoria della Banca d’Italia. Per i presidenti non è prevista la buonuscita ma Mussari, che percepiva 700.000 euro l’anno di stipendio, riceve comunque un bonus per il periodo trascorso in Fondazione: la cifra è coperta da segreto. Le dimissioni sono annunciate durante la presentazione del nuovo direttore generale Fabrizio Viola. Giuseppe Mussari garantisce di tornare a occuparsi dello studio legale e invece viene confermato alla guida dell’Abi. Tra le varie ragioni per cui è apprezzato in quel ruolo vi è senza dubbio l’azione legale intentata contro il presidente dell’Eba Andrea Enria, «reo» di aver imposto gli standard europei di capitalizzazione delle banche.

L’arrivo di Profumo

Per la stagione del rilancio di Mps il nome giusto è quello di Alessandro Profumo, talmente vicino al centrosinistra da fare la fila per ben due volte alle primarie: nel 2005 per Romano Prodi, due anni dopo per la candidatura con Rosy Bindi della moglie Sabina Ratti, amica di Linda Giuva, moglie di D’Alema. Alla fine del 2010 Profumo aveva lasciato la guida di Unicredit, un impero mondiale con il cuore tra Mitteleuropa, Oriente e Africa. A provocare la rottura sarebbe stata l’ascesa degli azionisti libici all’insaputa degli altri soci di Unicredit. Il banchiere è poi imputato assieme ad altri manager del gruppo per una presunta frode fiscale da 245 milioni di euro con la banca inglese Barclays nell’operazione denominata Brontos, una storia di interessi camuffati da dividendi. Al Monte il presidente Profumo si presenta all’insegna dell’austerity, accettando uno stipendio di 75.000 euro annui. Come primo atto il nuovo direttore generale Fabrizio Viola contesta i risultati negativi dell’area finanza ottenendo la «testa» di Gianluca Baldassarri.

La crisi si riverbera anche sull’ente che esercita il maggior controllo sulla Fondazione Mps, il Comune di Siena. Il sindaco del Pd Franco Ceccuzzi, eletto nel maggio del 2011, rompe gli schemi tradizionali. È un dalemiano anomalo, non ha un’esperienza nel sindacato come i predecessori e ha fatto da testimone di nozze a Giuseppe Mussari. Ceccuzzi esclude i big di area Margherita dai consiglieri di nomina comunale della Fondazione. A restare delusa è la famiglia Monaci, punto di riferimento del potere postdemocristiano: Alberto, presidente dell’assemblea regionale, e il fratello Alfredo, che aspirava a diventare vicepresidente di Mps al posto di Ernesto Rabizzi, andato a presiedere Antonveneta. Nell’aprile del 2012 sette consiglieri democratici «centristi» votano contro il bilancio comunale, in rosso per il venir meno delle erogazioni della Fondazione. Ceccuzzi rassegna le dimissioni al grido di «politicanti, voltagabbana e traditori». Il prefetto Enrico Laudanna, commissario fino alle Comunali del maggio 2013, calcola un disavanzo di 16 milioni di euro. Il rinnovamento non giunge neppure con l’elezione del nuovo sindaco Bruno Valentini, di area renziana, proveniente dal vicino Comune di Monteriggioni: è uomo di Mps dal lontano 1976.

Negli anni pochi giornalisti locali hanno osato avanzare critiche al «groviglio armonioso». Mauro Tedeschini, direttore del quotidiano «La Nazione» di Firenze, è stato cacciato dopo soli nove mesi, il 17 aprile 2012. A risultare fatale è stata la pubblicazione di un comunicato della Fondazione Mps, con cui palazzo Sansedoni rispondeva negativamente alla richiesta del Comune di ottenere una fideiussione di buoni comunali. Racconta Tedeschini: «Ci limitavamo a scrivere quello che veniva detto in sede ufficiale ma a Siena c’era un clima tale di omertà che bastava semplicemente scrivere quello che erano gli atti ufficiali».309

Sistema Siena sotto accusa

L’opinione pubblica si è accorta dell’affaire Antonveneta e delle sue conseguenze agli inizi del maggio 2012, dopo una puntata di Report intitolata Monte dei Fiaschi. Nel corso della trasmissione Gianni Bellavia, esperto di Diritto internazionale dell’economia, sottolineava: «Non si comportano da banca ma costruiscono prodotti finanziari, fanno tutte quelle cose che chi esercita il credito a mio parere non dovrebbe fare. Cioè chi esercita il credito dovrebbe prendere denaro dai risparmiatori, quindi denaro buono, denaro sano, e impiegarlo in attività produttive come agricoltura, industria e commercio. Comunque in attività che possano generare ricchezza. Invece la ricchezza finisce in tasca ai soliti ammanicati».310

