Postfazione

di Isadora Wing

Mi volto a guardare la mia vita e vedo una grande confusione. I miei uomini, mia figlia, i miei libri, le mie lezioni di volo, le mie paure, la mia controfobia, il mio quarto d’ora di celebrità. La mia ricerca della serenità. A metà della mia vita, sono morta e poi sono rinata.

A quarantacinque anni, o si muore o si rinasce dalle proprie ceneri, come la fenice. Io sono stata scelta per questa seconda ipotesi.

Cosa ne farò di questo libro che ho lasciato, di questo guscio della mia vecchia vita, della me stessa che ero un tempo, e di quell’altra me stessa che ero un tempo, che la interrompeva con critiche e frecciate? Un romanzo è forse un sistema a circuito chiuso, o si apre al mondo come un fiore che sparge la sua fragranza, un fiore che non esiste, finché qualcuno non lo annusa?

Supponete di avere aperto questo libro e che un microprocessore suonasse Bessie Smith che canta Any Woman’s Blues. Vi convincereste dell’immortalità? Un romanzo è uno strano circuito chiuso. Scrittrice e protagonista formano una specie di nastro di Möbius. E romanzo e lettore, un altro nastro di Möbius. La scrittrice scrive perché prevede la propria morte. Tu, lettore, leggi il libro quando lei è morta e la riporti in vita. Come questo libro ha riportato in vita me. Come il tuo cuore e i tuoi occhi mi hanno riportato alla vita (stavo per dire al riso, che è anche vero).

Qualunque cosa Caryl Fleishmann-Stanger possa, o meno, avervi detto di “me” e del mio “ultimo” romanzo, io non sono morta, ma sono di nuovo qui: io, Isadora White Stollermann Wing, alias Leila Sand, Louise Zandberg, Candida Wong, La Tintoretta, Antonia Uccello und so weiter. Come ebbe a dire un altro scrittore in un’altra occasione: la notizia della mia morte era un’esagerazione.

Pace e quiete nei mari del sud, non funzionarono affatto. “Sebastian Wanderlust”, alias “Julian Silver” organizzava meravigliosi weekend e gite in gondola sul Canal Grande, ma anche lui, essendo un essere umano, aveva un suo segreto ordine del giorno. Quando anche il paradiso si rivelò una cura inadatta a guarirlo dai mali della civiltà, anche lui, come “Danny Doland”, diede la colpa a me. Dopodiché, non riuscimmo a salvare né la nostra amiciziail nostro matrimonio.

Tornata dal paradiso, ho deciso di scrivere solo poesie, preghiere, meditazioni, per eliminare l’“Io”, per inventare una nuova forma capace di catturare l’eternità dell’esistenza, di raggiungere, al di là delle parole, le infinite e immutevoli realtà che hanno preceduto la nostra animalesca comparsa sulla terra e che dureranno a lungo dopo di noi.

Perciò, che io sia Leila, Isadora, Louise, Caryl o anche qualcun’altra che nessuno di noi conosce, è assolutamente irrilevante. Non si tratta che di maschere, che restano attaccate al mio viso per un breve tempo e poi cadono, mentre cade anche la carne che ci sta sotto. Le maschere servono solo a facilitare la nostra comprensione – dato che, fin dall’inizio, impariamo meglio da un viso umanoide. Ma sempre maschere restano, e la vera saggezza consiste nel riconoscerlo.

Dato che d’ora in poi penso di scrivere solo poesie e salmi, può darsi che tu, caro lettore, non legga mai più un mio libro... visto che le parole più preziose, in questa nostra beffa di società letteraria, tendono a essere le meno lette.

Perciò, addio. Ho amato i nostri momenti insieme. Ho amato farvi ridere e farvi piangere. Spesso, scrivendo, ho riso e pianto anch’io. Vi amo sinceramente. E voglio sinceramente salvare la vostra vita. E la mia.

