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Decifrare il fuoco

Se vuoi sentirmi delirare, tesoro
Dammi quello che imploro.
Fa placare il mio amore.

Bessie Smith

Dart era dolce. Se Dart fosse stato sgarbato o meschino, sarebbe stato tutto molto più semplice. L’avrei lasciato subito. Ma all’inizio era difficile che Dart mi dicesse qualcosa che non fosse affettuoso, dolce e tenero. Anzi, parlava come quei cartoncini di frasi fatte per auguri. Solo che poi i fatti smentivano le parole. Era come certi attori o certi politici – tutti dolcezza e sincerità a parole, ma poi in pratica solo persone di cui diffidare. “Sarò sempre qui, a tua disposizione,” diceva Dart. Ma in realtà il più delle volte non sapevo nemmeno dove rintracciarlo.

Escogitavo in continuazione sistemi per tenermelo vicino. In viaggio, era relativamente facile, visto che stava sempre al mio fianco. Per questo viaggiavamo tanto. Ma a casa, era più difficile. Se lo studio che gli avevo dato – un delizioso piccolo granaio, illuminato da lucernari, col fienile trasformato in soppalco con camera da letto, bagno personale e perfino una cucinetta – non bastava, allora mi arrovellavo per inventare qualcos’altro. Qualche progetto di lavoro in comune, qualcosa che potevamo fare insieme (anche se poi toccava regolarmente a me realizzarlo, mentre lui era Dio sa dove – mi colpisce a un tratto l’idea che in realtà non l’ho mai visto dipingere o scolpire), ritratti e fotografie che io potevo fargli, brunch e cene con gente importante che poteva essergli utile per la sua carriera. Ma tutte queste cose funzionavano solo per un po’. Lui era fermamente convinto che avremmo dovuto lavorare insieme (cosa difficile per due artisti con una diversa visione delle cose), ma io avrei fatto di tutto per tenermelo vicino, e così tentai anche questa follia.

Ho qui davanti agli occhi uno dei quadri che ho dipinto su disegno suo (lui aveva scarabocchiato un abbozzo su un tovagliolo e poi io l’avevo dipinto) ed è inutile negare che è un aborto. Non è affatto nel mio stile. Avevo dipinto (come stregata) una interpretazione piuttosto cretina del nostro primo incontro sulle Tetons: cowboy e cowgirl che cavalcano nel tramonto su prati in fiore, un’immagine più adatta a una di quelle cartoline di auguri pseudohippy che a una mostra di nuovi lavori di Leila Sand. Ma niente paura: se guardo in basso a destra per vedere come è firmato il quadro, non vedo traccia del mio nome, ma solo “Darton Venable Donegal IV”, a grosse lettere vermiglie.

In nome della nostra vita in comune, arrivai perfino ad acquistare una casa in Greene Street e ad aprirvi una galleria per giovani artisti, in modo che Dart potesse esporre i suoi lavori (lui diceva che era solo fottuta scarogna, se non era mai riuscito a trovarsi una galleria tutta sua). Dart s’era buttato come un pazzo nei lavori di ristrutturazione dello stabile, e poi nell’organizzazione della prima mostra collettiva e del lancio della galleria – chiamata, in nome del nostro primo incontro, Grand Teton Gallery. Ma poi, appena la cosa aveva dato segni di andare veramente bene, Dart di colpo aveva perso ogni interesse nell’impresa, come sempre accadeva con tutte le cose che gli promettevano quel successo che lui affermava di volere. In qualche modo non riusciva mai a mettere insieme il materiale per una mostra personale, anche se prometteva continuamente che l’avrebbe fatto. (Lui sosteneva che era il mio successo a bloccarlo.) E non si occupò mai nemmeno di mandare avanti la galleria, come aveva promesso di fare. Alla fine assunsi una graziosa ragazzetta – che Dart alla fine sedusse – ma nemmeno allora lui cominciò a lavorare per la sua personale.

Eppure a volte sapeva essere così tenero, con me, e così affettuoso. Ricordo una volta che aveva girato per tutta la città in cerca di un gesso che io volevo. E ricordo la volta che rimase tutto il giorno all’aeroporto Kennedy, perché aspettavo una spedizione di materiale dall’Italia e lui sapeva quanto ci tenessi che tutto arrivasse in perfette condizioni. Ricordo come si prendeva cura di me quando ero malata, mi portava il tè a letto, mi portava il consommé, discuteva coi medici a proposito di una mia eventuale allergia a questo o quell’antibiotico. Ma adesso sono arrabbiata e non voglio pensare a queste cose: però sono successe e non posso certo cancellarle. Se solo potessi tornare indietro nel tempo, fino all’inizio della nostra storia e riviverne la dolcezza, venderei l’anima al diavolo. È troppo facile lasciare che la fine avveleni l’inizio di un amore, quando si è disgustati da tutti i continui tradimenti. Ma all’inizio, quando speri di aver trovato il Tuo Unico Grande Amore, il mondo ti pare pieno di tenerezza, cammini sollevata da terra, come se avessi le ali ai piedi, e il cuore sembra una palla di elio, gonfia e perfetta.

“Sono solo il tuo specchio,” mi diceva sempre Dart al tempo del folle, appassionato inizio del nostro amore, quando scopavamo tutte le notti in giro per il mondo – ma credo che allora non mi rendessi conto di quanto fosse vero.