Pochi giorni dopo la guardia di finanza di Siena, su delega del pm Antonino Nastasi, ha passato al setaccio 38 uffici e abitazioni tra cui quelli di Mussari e Vigni, del presidente della fondazione Gabriello Mancini e dei direttori generali che si sono succeduti. La documentazione e le testimonianze acquisite dimostrano che l’istituto senese si è imbarcato in operazioni rischiose nascondendo la verità alla Banca d’Italia. In particolare gli inquirenti hanno fatto riferimento all’obbligazione Fresh311 emessa nella primavera 2008 da JP Morgan e finanziata da Mediobanca e Credit Suisse, che sarebbe stata sottoscritta anche dalla Fondazione Mps per ben 496 milioni.

Mussari rigetta sospetti e ipotesi di reato, come per un’altra vicenda in cui è rimasto impigliato, la privatizzazione dell’aeroporto di Siena-Ampugnano. Nell’aprile del 2013 il pm Nastasi ha ottenuto il rinvio a giudizio di Mussari e altre otto persone per falso ideologico e turbativa d’asta in favore dell’ingresso di un nuovo socio, Galaxy, fondo di private equity di diritto lussemburghese partecipato dalla Cassa depositi e prestiti italiana e dalle corrispettive istituzioni francese e tedesca.

Il premier Mario Monti ha offerto il tradizionale soccorso governativo alle banche italiane approvando nel giugno del 2012 una manovra volta a dare ossigeno a Mps: due miliardi di euro, sulla falsariga dei «Tremonti bond» che nell’occasione sono stati rinegoziati. Il beneficio tra vecchie e nuove sottoscrizioni ammonta a 3,9 milioni di euro, che dovranno essere restituiti con un interesse del 9 per cento. È il paracadute agganciato per evitare il crac: in caso di mancato rimborso delle obbligazioni, lo Stato diverrebbe proprietario dell’82 per cento delle azioni di Mps, una sorta di nazionalizzazione.

Giuseppe Mussari si dimette dalla presidenza dell’Abi soltanto nel gennaio del 2013, quando «il Fatto Quotidiano» rivela che la Procura di Siena è venuta in possesso di un contratto su un’operazione in derivati del 7 luglio 2009 tra Mps e la banca d’affari giapponese Nomura, tenuto segreto dal direttore generale Antonio Vigni. Il vaso di Pandora è stato scoperchiato dal nuovo corso di Viola e Profumo attraverso l’incarico alle società Kpmg ed Eidos, finalizzato a trovare soluzioni accettabili per i contratti rischiosi ancora attivi.

In sostanza nel 2006 Mps aveva comprato dalla Dresdner Bank 400 milioni di obbligazioni Alexandria. Passati tre anni, dopo il crollo della Borsa e il quasi dimezzamento del valore di quei bond, Mps decise di venderli a Nomura per spalmare 220 milioni di perdite nel tempo. In cambio i senesi sottoscrissero strumenti finanziari che assicuravano ai giapponesi 88 milioni di euro di commissioni. Che le operazioni fossero collegate lo confermò Giuseppe Mussari in persona, replicando in modo incerto nel luglio del 2009 al presidente di Nomura in Europa, Sadeq Sayed, che abilmente registrava la videoconferenza.

Lo stratagemma delle operazioni con i derivati, che ha fatto salire l’indebitamento a 730 milioni di euro, era stato studiato nei dettagli al fine di evitare l’iscrizione delle perdite tra le voci del bilancio, rendendole invisibili prima di tutto ai controllori interni. Secondo gli inquirenti, i soci sarebbero stati tenuti all’oscuro anche della vera natura del prestito Fresh di JP Morgan, fatto figurare come l’aumento di capitale necessario per il benestare della Banca d’Italia all’acquisizione di Antonveneta. Invece in una lettera firmata il 15 aprile 2008 dal direttore finanziario Marco Morelli (poi country executive per l’Italia di Merril Lynch), il Monte si impegnava a rimborsare a JP Morgan eventuali perdite, mantenendo a proprio carico i rischi. E la Fondazione non aveva sottoscritto il Fresh ma opzionato i titoli per 496 milioni di euro, accollandosi tutti i rischi. Il 30 luglio 2013 la procura notifica l’avviso di chiusura delle indagini a nove banchieri, manager e revisori dei conti, e a due persone giuridiche: Mps e JP Morgan. Gli inquirenti, che contestano i reati di associazione a delinquere, truffa, falso in prospetto, false comunicazioni, ostacolo alla vigilanza, falso in bilancio, non hanno però potuto contare sull’apporto delle intercettazioni telefoniche, richieste sulle utenze di banchieri e politici locali ma rigettate per la gran parte dal gip.