D’ora innanzi scriverò solo poesie perché solo la poesia, essendo fuori dal tempo, lo trascende. Se potessi scrivere con l’inchiostro invisibile, lo farei. Perché in fondo scriviamo tutti comunque con inchiostro invisibile e le nostre parole salgono al cielo come le faville dell’inferno salgono al viso di Dio, che col suo fulgore le fa sparire.

Come Leila, Louise e anche come Isadora, prendo congedo da voi, e vi chiedo di amarvi l’un l’altro quanto è possibile, di essere audaci, in comunione col vostro Dio e di cercare di lottare contro la menzogna, dovunque si manifesti – prima di tutto in voi.

L’ex scrittrice di romanzi che ero (e in parte sono ancora) non sa resistere al tropismo di concludere la storia per la soddisfazione del lettore (e mia), e di tirare tutte le fila rimaste in sospeso, come si usava fare nei romanzi del Settecento e dell’Ottocento. Come scrittrice, sono troppo brava bambina per poter lasciare i miei personaggi in sospeso.

In seguito al fatto che Isadora smise di pubblicare (e in seguito ai suoi soggiorni sempre più prolungati in un monastero trappista), Caryl Fleishmann-Stanger, poiché la natura aborre il vuoto, divenne l’esperta e la portavoce della sua opera. Dava seminari, scriveva saggi eruditi, mandava lettere al Times Book Review, appariva alla Modern Language Association e così via, tutto col risultato di creare un’Isadora Wing che non aveva mai conosciuto e che non era mai realmente esistita.

“Sebastian” o “Julian” tornò a Los Angeles, divorziò dalla qui presente scrittrice con separazione consensuale, sposò una giovane e dolce fanciulla e, continuando a lamentarsi che in realtà voleva scrivere opere sulla vanità dei desideri umani e sulla trascendenza spirituale, ha continuato a comporre colonne sonore elettroniche per la Columbia, la Fox, la Universal e altre compagnie cinematografiche. Inoltre ha scritto, prodotto e musicato un grande film di successo, intitolato Il naufrago di Papua (diretto, come ricorderete, da Leonard Nimoy), e dopo d’allora il prezzo per ogni sua colonna sonora è salito a un milione di dollari. Intrappolato dal suo stile di vita e dalla sua nuova moglie (che per le loro due Ferrari gemelle aveva fatto fare due targhe, che dicevano rispettivamente: “GUADAGNA” e “SPENDE”), egli continua ancora oggi a giocare col suo sintetizzatore, un ottimo artista, completamente deluso dalla propria vita.

Bean/Dart/Trick è finito anche lui nel distretto telefonico 213, ha sposato un’attrice più vecchia di lui, sognando sempre Leila/Louise/Isadora, il suo unico grande amore, e facendo particine nel film Rambo V poi VI e via di seguito. Continua a dispensare generosamente il suo seme nella California del sud, come faceva a New York e nel Connecticut e maledice il suo karma, suo padre, le sue stelle per non avere avuto il coraggio di rinunciare al suo complesso di Casanova per l’unica donna che abbia mai veramente amato. Ma tra gli uomini e i loro padri, l’intenzione in fondo è l’ultima cosa che conti. “Dart” attribuisce a sua moglie la colpa del suo scarso successo e retrospettivamente idealizza “Leila” sempre di più, col passare degli anni.

“Emmie” ha pubblicato il suo libro sulla menopausa e ha fatto un’altra piccola fortuna. Il termine “chic menopausico” coniato da lei è entrato nel Nuovo dizionario delle citazioni della Penquin. A Emmie è andata bene, perché il suo cuore è puro – anche se non proprio purissimo, visto che in fondo anche lei è una scrittrice. È sempre innamorata del suo armatore greco ed è felice quando lui arriva in città.

Anche André è finito nel distretto telefonico 213, avendo venduto la galleria, divorziato dalla moglie, sposato un’attrice di ventidue anni ed essendo diventato un “produttore indipendente” e un fanatico del “cibo naturale”. La vostra umile amanuense nota con stupore che molti dei suoi personaggi sono migrati nella zona di Los Angeles, ma sapete cosa si dice in America della California del sud: che tutto quello che non è saldamente attaccato, finisce per scivolare laggiù.