Dart era una luna che aveva bisogno del sole per risplendere. Sapeva sorridere in un certo modo – testa inclinata da un lato, occhi azzurri scintillanti, bocca con gli angoli rialzati in una specie di antica mezzaluna – da sciogliere il cuore di chiunque. Durante uno dei nostri primissimi viaggi, mentre eravamo seduti uno accanto all’altra annebbiati dallo champagne, affondati nelle poltrone di prima classe di un aereo, ricordo di avere notato il modo in cui Dart mi sorrideva: pareva avesse fatto le prove. Era come se qualcuno gli avesse detto quanto era affascinante il suo sorriso e lui lo avesse provato e riprovato davanti allo specchio. Questo, lo pensai i primi giorni, ma poi, naturalmente, me ne dimenticai. Quando stavo stretta al suo cuore, ridotta senza più un filo di buon senso dall’instancabilità del suo cazzo, non lo guardavo più con occhio critico – e il suo sorriso diventava solo un sorriso, le sue cause le mie, i suoi dolori i miei.

Se avessi una macchina del tempo per innamorati e potessi rituffarmi nel passato a mio piacere per rivivere uno dei nostri viaggi, mi chiedo quale sceglierei. Il porto di Hong-Kong al tramonto e le nostre furiose scopate in un enorme letto al Mandarin? O Vivaldi che usciva a fiotti dalla radio, mentre facevamo appassionatamente l’amore nella stanza che era stata di Hemingway, al Gritti di Venezia? O il capanno cadente (fatto di pino di paleria) al Lazy “C” Ranch nel Wyoming, dove scopavamo tutta la notte, felicemente stupiti di avere trovato il nostro partner sessuale? (Dart era il primo uomo che avessi mai conosciuto che come me andasse pazzo per il sesso, che non fosse schizzinoso per sapori e odori, l’unico così giocherellone, vizioso, depravato e selvaggio.)

No... non sceglierei nessuno di quei grandi alberghi, dove sparpagliavamo salviette, lenzuola, sperma, secrezioni viscose e saliva. E non tornerei nemmeno alla prima volta nel paradiso del Wyoming, fatto di pesca con mosche artificiali per esca, cavalcate e focaccine al miele fatte in casa, trota alla griglia e uova strapazzate. Sceglierei invece, abbastanza stranamente, un viaggio che facemmo una volta in Jugoslavia per spendere tutti i dinari bloccati, guadagnati con la vendita dei miei quadri in quel paese.

Mi pare ancora di vedere Dart steso su una spiaggia lungo la costa dalmata (tra Dubrovnik e Spalato, suppongo). Sopra di noi una strada panoramica, intagliata nel calcare. In certi punti si sgretola e crolla, come l’odissea della nostra vita. Sotto di noi sciaborda l’Adriatico. La spiaggia è rocciosa e noi abbiamo steso sugli scogli teli e asciugamani, sui quali è sparpagliata l’attrezzatura da sub coi resti del nostro picnic, fatto di uva, prugne, formaggio, pane e vino rosso fatto in casa, in una sinuosa bottiglia di vetro verde, vergine di etichetta. La spiaggia è deserta e noi due siamo nudi (non spogliati – questo parente più educato della nudità) nel sole abbagliante. Ci stiamo cospargendo a vicenda di lozione solare: prima lui mi unge la schiena con infinita tenerezza, poi io la ungo a lui. Poi lui mi spalma le labbra, i capezzoli, le cosce, le ginocchia... poi mi infila la sua dolce testa ricciuta di ragazzo tra le ginocchia e mi passa lentamente la lingua prima su un lato poi sull’altro del clitoride, spingendo la lingua dentro e fuori da quella cavità in cui vorrebbe risalire, facendomi venire ancora e ancora e ancora, prima di decidersi a farmi mettere in ginocchio e scoparmi brutalmente, quasi dolorosamente, dal di dietro, l’ardore del suo cazzo pari all’ardore del sole che ci brucia. Dopo, stiamo stesi uno tra le braccia dell’altro sulla spiaggia rocciosa, io con la testa sotto la sua ascella, dove annuso l’odore che lega i miei cicli mestruali alla luna, il suo dolce sudore che si attacca in tremule gocce ai riccioletti biondo miele nella curva dell’ascella.

Ricordo i peli ricciuti uno per uno nella luce del sole, la tendenza che la peluria delle sue ascelle aveva ad aggrovigliarsi in piccoli nodi – che poi io tagliavo teneramente, con la forbicina delle unghie; ricordo le volute di peli biondo cenere intorno ai suoi capezzoli, la curva del suo ventre caldo (non piatto come lui vorrebbe, accidenti – l’accidenti è suo, non mio) e quel suo ariete di cazzo, ingannevolmente dolce in riposo, un piccolo bocciolo di rosa che si piega a sinistra e stilla una lacrima di rugiada lucente. Ricordo la forma dei suoi lombi, la vena azzurra che pulsava là dove la gamba si congiunge all’inguine, il pelo dorato sui suoi polpacci, la lunghezza dei suoi tendini. E poi ricordo l’odore un po’ buffo di tarlato che aveva la sua bocca, non sgradevole, ma con un che di corruzione (“l’odore di tarlato che ha il denaro vecchio,” diceva lui, perché sapeva anche prendersi in giro con spirito). Avevo notato quell’odore all’inizio e poi avevo smesso di notarlo... solo per notarlo di nuovo alla fine.

Attraversammo la Jugoslavia a bordo d’una piccola utilitaria jugoslava, una Zastava, l’unica macchina che fossimo riusciti a noleggiare. Il motore doveva essere fatto di plastica, perché da qualche parte sui monti della Macedonia tirò le cuoia. Scoppiettando, la Zastava si bloccò su una strada di montagna in una regione di fabbriche e miniere infernali, dove pareva che i contadini dalla faccia di cuoio con fazzoletti sudati intorno al collo, estraessero il piombo. Ovviamente non si trattava di piombo, ma quella polvere scura stava sospesa nell’aria come una caligine grigiastra, facendo pensare a gnomi nel regno di Oz e di Ev, a fabbriche sotterranee e regioni dall’infernale bagliore.