Banchieri fuori controllo

Al di fuori del perimetro penale, ciò che colpisce è l’inerzia degli organi deputati ai controlli: il ministero dell’Economia, retto da Giulio Tremonti e poi dal suo ex direttore generale Vittorio Grilli, aveva il compito di vigilare sulle fondazioni bancarie pur non avendo strumenti giuridici; la Consob avrebbe dovuto verificare la correttezza dei bilanci; la Banca d’Italia ha autorizzato la frettolosa operazione di compravendita di Antonveneta e in seguito non ha adottato sanzioni malgrado gli esiti negativi dell’ispezione svoltasi in Mps dall’11 maggio al 6 agosto 2010. L’allora governatore Mario Draghi garantisce che Banca d’Italia era stata ingannata. Il nuovo governatore Ignazio Visco non è andato al di là della moral suasion che ha portato alle dimissioni di Vigni e Mussari. Anna Maria Tarantola, membro del Direttorio della vigilanza, racconta ai magistrati di un colloquio alla presenza di Draghi durante il quale «ci raccomandammo con i vertici di Mps di fare per bene l’acquisizione».

Chi sin dal principio aveva sentito puzza di bruciato è Nicola Scocca, direttore finanziario della Fondazione Mps dal 1999 al 2007. Scocca, sentito in procura a Siena dopo la consegna della memoria che gli era costata il licenziamento in tronco, ha rivelato che dal 2001 al 2005 la Fondazione si era comportata «come una famiglia che spendeva più di quanto si fosse posto come obiettivo di guadagno nel medio-lungo termine, in altre parole stava erogando non guadagni bensì patrimonio». L’ex consigliere di amministrazione Carlo Querci, padre del manager Mediaset Niccolò, ha descritto la riunione che approvò l’acquisto di Antonveneta nel novembre del 2007: «Ce la presentarono come l’ultimo affare del secolo […]. Era l’ultima chance. Tanto che mentre noi ci riunivamo, ci informò il presidente, contemporaneamente il Santander deliberava. Doveva essere contestuale. Lì c’era poco da fare: o sì o no».312

La procura ha ascoltato molti testimoni eccellenti, come l’ex eminenza dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, responsabile del Santander per l’Italia e consigliere del fondo F2i di Vito Gamberale. Dalle agende sequestrate a Mussari sono affiorati appuntamenti con Gotti Tedeschi, nel cui ufficio le Fiamme gialle hanno acquisito i nomi di consulenti degli spagnoli che potrebbero aver avuto un ruolo nella vendita di Antonveneta. Gli investigatori hanno scoperto che Mussari aveva cancellato tutte le email inviate e ricevute tra giugno e ottobre del 2007; hanno scavato nei conti correnti dei dirigenti e nei versamenti per l’acquisto dell’istituto padovano ma senza trovare tangenti. A venire sequestrati sono stati i 40 milioni di euro rientrati in Italia grazie agli scudi fiscali, sproporzionati rispetto al reddito degli intestatari: 17 milioni all’ex capo dell’area finanza di Mps Gianluca Baldassarri, 10 al vice Alessandro Toccafondi, il resto a tre mediatori.

I pm senesi hanno inserito nel fascicolo anche l’informativa di un’inchiesta dei colleghi milanesi su altre 18 persone accusate di aver fatto la «cresta» su titoli passati da Dresdner Bank a Mps tramite l’intermediazione della società svizzera Lutifin Services, gestita dai broker italiani Giuseppe Dolicardi (proprietario al 95 per cento) e Paolo Nalesso. È interessante la deposizione del funzionario della banca d’affari tedesca Antonio Rizzo, poi consulente del ministro Tremonti, nel frangente in cui parla di Baldassarri e di Matteo Pontone, responsabile della filiale di Londra del Monte: in un incontro avvenuto nel novembre del 2007 con il superiore Lorenzo Cutolo «si venne a sapere che Dresdner per l’operazione avrebbe pagato una somma di intermediazione a Lutifin. Cutolo rimase sorpreso e disse che era assurdo pagare un’intermediazione per un affare che Dresdner poteva fare tranquillamente da sola […]. Cutolo mi disse che lui aveva provato a fare qualcosa, ma che aveva rischiato il licenziamento».