E le “gemelle”, o “Amanda Ace” – una bimba di tale vitalità da valere veramente per due, da sembrare raddoppiata, gemellata, al quadrato? In seguito alla scomparsa della madre e al suo straordinario ritorno, Amanda a undici anni ha scritto un libro, che è diventato un best seller, intitolato Guida del bambino alla vita in cui dice ai ragazzi di oggi di concentrarsi, di essere sani, integri e di evitare le droghe, visto il crollo della civiltà folle e viziosa dei loro genitori.

Sospesa temporaneamente la carriera letteraria per l’avvento della pubertà, “Mike” e “Ed”, nota anche come “Amanda”, ora va regolarmente a scuola come tutte le bambine della sua età, ma ha un agente, un amministratore e un legale per vagliare le offerte (per show televisivi, interviste, investimenti) che piovono tutte le settimane; resta da vedere se ce la farà a superare il derby ormonale dell’adolescenza senza perdere il senso dell’umorismo. Dopotutto è figlia di sua madre, e tra madri e figlie l’intenzione, ahimè, è l’ultima cosa che conti.

E così sono di nuovo a casa. Nel Connecticut. Gli aceri splendono sui pendii dei miei colli, come le arance risplendono nei bidoni della spazzatura di New York. Una losanga di luce colora il soffitto del mio studio. Uno spettrale plenilunio, ormai vicino all’equinozio d’autunno, fluttua sui monti. Sto scrivendo. Bessie sta cantando. La mia adorata figlia è qui con me.

Per la prima volta in vita mia, sono riuscita a mantenere la sensazione di aria sotto le mie ali. Finalmente, volo.

Non posso dirvi che sia per via di un uomo, o di un libro o per via della luna. Posso solo dirvi che mi sono liberata dalla prigione di me stessa e che mi muovo nel mondo senza paura.

Ha qualcosa a che vedere con la sobrietà, che ha tutto a che vedere con la libertà. E ha qualcosa a che vedere con la grazia.

Il Connecticut, Venezia, New York, la California, i mari del sud... Che importa, se Dio è nel tuo cuore e ogni parola è una meditazione, un atto di lode?

Non posso dire di essere arrivata fin qui senza qualche sbandata. Tanto per cominciare, devo confessare che ho bevuto ancora. Ma a quanto pare anche questo era necessario, perché mi ha fatto capire che non avevo ancora veramente toccato il fondo, che flirtavo con l’idea di smettere, ma non avevo veramente smesso. Non ero ancora interamente pronta.

È stata la mia ultima relazione con un uomo sposato a fare scattare la mia rinuncia. Si chiamava Marcus. Ci siamo conosciuti a una cena in un attico di Soho, uno di quegli attici pieni di costosi oggetti d’arte – Jasper Johns, Cy Twombly, Helen Frankenthaler – e mobili fatti fare su misura. Anche la gente era fatta su misura. Eurospazzatura. Debutramps con fondi fiduciari. Bei gioielli di via Condotti e di Old Bond Street. Castelli sul Reno e case di campagna a Orvieto. Scarpe di Azzedine Alaïa. Abiti di Chanel. Che sia benedetta la moda che ci mantiene volubili e leggeri, quando vogliamo essere profonde.

Lui aveva capelli d’argento, occhi a mandorla, un’ombra leggera di barba sulle guance. Un golf fatto a mano in qualche famiglia di pescatori irlandesi. Una cravatta fatta da qualche hippy in Costarica. Mocassini fatti di cinghialetto non nato... o Pooh.

Era anche lui nel racket dell’arte: faceva il consulente. Su due sponde: New York e Londra. Un pezzo grosso. Ma intenerì il mio cuore quando si mise a parlare yiddish.

Ero nauseata di eurospazzatura e avevo nostalgia di Brooklyn. Lui aveva Brooklyn nell’anima. Come mio padre.