Non c’era un’anima che parlasse una parola d’inglese in quella terra infernale e non c’erano autorimesse.

“Per caso hai una gruccia di fil di ferro, tesoro?” mi chiese Dart, alzando gli occhi da sotto il cofano dell’auto, venendo tutto tronfio verso di me, come se volesse essere insignito della Legion d’Onore.

Non gli chiesi certo perché. Anzi, non volevo nemmeno saperlo. Dalla mia costosa valigia a piccolo punto coi bordi di cuoio estrassi la gruccia, come se fossi un’infermiera che assistesse a uno di quegli aborti sul tavolo di cucina della mia gioventù. Ero piena d’ammirazione per quella sua abilità tutta WASP di aggiustare le cose – io che ero cresciuta nelle misere Heights di Washington in mezzo a uomini ebrei che pensavano che quando qualcosa si guastava, si dovesse “chiamare l’omino”, inevitabilmente un polacco, o un irlandese o un latino, o comunque uno che apparteneva a quella sottoclasse che esisteva all’unico scopo di risparmiare agli ebrei ogni lavoro manuale. Qualcosa nell’abilità di Dart nell’aggiustare cose come la valvola a farfalla, mi eccitava. Pareva avesse una dimensione sessuale.

E così Dart riuscì effettivamente ad aggiustare la Zastava. Mentre ci allontanavamo scoppiettando nel tramonto jugoslavo, pensai che avevo finalmente trovato la persona che avrebbe aggiustato anche me; il mio compagno, la mia droga, il mio propulsore, il mio amore.

L’amore è la più dolce delle droghe. Quale donna non venderebbe l’anima per il sogno dei due fatti uno, per la dolcezza di fare l’amore al sole sulla spiaggia adriatica con un giovane dio dalle ascelle foderate d’oro? Eravamo compagni, soci, amanti, amici. Io che anche nei miei precedenti matrimoni avevo sempre conservato la mia ossessiva individualità, ora mi abbandonavo alla dolcezza della coppia, della complicità, dell’essere in due uniti contro un mondo di estranei ostili.

Bisogna ammetterlo: le donne famose attraggono furfanti e accattoni. Gli uomini più dolci, quelli normali, sono più timidi ed esitano ad accostarsi. Così ci si guarda attorno e si vede un mondo pieno di Claus von Bulow, di chéri, di Morris T., insomma un mondo di cacciatori di dote, gigolò e imbroglioni. Gli uomini per bene, proprio perché sono per bene, esitano... e in amore, come in guerra, chi esita è perduto.

La vera chiave per capire Dart era suo padre, anche se io mi rifiutai di ammetterlo per quasi cinque anni. Darton Venable Donegal III era una canaglia cacciatore di dote vecchio stile. Henry James avrebbe potuto rendergli giustizia – o anche Dickens. Era alto uno e ottanta, capelli bianchi, viso rosso, e assolutamente incapace di qualsiasi emozione umana. Parlava come una persona, pareva una persona, mangiava come una persona, ma più lo conoscevi (una contraddizione nei termini, visto che era fondamentalmente inconoscibile), più ti rendevi conto che stava impersonando un essere umano, come certe malvage forme di vita che nei racconti di dozzinale fantascienza fingono di essere umane.

La prima volta che incontrai il padre di Dart in carne e ossa, era il giorno del Ringraziamento del primo anno che Dart e io stavamo insieme. Eravamo stati invitati – o meglio convocati – alla villa dei vecchi Donegal a Philadelphia per prendere parte a quella autentica festa americana. Devo ammettere che la mia infanzia ebraica in Dickman Street mi ha lasciato un’eterna, affascinata curiosità per le antiche usanze WASP. Quando scopavo Dart, non scopavo semplicemente un uomo, scopavo la storia americana, il mito del MAYFLOWER, il passato coloniale. Mentre i miei antenati spezzavano con le mani il loro pane di segale in Ucraina, quelli di Dart sceglievano in mezzo a una pletora di forchette d’argento e prendevano il tè alle Colonial Dames d’America. Questa analogia che riguarda il modo di stare a tavola era perfettamente calzante, perché anche se la famiglia di Dart era in declino (come solo i WASP socialmente importanti possono esserlo), aveva ancora abbastanza argenteria e porcellana cinese per servire presidenti e re – nell’improbabile eventualità che qualche presidente o qualche re andasse a trovarli.

Comunque, non arrivarono né presidenti né re. Ma solo il loro figlio venticinquenne e la sua innamorata trentanovenne. Dart era solleticato dalla gelosia del padre nei miei confronti (il padre di Dart infatti conosceva e apprezzava il mio lavoro). Avere venticinque anni e portare a casa un’amante più vicina alla generazione dei genitori che alla propria, è una specie di trionfo, un’ostentazione di superiorità che non mancava di avere il suo effetto su di me.

Capii la gioia di Dart quando mi portò a cena a casa sua e io dovetti constatare che suo padre aveva la peggio, nel confronto, perché continuava a lasciare cadere gli oggetti: argenteria, hors d’oeuvres bollenti e alla fine anche un bicchiere da vino di cristallo di Baccarat, i cui frantumi scintillanti dovette raccattare con elaborata raffinatezza.

La casa dei genitori di Dart era disordinata e piena di vecchiume. Mi faceva pensare ai fratelli Collier. Sedie di finto cuoio strappato stavano sotto ritratti ovali di antenati di famiglia. Antichi pezzi Chippendale erano fianco a fianco con sedie pieghevoli di K-art. La stoffa dei mobili imbottiti era ridotta a brandelli grazie alla solerte opera dei quattro gatti di famiglia, Catullo, Petronio, Bruto e Giulio Cesare (chiamati rispettivamente Cat, Pet, Brute e Julie).