Rizzo racconta di aver informato l’organismo di controllo interno e poi Michele Cortese, che si occupava della vendita di prodotti finanziari per la branca londinese di Dresdner Bank: «Cortese sostanzialmente mi ha detto che a suo avviso – ma il fatto sembrava notorio – Pontone e Baldassarri avevano percepito una commissione indebita dell’operazione per il tramite di Lutifin. Mi disse che i due erano conosciuti come la banda del 5 per cento, perché su ogni operazione prendevano tale percentuale».313 Per Baldassarri e Pontone a Milano è poi arrivata l’archiviazione nel 2010, ma alla Procura di Siena interessa il modus operandi, sottolineato nell’informativa della guardia di finanza: «Scopo dell’operazione era far ristrutturare il pacchetto a Mps e consentire a Dresdner di neutralizzare le perdite scaricandole su Mps». Cioè il rovescio dell’operazione avvenuta tra Nomura e il Monte. Nel febbraio del 2013 i pm toscani hanno fermato Baldassarri al rientro dalle isole Maldive per il pericolo di reiterazione dei reati e di fuga: il manager aveva sbloccato titoli per un milione e trasferito 750.000 euro a una società intestataria di una villa di Miami (Florida).

Sette procure al lavoro

L’intrigo di Siena si è macchiato di sangue con il suicidio del responsabile dell’area Comunicazione di Mps David Rossi, che la sera del 6 marzo 2013 si è gettato dalla finestra del suo ufficio su una stradina poco trafficata. Fedelissimo dell’ex presidente Giuseppe Mussari e tra i pochi confermati da Profumo, Rossi non era indagato, anche se i finanzieri avevano perquisito la sua casa e l’ufficio sequestrando alcune carte.

In parallelo, la Procura di Trani ha aperto un’indagine per truffa e usura su derivati emessi da Mps e Banco di Napoli (gruppo Intesa San Paolo) in seguito alla denuncia di un imprenditore. La Procura di Forlì ha trasmesso a Siena le risultanze di un’inchiesta per riciclaggio di oltre un milione di euro a San Marino che vide indagato Mussari, la cui posizione è poi stata archiviata. La Procura di Roma, che stava compiendo accertamenti su 23 milioni di euro trasferiti dallo Ior a JP Morgan Frankfurt e Banca del Fucino, ha iniziato a collaborare con la magistratura senese aprendo un fascicolo per ostacolo alla vigilanza e manipolazione del mercato sulla vicenda Mps. Il procuratore Nello Rossi e i pm Stefano Pesci e Stefano Fava si sono concentrati sulla Santa Sede per verificare se e in quali termini si svolsero nel 2007 incontri per la cessione di Antonveneta da parte di Santander.

Sullo sfondo dell’inchiesta aleggiano sempre i rapporti con la politica. In Procura a Siena è giunto un documento del 12 novembre 2008 che descrive un accordo per spartirsi i posti nelle amministrazioni locali e in Mps. In calce compaiono i nomi, ma non le firme, del sindaco del Pd Franco Ceccuzzi e del coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini, che smentiscono sdegnati. Anche se il file fosse fasullo, l’inciucio politico nel «groviglio armonioso» è un dato storico, dall’ingresso di Forza Italia nel cda di Mps sino all’approdo di Pisaneschi, nel giugno del 2008, alla presidenza di Antonveneta. Del resto il presidente della Fondazione del Monte Gabriello Mancini, interrogato dai magistrati, ha ricordato la motivazione addotta da Mussari per la scelta di Pisaneschi: «Poiché Antonveneta aveva i suoi maggiori interessi in Veneto, regione a forte connotazione politica di centrodestra, era opportuno che il presidente fosse della medesima area politica». Mancini ammette che la sua nomina nel 2006 era stata decisa dai vertici regionali della Margherita con l’assenso del presidente Francesco Rutelli, e sottolinea le aderenze di Mussari con «Ceccuzzi, che a sua volta può essere inquadrato nell’area dalemiana dei Ds. Posso dire altresì che Mussari aveva un rapporto cordiale anche con Veltroni, quando questi divenne segretario del Pd». Nel centrodestra, «l’altra persona con cui Mussari aveva dei rapporti era Gianni Letta».314