Scoccarono le scintille fra noi. Zing. Zing. Bim. Bam. Crackle. Tagliammo la corda. Nella sua limousine d’argento coi finestrini affumicati e il fax. Gli succhiai il cazzo e poi me ne andai, sapendo che gli uomini farebbero di tutto per averti – anche se sembra che non ti vogliano quando tu decidi di averli. (Ah, il mistero degli uomini e delle donne: perché ci inseguono così accanitamente, se poi sono terrorizzati se smettiamo di fuggire?)

Cominciammo una storia piena di aglio, blues e burro. E orgasmi. E ancora orgasmi. Lui era intelligente, spiritoso, sensitivo (perlomeno mi leggeva letteralmente nel pensiero). Aveva gli stessi occhi di mia nonna. In due mesi mi innamorai disperatamente. Ma lui era disperatamente sposato. Tenendo il piede in due scarpe, come tutto il resto del sesso maschile, disperatamente incapace di fare altrimenti. Mi amava. Si preoccupava per me, voleva prendersi cura di me, ma essendo un uomo, era molto debole nelle scelte. Non devono mai farne molte di scelte, vero? Almeno per quanto riguarda le donne. Hanno poca pratica, semplicemente.

Un weekend in cui ero rimasta sola, uscii con un vecchio fidanzato, tanto per farmi passare la malinconia.

Il vecchio fidanzato beveva. Risaliva al tempo in cui bevevo anch’io. E così bevemmo. Bevemmo a Roxbury, Cornwall, Bethel, Redding e Darien. Bevemmo a Rye, Harrison e Bedford. Lui vomitò. Io persi conoscenza. Romantico, eh?

Il mattino dopo mi svegliai in un letto sconosciuto, sotto un mucchio di coperte. Nell’altra stanza suonava della musica. Una esile ragazza indiana stava in piedi davanti a uno specchio a mettersi e togliersi il sari. Sul letto, accanto a me, c’era un giovanotto pallido.

Panico. Desolazione. La testa che martellava. Bocca arida. Incapace di muovermi. La guerra nucleare e il collasso economico in arrivo. Cancro, AIDS, paralisi. Le lenti a contatto premevano sotto le palpebre. Mi svegliai singhiozzando. Ma senza lacrime.

Di colpo mi resi conto che tutti i miei giorni e i miei mesi di astinenza erano condizionati: Dio, non berrò più se questo libro sarà un successo. Dio, non berrò più se il mio amante tornerà da me. Dio, non berrò più se mi dai amore, affetto, soldi. Naturalmente io non credevo di porre delle condizioni a Dio, ma quella ne era la prova. Delusa dalla mia storia d’amore, mi ero rimessa a bere.

Scendo barcollando dal letto. Sono in ginocchio. Tremo. Il mio viso è rigato di lacrime. Voglio diventare sobria perché voglio diventare sobria, dico. Lo voglio, perché lo voglio e basta. Al disopra di un libro. Di un uomo. Al disopra di tutto. Lo voglio, perché lo voglio. Perché lo voglio come la vita stessa. Ora sono interamente pronta.

Con questa decisione improvvisa, venne una leggerezza che non avevo mai provato e una luce che non avevo mai conosciuto, come se Dio avesse preso il mio cuore e lo avesse lanciato come un frisbee sulla luna. Come se tutto il mio corpo fosse fatto di luce. Da allora non ho più preso un drink. Né un uomo sposato.

Sì, il mio quarto marito e io siamo andati in volo nel sud Pacifico e abbiamo avuto un incidente aereo, ma la storia non finisce qui. Sorvolando gli atolli e i reef corallini, dove la violenza del nucleo della terra esce attraverso le acque spumeggianti, imparai che siccome siamo la prima civiltà a vedere le nuvole da tutt’e due le parti – letteralmente a volare – abbiamo una responsabilità speciale. Siamo più vicini a Dio della gente delle altre ere, eppure tanto più lontani.

L’era di Icaro, la chiamo. L’epoca delle ali di cera. Non c’è da stupirsi se cerchiamo di colmare il nostro vuoto con l’alcool, la droga, il sesso. Abbiamo desiderio di spirito, e ci rivolgiamo erroneamente ai liquori. Desideriamo Dio e ci rivolgiamo erroneamente all’uomo.