Quando entrammo in soggiorno, il padre di Dart era in ginocchio davanti al camino, intento a riattizzare il fuoco (cosa in cui i maschi di famiglia sembrano piuttosto bravi).

Balzò in piedi e si vide subito che il vecchio Darton era più alto del suo già alto figlio.

“Bene, ragazzo mio,” disse stringendo energicamente la mano di Dart, “fa’ le presentazioni.”

“Leila Sand,” disse Dart, tutto fiero di scopare con un nome famoso.

“Bene, bene,” disse il vecchio Darton. “Quale onore!”

Mi sedetti vicino al fuoco, su una poltrona di finto cuoio rosso (la cui imbottitura sembrava quanto mai vogliosa di uscire a vedere la luce del giorno), e i due Darton padre e figlio andarono in cucina a prendere i drink e le tartine. Mi gustai la scena, così esotica per me, dato l’ambiente da cui provengo, quanto i palazzi gemelli del sultano del Brunei.

La formalità tra Darton III e Darton IV, i mobili frusti, i pezzi antichi Chippendale, l’odore diffuso di naftalina e di piscia di gatto... Tutto per me parlava di waspismo – e il profumo che ne emanava era un afrodisiaco, quanto probabilmente il mio ebraismo lo era per Dart.

Il salotto dell’appartamento cittadino guardava su un giardinetto con una fontana nel mezzo, in cima alla quale un piccolo Eros rabbrividiva intirizzito nell’aria gelida. C’era una luce invernale, ma nella stanza faceva un bel calduccio. Sentii nostalgia di Dart. La nostra unione fisica era tale, che se lui non era nella stessa stanza per più d’un momento, mi sentivo subito esclusa. Quando eravamo insieme, ci tenevamo sempre per mano, ci toccavamo le ossa iliache, ci sfioravamo. Quando ci toccavamo, pareva entrassimo in un luogo primordiale, dove niente importava se non il fatto di toccarci. Era la sensazione più forte che avessi mai provato e cancellava ogni discriminazione, giudizio, senso del tempo.

Comparve la madre di Dart.

Anche se Dart mi aveva avvertito che era obesa, non ero affatto preparata alla sua vista. Era una donna dalle spalle larghe, che pesava forse centocinquanta chili, con un visetto pallido da bambina che si perdeva nei doppi e tripli menti. Portava i bei capelli biondo cenere come doveva portarli quando aveva sette anni: trattenuti ai due lati del viso da una sbarretta di tartaruga; e sul viso aveva l’inconfondibile espressione d’una bambina che ha appena rubato la marmellata. Indossava un abito informe di crêpe nero, con una fila di lustrini intorno alla scollatura rotonda e ai piedi aveva degli stivaletti di capretto bianco, da bambina. Quando si sedette sul divano – cosa che fece immediatamente – la grassezza le impedì di incrociare le gambe o di tenerle unite, perciò rimase con le ginocchia aperte lasciandomi vedere le mutande antiquate e un pezzo delle cosce carnose.

“Bene, salve,” disse con una vocina dolce, affogata nella ciccia. A sessant’anni era più infantile delle mie figlie di sei, come se in lei qualcosa si fosse fermato e il corpo fosse invecchiato, mentre la mente fosse rimasta allegramente, o meglio ostinatamente, nell’infanzia. “Non voglio crescere,” pareva dicessero i suoi occhi azzurri. Vidi subito la somiglianza tra lei e suo figlio, la stessa determinazione a rimpinzarsi di leccornie – fino alla nausea, se necessario – solo per dimostrare che facevano quello che volevano.

“Allora, dov’è il mio drink?” chiese petulante Mrs Donegal. “E dove sono le mie tartine?”

Mi guardò. Provai la vaga sensazione di dovermi scusare.

“Ven! Ven!” strillò lei con una melliflua scala ascendente. “Veeen!” Ven era il diminutivo del padre di Dart. (Mrs Donegal veniva chiamata Muffie, diminutivo di Martha, e Dart, per i suoi, era Trick, per via di qualche etimologia di linguaggio infantile che non avevo afferrato bene.) Nelle famiglie ebree non esistono questi problemi di nomenclatura. A quel tempo trovai la cosa enormemente pittoresca. “Ven”, “Muffie” e “Trick”: non erano nomi che capitava di sentire spesso, nelle Heights di Washington.

Mr Donegal arrivò con le tartine, sistemate su quei vassoietti di alluminio a scomparti, che si usano per scaldare i pasti pronti surgelati, a loro volta appoggiati su un enorme vassoio d’argento inglese stile rococò. Erano piccole ghiottonerie calde di vario genere, tipo tartine di caviale, pâté de foie gras e salmone affumicato. Ce n’era abbastanza per sfamare una dozzina di persone.

Mrs Donegal presiedeva alla distribuzione delle tartine. Era chiaro che non ci si poteva servire da soli.

“Vuole del caviale, cara?” mi chiese Mrs Donegal. E senza aspettare risposta, mi passò una tartina, con il seguente commento: “Mangio caviale dall’età di tre anni, che fu appunto quando mammina me lo fece assaggiare per la prima volta. Finii tutto il vasetto di Beluga col cucchiaino della pappa. Può immaginare come si arrabbiò la tata! Ma mammina disse: ‘Non la punisca, Nurse Frith – era la mia prima tata – non è mai troppo presto perché una ragazza impari ad apprezzare il Beluga...’ ”

Risi un po’ forzatamente. La storia era così palesemente preparata – come se fosse già stata raccontata infinite volte in simili circostanze, sempre per la stessa ragione. Era una specie di codice, e io lo avevo decifrato subito. Voleva dire: “Sono nata ricca, eccentrica e viziata e spero che troverai la cosa deliziosa, perché è il mio unico asso nella manica. Mangiavo il caviale da bambina e adesso lo mangio ancora e sono ancora una bambina.”