Ceccuzzi è finito nei guai per un finanziamento del Monte: 17 milioni affidati nel 2008 a una società del gruppo salernitano Amato per trasformare in complesso immobiliare l’omonimo pastificio, poi fallito per un buco da 100 milioni di euro. Il pm di Salerno Vincenzo Senatore, che nel filone principale ha ottenuto il rinvio a giudizio di 28 persone, indaga per bancarotta fraudolenta per dissipazione Franco Ceccuzzi, Giuseppe Mussari e l’ex deputato del Pd Paolo Del Mese, già accusato di aver intascato denaro dagli Amato senza in effetti fornire prestazioni professionali. Secondo le indagini della guardia di finanza salernitana avrebbero esercitato pressioni per il finanziamento di 17 milioni all’azienda Re, immobiliare del gruppo Amato controllata da una società offshore con sede a Malta. Insomma, nel Mps-gate le indagini coinvolgono direttamente o indirettamente sette Procure (Siena, Firenze, Roma, Salerno, Milano, Forlì, Trani), impegnate a dipanare i fili rossi dell’intricata matassa del potere politico-bancario-massonico.

Nel frattempo la gravità della situazione economica, per la quale non possono escludersi le prospettive di una nazionalizzazione o di una svendita, impone a Mps di abbattere steccati che parevano invalicabili. Per favorire l’ingresso di soci privati a metà luglio del 2013 il presidente Profumo ha abolito il tetto che limitava al 4 per cento il diritto di voto dei soci privati. Inoltre il nuovo statuto della Fondazione Mps riduce a sette i membri di nomina politica, l’esatta metà dei consiglieri.

È presto per dire se ciò comporterà la rottura del legame a doppio filo tra banca e sinistra. All’insorgere della tempesta giudiziaria Pier Luigi Bersani era persino arrivato a negarlo, sostenendo che «il Pd fa il Pd, le banche fanno le banche». Il post scriptum del segretario somigliava a un messaggio trasversale: «Non si azzardino a dire a livello subliminale, destra e Lega, che sul Monte dei Paschi, su questa commistione politica, siamo stati scorretti, perché li sbraniamo». D’Alema ha segnalato un distinguo: «Noi, e per noi intendo il Pd di Siena nella persona del sindaco Franco Ceccuzzi, Mussari lo abbiamo cambiato un anno fa, assieme a tutto il cda del Monte dei Paschi. Questi sono fatti documentati».

Nell’estate 2013, in occasione della sostituzione di Gabriello Mancini alla presidenza della Fondazione Mps, tutti i papabili paiono sfilarsi. Alla fine viene eletta Mariella Mansi, vicepresidente di Confindustria, che non si dimette da quell’incarico Matteo Renzi respinge la richiesta del sindaco di Siena di avallare la scelta dei consiglieri che spettano al Comune. Durante un comizio alla Festa democratica di Genova, Renzi svela il messaggio sul cellulare con cui Bruno Valentini gli chiedeva il benestare sulle nomine e ovviamente sottolinea il proprio disaccordo.

Dallo scoppio dello scandalo comunque è tutta la nomenclatura del Pd a prendere le distanze pubblicamente dal «groviglio» senese, che non ha più nulla di armonioso. Potrebbe trattarsi di un atteggiamento gattopardesco o di una mossa per prendere tempo, in attesa che su questa vicenda, così come sul sostegno dei Ds alla scalata di Unipol a Bnl, cali l’oblio. La sinistra ha cambiato identità e valori, si occupa più di banche che di fabbriche, ma obbedisce ancora al motto delle vignette satiriche di Guareschi: «Contrordine, compagni».

283 Claudio Gatti, «Il Sole 24 Ore», 27 settembre 2006.

284 I derivati sono strumenti finanziari il cui prezzo deriva dal valore di mercato di un altro bene, detto sottostante (attività finanziarie o merci).