Possiamo uscire da una cultura e entrare in un’altra – troppo in fretta perché la nostra coscienza riesca a tenerci dietro. Dall’età della pietra all’età dello spazio. Il tempo è compresso, per noi. Tutte le epoche coesistono.

Quello che ricorderò sempre del sud Pacifico è l’umidità, la sensazione di bagnato sulla pelle. Il mio corpo si sentiva diverso. Capivo che era fatto di acqua. E di aria. E l’odore del sud Pacifico: frangipani, copra, sago, fango e sangue. E il baccano degli insetti la notte. E il buio pesto del villaggio. Il fascino dell’età della pietra... fuori tempo. Alzarsi col sole. Andare a dormire con la luna. I giorni sono lunghi eoni. Gli eoni soltanto giorni.

I rumori della foresta tropicale – il baccano delle cicale. Il giornale a Port Moresby. Nu Gini Tok Tok. La lingua del futuro sarà un gergo con vocaboli di più lingue semplificate? Un miscuglio di lingue. Montagne frastagliate contro il cielo azzurrissimo. “Donne e bambini non portano lance.”

Quando l’aereo cadde nel mare di Salomone (non si trattava di un Beaver ma purtroppo di un Grumman Goose), io non mi spaventai. Tutte le mie previsioni di paura – eppure, al momento del disastro, ero calma.

Lo stallo. L’avvitamento. L’altimetro che scende a precipizio. I castelli di nuvole. La radio che gracchia. Mio marito che ride. La caduta in verticale sul mare. L’acqua blu. La sospensione del tempo. La mia vita. Il cosmo. Una cosa sola.

Trovai in me stessa una calma oltre la calma – come se fossi andata all’inferno e fossi tornata cantando.

L’adrelina ebbe il sopravvento: la parte animalesca del cervello. Con calma, mi liberai dal relitto. Con calma, aprii lo sportello. Con calma, nuotai passando accanto agli squali.

Come per il parto, ricordo appena quello che accadde. Ma so che feci la cosa giusta. Sono viva.

Sapevo benissimo di stare sorvolando il territorio di Amelia Earhart, quando attraversai le città di nubi tra Port Darwin e Port Moresby. I castelli di nuvole che lei aveva descritto, pieni di oscure figure a doccione, che guardavano sospettosamente una donna che aveva la faccia tosta di sfidare i cieli, sovrastavano strane isole rocciose con dita di pietra puntate verso le stelle.

Una donna che ha la mano sui comandi, in naturale accordo con la volontà del vento – o così sembra finché il vento gira – non ha nulla da temere da nessun uomo. “Voglio farlo, perché voglio farlo,” scrisse Amelia Earhart al marito da quello che sarebbe poi risultato il suo ultimo volo. “Le donne devono provare a fare le cose, come ci hanno provato gli uomini. Se falliscono, il loro insuccesso deve essere una sfida per le altre.”

Le parole mi echeggiavano nelle orecchie, mentre scendevo in picchiata attraverso i castelli di nubi e la forza centrifuga mi inchiodava al sedile, e gli strumenti di navigazione impazzivano.

Mio marito rideva. Aveva sempre desiderato una morte ridente – come chiamano il kuru da queste parti – ed era contentissimo. Non voleva essere salvato.

Questo è quanto ancora non ho detto a proposito di “Sebastian” o “Julian” (chiamatelo come vi pare): voleva disperatamente morire prima di diventare decrepito. Era questa una delle ragioni per cui il sud Pacifico lo affascinava, uno dei motivi per cui era ineluttabilmente attratto dai cacciatori di teste e dai cannibali. E per cui rimase molto deluso, quando nessuno ci mangiò.

Sperava di arrivare alla morte, sperava di raggiungerla, prima che fosse lei a raggiungere lui. L’opera sulla ricerca del paradiso era solo una scusa: non cercava nessuna opera, nessun film: cercava l’ultimo spettacolo di luce guizzante della sua vita.