“Ah, ah,” risi. “Ah, ah.”

Mrs Donegal parve non accorgersi della vacuità della mia risata. Felice di avere un nuovo pubblico per le sue vecchie storie, continuò a parlare del gusto di mammina in fatto di caviale, del suo debutto da ragazzina allo Stork Club, del suo viaggio di nozze in Europa con Ven (la Delahaye s’era rotta sulle Alpi) e di quanto era caruccio Trick da piccolo. Per tutto il tempo non fece che fumare Pall Mall a catena, deglutire martini e infilarsi in bocca una tartina dopo l’altra.

Dart mi aveva detto che sua madre dormiva tutti i giorni fino alle cinque, praticamente non usciva mai di casa ed era atterrita da quello che avrebbe trovato nel mondo esterno, dal quale s’era ritirata poco dopo la nascita del figlio. M’ero aspettata di trovarla strana, ma la sua stranezza superava tutte le mie previsioni. Non che fosse sgradevole... anzi... solo che sembrava che recitasse brani di commedie, provati e riprovati innumerevoli volte.

“I cartoncini!” disse Mr Donegal. “Abbiamo dimenticato i cartoncini!” Dopodiché andò sulla veranda quasi impraticabile, zeppa com’era di giornali, scatole, elettrodomestici mai aperti e abiti, per tornarne con una serie di buste di varie dimensioni e due scatole di cellofan del fiorista.

“Oh, Ven! Che dolce da parte tua!” esclamò Mrs Donegal.

“Una per te. E una per lei!” disse Mr Donegal porgendo a ciascuna delle due signore presenti una scatola da fiorista.

Aprii la mia con trepidazione, non solo perché detesto i bouquet da appuntare sul petto, ma anche perché indossavo un abito di camoscio molto delicato, che si sarebbe certo rovinato se l’avessi trapassato con una spilla. Nella scatola c’era un mazzolino di rose tropicana un po’ vizze, legate con nastrini arancione e oro.

“Oh, grazie!” mentii. Mrs Donegal aveva un mazzolino identico, che parve riempirla di giubilo. Se lo appuntò immediatamente, con il gambo rivolto di sghembo verso i grandi seni tremolanti.

“Che carino!” disse. “E adesso vediamo i bigliettini!”

Mi misi a giocherellare col mio bouquet, sperando che nessuno si accorgesse che non me l’ero messo. Niente da fare. Mr Donegal si fece avanti ad appuntarmelo sul petto, rovinandomi l’abito di camoscio e dandomi una rapida ma inequivocabile palpatina.

“Felice giorno del Ringraziamento alla mia cara moglie...” leggeva Mrs Donegal ad alta voce. “In questo giorno, mia carissima moglie, ti esprimo la mia riconoscenza, perché sai fare di ogni festa motivo di gioia e di allegria. Senza di te la vita non sarebbe divertente, perciò ti saluto, mia adorata. Felice giorno del Ringraziamento dal tuo Ven...”

Come a un segnale, Mr Donegal si chinò a baciare la sua immobilizzata mogliettina.

“Oh, Ven,” disse lei, “che tesoro...”

“Mai come te,” disse Ven, come se recitasse a memoria.

“Che bella famiglia siamo!” esclamò Mrs Donegal.

Dall’espressione dei due visi maschili, si capiva subito che quella scenetta era stata recitata più d’una volta.

Mrs Donegal procedette con la lettura degli altri cartoncini d’auguri del marito, tutti altrettanto zuccherosi e ipocriti. Lei sembrava sinceramente commossa dai sentimenti espressi. Era la prima volta che vedevo qualcuno prendere sul serio dei biglietti d’auguri ed ero davvero stupefatta. Ero cresciuta in un mondo in cui sentimenti del genere erano motivo di grande ilarità. Al tavolo della mia famiglia la regola erano caustico umorismo e frecciate ironiche. Mi ero sempre chiesta chi comperasse quei bigliettini d’auguri: ora lo sapevo.

A un certo punto, prima di cena, Dart scomparve ai piani superiori della casa e per un po’ non si fece più vedere...

Io rimasi sola alle prese con l’arduo compito di fare conversazione con Ven e Muffie.

La cosa più strana di quella coppia era che la loro conversazione pareva sempre riguardare cose accadute prima del 1947. A lei piaceva parlare della scuola di Miss Porter, della festa del suo debutto, del viaggio di nozze – due anni di baldoria in Europa – mentre a lui dei tempi di Princeton, del club, degli allegri scherzi dei compagni di classe e di come aveva quasi fatto la Rivista della facoltà di legge ad Harvard. In quella casa il tempo si era fermato. Da un momento all’altro sarebbero potuti entrare personaggi dickensiani, come Miss Havisham o Mr Micawber. Non c’era da meravigliarsi che l’unico figlio fosse sparito in bagno, e, a quanto pareva, non avesse più intenzione di riemergere.

Sentii compassione per Dart, che aveva dovuto farsi una vita partendo da un materiale così poco promettente. In realtà era un orfano, perché non c’era nessuno in casa che potesse occuparsi di lui. I suoi genitori erano tutt’e due prigionieri del passato.

“Abbiamo molti artisti in famiglia,” disse Mr Donegal. “Non mi stupisce affatto che lei e Trick andiate così d’accordo. Oltre a Trick, c’era zio Wesley – vero Muffie? – che era un famoso paesaggista del Vermont.” Ven mi indicò un tormentato quadretto con un ponte coperto, appeso sopra il caminetto. “E poi c’era zia Millicent, che faceva dei nudi.”