285 Stefano Sansonetti, «ItaliaOggi», 8 luglio 2009.

286 Il Tribunale di Milano condanna Vittorio Casale e il manager del gruppo Operae Francesco Vizzari per bancarotta fraudolenta, rispettivamente a 4 e a 3 anni e 8 mesi di reclusione, il 7 marzo 2012.

287 Intervista di Francesco Verderami, «Con Berlusconi contro D’Alema», «Corriere della Sera», 24 gennaio 2000.

288 Massimo Mucchetti intervista Cesare Geronzi, Confiteor. Potere, banche e affari. La storia mai raccontata, Feltrinelli, Milano 2012, p. 134.

289 Mario Gerevini, Magnoni, l’ex gestore di Oak Fund: trattai solo con banche, «Corriere della Sera», 24 luglio 2008.

290 Per lo spionaggio illegale Giuliano Tavaroli patteggia davanti al gup di Milano 4 anni e 2 mesi di reclusione, il 2 ottobre 2009.

291 Ordinanza del gip di Milano Clementina Forleo, che accoglie la richiesta d’urgenza dei pm del 25 luglio 2005, disponendo l’interdizione cautelare dalle cariche sociali per gli scalatori e il sequestro preventivo di azioni e plusvalenze per 94 milioni di euro, 1° agosto 2005.

292 Intervento di Piero Fassino, «l’Unità», 13 agosto 2005.

293 Ballarò, Rai2, 19 giugno 2007.

294 Unipol, bufera intercettazioni, D’Alema a Consorte: «Facci sognare», «La Stampa», 11 giugno 2007.

295 La legge 140 del 2003 introduce l’autorizzazione della Camera di appartenenza quando la magistratura intende utilizzare le intercettazioni telefoniche in cui figura anche un parlamentare.

296 L’aggiotaggio informativo, punito sino a 3 anni di reclusione, è il reato commesso da chi, al fine di turbare il mercato interno dei valori o delle merci, diffonde notizie false o adopera altri artifizi atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci, ovvero dei valori ammessi nelle liste di Borsa o negoziabili nel pubblico mercato.

297 Agenzia Ansa, 27 luglio 2007.

298 Verbali del Csm riportati nel libro di Clementina Forleo e Antonio Massari, Un giudice contro, Aliberti, Reggio Emilia 2008.

299 Motivazioni della sentenza con cui il Tar accoglie il ricorso di Clementina Forleo, 30 aprile 2009.

300 Tribunale di Milano, motivazioni della sentenza sulla scalata di Unipol a Bnl, emessa il 31 ottobre 2011.

301 La sentenza 390 della Consulta del 23 novembre 2007, redatta dal vicepresidente Giovanni Maria Flick, dichiarando l’illegittimità di tre commi dell’articolo 6 della legge Boato, afferma che non c’è bisogno di autorizzazione della Camera quando la magistratura intende utilizzare le intercettazioni telefoniche di un indagato nelle quali figura anche un parlamentare che non è sotto inchiesta.

302 La legge 218 del 1990, approvata allo scopo di adeguare il sistema alle direttive comunitarie, dispose che gli enti bancari diventassero società per azioni, sotto il controllo di fondazioni.

303 Lettera pubblicata da «Il Gazzettino», 10 agosto 2012.

304 «Libero», 27 gennaio 2013.

305 Gianni Barbacetto, La verità di Consorte: «Ecco i segreti della finanza rossa», «il Fatto Quotidiano», 3 febbraio 2013.

306 Interrogatorio davanti ai pm di Milano Francesco Greco, Eugenio Fusco e Giulia Perrotti nell’inchiesta sulle scalate bancarie, 22 marzo 2006.

307 Carlo Bonini, «Una telefonata di notte tra Mussari e Botin e Antonveneta fu ceduta a un miliardo in più», «la Repubblica», 31 gennaio 2013.

308 Ordinanza della Corte civile d’appello di Firenze, depositata il 17 gennaio 2012.

309 Intervista a Caterpillar, Radiodue, 30 gennaio 2012.

310 Paolo Mondani, Il Monte dei Fiaschi, Report, Rai3, 6 maggio 2012.

311 I Fresh sono obbligazioni convertibili in azioni. Si tratta di un prestito che viene però computato nel patrimonio come capitale.

312 Agenzia Adnkronos, 11 gennaio 2013.

313 Interrogatorio del nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Milano, 13 ottobre 2008.

314 Interrogatorio di Gabriello Mancini presso la Procura di Siena, 24 luglio 2012.