“Lascialo cadere,” gridava mentre precipitavamo a vite. E cercava di lottare con le mie mani, per allontanarle dai comandi, sperando di impedirmi di riprendere il controllo dell’aereo. Ridendo follemente, coi capelli bianchi svolazzanti nel vento, cominciò a gettare tutto quanto fuori dall’aereo: salvagenti, razioni, carburante.

Fu allora e solo allora che mi prese il panico. Da sola, avrei potuto resistergli, ma la follia di un uomo mi avrebbe condannato, ne ero sicura. In un attimo (l’unico certo che il fato mi concedeva), picchiai una torcia sulla candida testa di Julian e lo stesi secco.

Lui mormorò, sonnecchiò e sognò, mentre io portavo l’aereo fuori dall’avvitamento poco prima che toccassimo la superficie obliqua dell’acqua, ma ormai era troppo tardi per evitare il disastro. Ammarammo, rimbalzammo sulle onde, cominciammo ad affondare. Mi arrampicai fuori dalla cabina appena in tempo. Sebastian/Julian, contro il suo volere, mi permise di tirarlo in mare.

Con riluttanza Sebastian/Julian si rese conto che era Dio e non lui a controllare la situazione.

Ci allontanammo a nuoto, mentre con l’angolo dell’occhio vedevamo il relitto che affondava, e continuammo a nuotare finché il corallo non ci graffiò le ginocchia e non ci tagliò i piedi.

L’isola ci faceva cenno. Era un miraggio? Questo è lo splendente fianco della mia collina? È tutto? Sì.

Circa nove mesi dopo, venimmo raccolti da un miliardario americano e dalla moglie di origine polacca, in crociera su una goletta piena di gente famosa, una specie di nave dei folli, sulla quale fummo accolti allegramente, come a una festa a casa di André McCrae. Potete immaginare lo shock culturale: brindare nei calici Tiffany col Krug del ’61 per People e Time, dopo aver mangiato bruchi e lumache, pesce crudo e radici marce, per quello che ci sembravano dieci anni. (Nell’età della pietra si perde la nozione del tempo.) Avevo bisogno del dentista, come pure della manicure e della pedicure. E arrivai a capire come mai la longevità non fosse una caratteristica della vita umana primitiva. (Comunque, vi assicuro che non è affatto divertente sopravvivere ai propri denti.)

Ora vivo la mia vita come un guerriero. So che è un passatempo, non una privazione: un gioco, non un lavoro.

Tornata nel mio Connecticut dagli splendidi colori autunnali, sulla soglia dell’eternità, di nuovo con mia figlia, col mio roseto (dormiente), il mio cane, le mie poesie, il mio orticello di erbe e aromi, so di essere perfettamente felice. E non sono sola.

Mi muovo verso la luce.

Come una falena sbatto le ali, sia pur solo per morire in una fiammata. Scrivere, dipingere, pregare, fare l’amore, morire negli interstizi tra la luce.

Come dice Leila, finché la carne esisterà, ci sarà sempre qualcuno che si leverà dal calore del mucchio per trascinarsi sulle ginocchia e scarabocchiare disegni – o parole – per compiacere – o irritare – gli dei.

Il mio racconto è senza fine. Come le scatole cinesi, una dentro l’altra, come le bamboline russe, le matrioske, una dentro l’altra, come gli strati di una cipolla, continuiamo a rivelare il nostro cuore nella speranza che non smetta mai di battere.

Vana speranza!

Il mio cuore batte a queste parole.

Io, chiunque sia, immagino Leila, che immagina te, caro lettore, che cerchi la patria, la pace, la madre, il padre, Dio, la dea e speri di trovare la chiave per la serenità tra le pagine di questo libro. Come l’ho trovata io, scrivendolo.

Prendi la tua penna o il tuo pennello e dipingiti dal tuo angolo. Inspira. Espira. Siedi tranquillo.

Io ti aiuterò.

Questa è la mia preghiera e insieme una lettera d’amore per te.