“Non solo quelli,” disse Muffie, roteando gli occhi con aria di disapprovazione. “Faceva anche altre cose.”

“Mrs Donegal intende riferirsi al suo periodo lesbico, immagino, durante il quale dipingeva signore in varie pose, diciamo così, compromettenti...” si premurò di informarmi Mr Donegal.

“Diciamolo pure,” fece Mrs Donegal.

“Mrs Donegal ritiene che il sesso orale sia una moda superata,” disse Mr Donegal, sbirciandomi lascivo. “Lei che ne pensa?”

Arrossii. Chissà perché, Mrs Donegal mi faceva pensare a quella battuta di Enid Bagnold, che diceva: “Ai miei tempi, solo le negre avevano degli orgasmi...”

“Be’, ehm..., ha avuto i suoi adepti nel corso della storia. Gli antichi greci, per esempio...”

“È perrrfetta per Trick,” esclamò Mrs Donegal. “Sono le uniche due persone al mondo capaci di parlare di antichi greci e sesso orale nello stesso istante.”

Proprio in quel momento Trick (o Dart) ricomparve, imbambolato come un prosciutto natalizio. Qualunque cosa avesse fatto nel cesso, non era certo qualcosa che si comperava alla luce del sole.

“Ven, è pronta la cena?” chiese Mrs Donegal.

“Non ancora, mia cara,” rispose Mr Donegal. “Le ragazze si stanno ancora affaccendando.”

La conversazione languiva. Nel dubbio, sta’ zitta, mi dicevo. Di solito ho la battuta pronta, ma in quel momento non mi veniva in mente un accidente di niente da dire. Forse era l’odore diffuso di waspismo, i gatti, i discorsi o la vodka liscia che avevo bevuto col caviale, ma tutto quello che mi veniva in mente erano banalità di saggezza distillata, tipo “Per un punto Martin perse la cappa”, oppure “Risparmiare i centesimi e sperperare le lire”. Cosa diavolo c’era nei Donegal, che mi faceva parlare come l’Almanacco del povero Riccardo? (Anche se durante la mia egira ero stata sposata a un erede WASP, era stato negli anni sessanta, quando tutti facevano a gara a buttare alle ortiche la tradizione. E ora, negli anni reaganiani, quella roba veniva di nuovo presa sul serio. Stranamente, mi ero adeguata.)

Arrivò la cameriera ad annunciare che la cena era servita. Era una brunetta sui diciotto anni dall’aria scontrosa, con addosso un miniabitino di poliestere bianco, con l’orlo storto. Ai piedi portava stivaletti bianchi da cowboy, di plastica, e sui capelli lunghi e arruffati aveva un grande fiocco bianco. Aveva l’aria di essere stata assunta attraverso l’ufficio di collocamento del riformatorio locale.

“La cena è servita,” disse la ragazza masticando una gomma.

Mr Donegal si alzò (era seduto sul divano sfondato accanto alla moglie) e nel farlo, dallo smoking di velluto verde gli scivolò fuori un pacchetto di preservativi. “Excita”, c’era scritto sul pacchetto a vistose lettere rosa. Io lo vidi. E lui vide che l’avevo visto, e mi guardò con aria di sfida, rimettendoselo in tasca. Fu un attimo, come dicono a teatro. Quale aforismo recitava l’Almanacco in questo caso?

Così andammo a cena. Entrammo nella formale sala da pranzo, con la tavola apparecchiata in modo elaborato con una foresta di bicchieri da vino di cristallo molato, un’abbagliante varietà di forchette e cucchiai, candelabri gemelli d’argento ornati di palline natalizie rosse e verdi.

“Ringraziamo il Signore,” disse Mr Donegal, prendendo la mia mano e quella di suo figlio. Con l’altra mano strinsi la mano di Mrs Donegal, che a sua volta stringeva quella di Dart.

Chinammo la testa.

“Padre celeste, ti siamo sinceramente grati per quanto stiamo per ricevere e promettiamo di badare sempre ai bisogni degli altri. Ti ringraziamo per tutti i doni che ci hai concesso nell’anno passato e che ci concederai in quello a venire... Amen.”

Pensai ai preservativi. Mr Donegal alzò lo sguardo e ficcò i suoi scintillanti e maligni occhi azzurri nei miei. Era sicuro che non avrei detto niente. Non era certo una casa in cui ci si metteva l’anima a nudo. L’aria era pervasa da uno strano gas che impediva alla gente di dirsi fastidiose verità. La conversazione si trascinava scivolando sulle palline di melone, le palle di Natale, cose di routine. Mr Donegal tornò sull’argomento dell’arte, in cui si dichiarava un esperto. Mi chiese cosa ne pensassi di Elisabeth Vigée-Lebrun, Mary Cassatt, Berthe Morisot, Rosa Bonheur. Dissi che le ammiravo molto tutte quante. Allora lui mi chiese se le artiste donne erano ancora discriminate. Io gli risposi che la discriminazione esisteva sempre, ma sotto nuove forme.

Dart mi guardava con adorazione e ammirazione. Quando tenevo testa a suo padre, il suo amore non conosceva limiti. Avevo la sensazione, come mi è capitato spesso in vita mia, di essere su un palcoscenico, in una commedia surreale. Spesso la vita sembra terribilmente strana e le azioni più banali – come una cena per il giorno del Ringraziamento, per esempio – possono essere più strane di un viaggio nello spazio. Mi sento come il visitatore d’un altro pianeta, che osserva il rituale umano con stupore e incredulità.

“Ti amo,” mi disse a lettere mute Dart, dall’altro capo del tavolo.

“Ti amo,” risposi allo stesso modo.

“Be’, ragazzo mio, che hai fatto ultimamente,” chiese Mr Donegal al figlio, “oltre che far felice la nostra Leila?” Il tono era d’accusa. Mr Donegal stava accusando il figlio di essere un gigolò: era la padella che diceva al paiolo, fatti in là che mi tingi. Dart prese la dovuta aria frustrata e sulle difensive che la circostanza richiedeva.

“Ho cercato di mettere ordine negli affari di Leila,” disse. “Stiamo pensando di aprire una galleria in Greene Street.”

“Che splendida idea,” disse Mr Donegal. “Ottima, ottima davvero. Per un’artista come lei, avere la sua galleria personale è davvero un’ottima cosa.”

“Ma non pensavo alla galleria per il mio lavoro,” dissi. “Ho già un gallerista che si occupa di vendere le mie cose... la McCrae Gallery. Era per Trick, e altri giovani artisti, per cercare di lanciarli...”

“Ma è splendido,” disse Mr Donegal. “Lei ha proprio l’aria d’una vera donna d’affari, Leila... una qualità ammirevole, specie in un’artista.” (Mr Donegal diceva spesso le cose come se fosse lui l’arbitro definitivo.) “Cosa ne direbbe se le rivelassi che ho un’ottima proposta d’affari da farle?”

“Oh, no!” mormorò Mrs Donegal. Ma Ven continuò imperterrito.

“Se lei mi affida anche solo cinquantamila dollari da adesso a gennaio, penso di farle triplicare il capitale.”

Dart gemette e guardò sua madre. Mrs Donegal sembrava più pallida del solito.

“Un altro dei tuoi piani balzani per ridurci all’ospizio,” disse.

“Sciocchezze, Muffie cara, è il mio sistema per conservare il capitale. Se vuoi davvero diventare ricca, bisogna pur correre qualche rischio, di tanto in tanto. Mrs Donegal crede che quelle camicie imbottite che stanno dietro gli sportelli della Morgan Bank sappiano veramente cosa farne del denaro. Ma se riescono appena a star dietro al tasso d’inflazione!” (Mi piaceva molto come Mr Donegal pronunciava la parola camicie; ci metteva una sillaba in più, in modo che diventava camiiiicie. Aveva la voce che sapeva di denaro: la voce che Gatsby avrebbe sempre voluto avere e che non riuscì mai a comperarsi.)

“Cosa ne farebbe del denaro?” chiesi.

“Be’, lo triplicherei in meno di tre mesi investendolo in operazioni a termine nella nafta da riscaldamento, come ho intenzione di fare col mio...”

“Dovrai passare sul mio cadavere,” bisbigliò Mrs Donegal, in modo appena percettibile. “Hai già perso abbastanza quattrini.”

“Dobbiamo proprio parlare di soldi il giorno del Ringraziamento?” intervenne Dart. “Lo trovo di pessimo gusto.”

“I giudei non sono mai diventati ricchi preoccupandosi del cattivo gusto,” disse Mr Donegal. Mi diede un’occhiata e si corresse: “Volevo dire gli ebrei.”

“Giudei non è mica una parolaccia, Mr Donegal,” dissi, mentre la cena mi restava nel gozzo, come vomito che stesse per salire. Volevo dire a Mr Donegal che la sua immediata associazione degli ebrei con il cattivo gusto e l’avidità di denaro, era non solo antisemita ma anche un cliché indegno della sua intelligenza, ma non mi uscirono le parole. Mi sentivo debole e stordita. Avrei voluto essere altrove. Era la solita storia, quando qualcuno faceva battute antisemite; sentivo l’impulso di correggerlo con enfasi e allo stesso tempo provavo un gran mal di stomaco, per cui non ci riuscivo mai. Qual era la risposta? Percorsi con l’alluce la gamba di Dart sotto il tavolo. Mrs Donegal prese il campanello di cristallo e lo agitò per chiamare Miss Riformatorio. La cena del giorno del Ringraziamento era in pieno svolgimento. Dopo le palline di melone, venne servito un enorme tacchino. La serata si stendeva davanti a noi, sconfinata come il Sahara. Mr Donegal si mise a trinciare il tacchino come se stesse facendo un sex show dal vivo. C’era qualcosa di osceno nel modo in cui manipolava le cosce, facendole staccare alla giuntura, per poi tagliarle via con un coltello affilato.

Insoddisfatta di ciò che accadeva nel presente, Mrs Donegal si rifugiò di nuovo negli anni quaranta, l’ultimo decennio in cui s’era sentita a suo agio, e iniziò a raccontarci che era stata una ragazza manifesto per l’USO, durante la guerra.

“Sì,” disse Mr Donegal, “mentre io rischiavo la vita nel Pacifico, Mrs Donegal posava nuda per degli artisti lascivi.” L’idea di Mrs Donegal che posava nuda non collimava con nessun genere di lascivia.

“Lui voleva che io posassi nuda,” disse Mrs Donegal. “Ma io non lo feci.”

“Sì, sì, cara,” fece Mr Donegal, fingendosi geloso, sia pure in modo poco convincente.

Mrs Donegal, tutta compiaciuta, triplicò i suoi menti e sorrise civettuola. Mr Donegal le strizzò l’occhio in una parodia di flirt stile anni quaranta e la discussione a proposito delle operazioni a termine venne dimenticata. La coreografia della danza rituale del loro matrimonio era stata stabilita molto tempo prima ed era tanto improbabile che cambiasse, quanto i numeri di uno stanco ma collaudato musical da un pezzo in cartellone. Erano amici intimi di tavola, amici da cartoncino d’auguri e complici nell’autoillusione. Ogni buon matrimonio è in parte una folie à deux, ma quello aveva vinto la palma del successo d’una vita. Era come se Miss Havisham si fosse unita con Mr Micawber.

Dopo cena, Mr Donegal insistette per portarmi a fare il giro dei cimeli di famiglia. Mentre Dart si raccoglieva con sua madre in intima comunione, io mi trascinai di malavoglia dietro a Mr Donegal per stanze e stanze di scatole, anticaglie zeppe di ragnatele, pigne di giornali, scaffali incurvati dal peso, zeppi di libri polverosi e armadi pieni fino a scoppiare di roba di tutti i generi. Ogni oggetto davanti al quale Mr Donegal indugiava doveva illuminare di gloria la famiglia. C’era l’elmetto del padre, della prima guerra mondiale, il sorridente ritratto di nozze della madre irlandese, il fregio che stava sul cofano della famosa Delahaye che aveva tirato le cuoia sulle Alpi, una veduta aerea della precedente villa di famiglia a Philadelphia (liquidata da tempo per pagare le tasse di successione). Alla fine salimmo nell’attico, un ammuffito emporio pieno di polverose rastrelliere di abiti. In pratica era un museo del costume, in cui si stipavano tutti gli abiti senza corpo degli antenati dei Donegal: abiti degli anni venti, uniformi della prima guerra mondiale, abiti da sposa, redingote. Se gli abiti si fossero per magia riempiti dei corpi di tutti quegli scomparsi Venable, Donegal e Darton – che danza macabra!

Mr Donegal sollevò un abito anni venti sottile come un raggio di luna, tutto scintillante di perline.

“Di mia madre,” disse Mr Donegal. “Non vorrebbe provarselo?”

“Oh, no, grazie,” dissi.

“La prego,” insistette lui. “Mi farebbe talmente piacere vederlo addosso a qualcuno.”

“Non credo che mi andrebbe bene,” ribattei.

“Ma certo che le andrà bene,” disse Mr Donegal. “Era sottile come lei... e anche lei aveva capelli tiziano, biondo veneziano, come diceva lei. Sarebbe un onore per me fargliene dono.”

Lui era insistente e io temevo di sembrare sgarbata, così presi l’abito, sparii dietro una fila di abiti, mi tolsi il vestito di camoscio (bouquet compreso) e sollevai con cura sopra la mia testa quella guaina polverosa e scintillante. Ero così intenta a non rompere quel cimelio, che non vidi (o non sentii) Mr Donegal insinuarsi alle mie spalle. Prima di accorgermene, una delle sue mani era sul mio seno e l’altra sull’inguine. Infilò rapidamente l’indice sotto la chiusura del mio body di pizzo color crema e me lo passò scherzosamente sul clitoride. Lanciai uno strilletto, ma ero immobilizzata perché avevo tutt’e due le braccia alzate per il timore di rompere l’abito.

“La prego!” dissi attraverso la stoffa sottile, ma Mr Donegal mi ignorò. Ora mi si premeva addosso e sentivo la sua erezione, curiosamente curva come quella del figlio. Lasciai cadere l’abito, un mucchietto di polverosi raggi di luna, e schizzai dietro un’altra rastrelliera di abiti, dove rimasi immobile, aspettando che Mr Donegal venisse a reclamarmi. Mi venivano in mente immagini di caccia alla volpe e io ero la volpe atterrita in attesa che i cani annusassero l’odore della mia paura. Passarono quaranta secondi, ma Mr Donegal non arrivava. Avevo il respiro aspro e corto – un misto di paura e, devo osare dirlo? eccitazione sessuale. Aspettavo rabbrividendo nel mio body di pizzo finché alla fine capii di essere rimasta sola nella stanza.

Tremante, umiliata, ritrovai la strada fino al mio abito di camoscio, me lo misi, mi ricomposi e scesi di sotto.

In salotto mi trovai davanti a un quadro di Hogarth della famiglia Donegal che chiacchierava tranquilla intorno al fuoco, come se niente fosse.

Mr Donegal stava accarezzando l’abito di sua madre, che teneva amorevolmente in grembo, come un cucciolo. Pensai che l’intera famiglia doveva essere completamente pazza – e pericolosa, per giunta – e che avrei dovuto scapparmene via subito. Purtroppo non ascoltai il mio istinto.

Mentre scendevo in mezzo a loro, Mr Donegal si alzò e mi tese l’abito scintillante.

“Un piccolo ricordo del nostro incontro,” disse, sostenendo il mio sguardo.

“Non posso...” dissi.

“Sciocchezze,” disse Mr Donegal. “Lei deve. Le va alla perfezione.”

Presi l’abito, con la sensazione di essere pericolosamente oltre le mie capacità di comprensione.

Sulla via del ritorno a Roxbury da Philadelphia, Dart era desolato e contrito.

“Sono mortificato che ti abbia chiesto del denaro,” disse.

“Non preoccuparti,” dissi. “Capisco cosa vuoi dire, quando parli di lui. Non è facile stargli dietro.”

“Non hai visto che la metà,” disse Dart. “Tanto per cominciare, non ha mai combattuto nel Pacifico: è un’invenzione totale. E poi, lo sai che una volta è stato in prigione?”

“La cosa non mi sorprende,” dissi. Ma dopo avere sentito la storia che Dart mi raccontò delle malefatte del padre (aveva sottratto il denaro di un cliente ed era stato espulso dall’albo), non ebbi il cuore di raccontargli quello che era successo in soffitta. Mi chiesi quasi se era successo davvero o se mi ero immaginata tutto, evocandolo dalla polvere e dai raggi di luna.

“Voglio essere un brav’uomo per te,” disse Dart/Trick, con le lacrime che gli rigavano le guance. “Non voglio essere come mio padre.” E credo che fosse sincero. Ma tra gli uomini e i loro padri, l’intenzione è l’ultima cosa che conti.