6

Esperienza, forza, speranza

Datemi uno spinello e tanto gin.

Ammazzatemi, perché sono nel peccato.

Ammazzatemi, perché sono pieno di gin.

Wesley Wilson

E fu così che andai alla mia prima riunione dell’Anonima Alcolisti.

Immaginatevi una chiesa stile neoclassico nel rurale Connecticut, senza nessuno che entri dal portone principale e un sacco di gente che entra invece da dietro. (Ah, il ritorno alla chiesa dal di dietro! Che arcano simbolismo, nell’epoca dell’AIDS!) Il mio idraulico, Mr Raffaella, è tra quella gente. E così pure un rinsecchito artista dalla barba grigia, di New Milford, che ho conosciuto una sera a una cena (e di cui non ricordo il nome); la bibliotecaria locale; qualche teenager cencioso e altri invece lustri e tirati a pomice; un vecchio negro con cinque o sei denti in tutto, un certo numero di cittadini dall’aria solida, casalinghe e altri yankee del Connecticut, non alla corte di re Artù, ma coi loro begli stivali da barca, i pantaloni di velluto a coste e camicie di madras. Perché sto tremando?

Emmie mi conduce nel seminterrato della chiesa, come se fossi una bambina di due anni il primo giorno d’asilo. La stanza è molto fumosa e molto accogliente. La gente sta seduta su sedie pieghevoli o sta in piedi accanto all’unico tavolo, a bere caffè, a fumare accanitamente, a mangiare biscotti, ad abbracciarsi, a parlare tra loro. Il mio primo impulso è scappare. Cosa diavolo ci faccio, qui?

Il mio idraulico mi fa un cenno con la testa e mi dice: “Benvenuta.” Sono troppo nervosa per rispondergli. Né Miss Buone Maniere, né il suo contrario, mia madre, mi hanno mai insegnato cosa dire quando il tuo idraulico ti saluta a una riunione dell’Anonima Alcolisti. Emmie mi porta vicino alla caffettiera e mi prepara un caffè con un mucchio di latte e zucchero, poi mi accompagna a una sedia nella parte anteriore della stanza.

“Come sapevi che la riunione era qui? Non sei nemmeno del Connecticut!”

“C’è un libro delle riunioni.”

“Sei così fottutamente efficiente!” le dico.

Lei mi guarda e sorride. Dolcemente. “Ero assolutamente terrorizzata la prima volta che ci sono venuta. Succede a tutti.”

“Cosa devo fare?”

“Niente.”

“Sai bene che è la cosa più difficile del mondo per me.”

“Per questo ti ho portata qui. Se poi non ti va, non sei obbligata a tornarci.”

“Mai più?”

Emmie ride.

Alle pareti della stanza ci sono dei pannelli di cartone con delle scritte. “Prima le Prime Cose”. “Pensa” (questo è attaccato alla rovescia). “Vacci piano!” Banalità. Ma questa gente non sa parlare inglese? Ci sono anche due enormi liste. Una si intitola: “I dodici gradini”. E l’altra: “Le dodici tradizioni”. La prima riga dei Dodici gradini, dice: “Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcool, e che la nostra vita era diventata ingovernabile.” Non leggo oltre.

“Dove portano, quei gradini?” chiedo a Emmie.

“In cima al tuo monte,” dice lei. “Comunque tu lo chiami.”

“Monte Leila,” dico.

“È un sostantivo o un verbo?”

“Un verbo,” dico prontamente, per nascondere la paura.

Odio quel gergo. Voglio disperatamente andarmene.

“Non mi ci trovo, qui,” dico a Emmie.

“Prova a fare l’editing del primo gradino: ‘Ho scoperto di essere impotente di fronte a Dart, e che la mia vita era diventata ingovernabile.’ Poi ascolta e vedi se ti va quello che senti.”

Alzo gli occhi verso il primo gradino e sostituisco “Dart” alla parola alcool. La mia vita è tutto meno che governabile. La mia vita è... Mi metto a piangere. Nessuno sembra accorgersene, eccetto una donna che mi si avvicina e mi abbraccia. “Sei venuta nel posto giusto,” mi dice e mi dà il suo numero di telefono su un pezzetto di carta gialla. Entrata in un mondo in cui la gentilezza sembra la regola e non l’eccezione, voglio andarmene. La riunione ha inizio.

Qualcuno fa degli annunci e legge un preambolo pieno di parole come “forza”, “speranza”, “amicizia” e “sobrietà”. Poi una donna, presentata come Fleur di Boston, si alza e comincia a parlare.

Decido che Fleur di Boston, una donnina dall’aria spaventata, sui quarantacinque, sarebbe perfetta nella parte di Blanche du Bois in una produzione filodrammatica di Un tram che si chiama desiderio. Ha capelli bruni a ciuffi, uno sguardo remoto negli occhi grigiastri ed è magra come un uccellino, al punto da sembrare quasi fragile. I suoi polsi sono così esili, che si ha l’impressione che solo a toccarli si possano spezzare.

“Si dice,” comincia lei con un marcato accento di Back Bay, “che gli alcolisti rovinano la vita della gente che sta loro intorno. Non mi sono mai innamorata di un uomo che non fosse un alcolista e bevo raramente, se non insieme con gli uomini della mia vita. Loro bevono, perciò io bevo. Non bevo per bere, capite, ma per amore.”

L’ultima cosa che voglio sentire è la storia di una donna che è riuscita a liberarsi dell’amore. Sono terrorizzata – non che il programma con me fallisca, ma proprio che abbia successo. Odio l’aria di zuccherosa sicurezza che regna in questa stanza. Rivoglio il tumulto: il tumulto dentro.

“Mi sono svegliata in un sacco di letti senza sapere come ci fossi finita e ho visto accanto a me uomini che russavano, di cui non conoscevo il nome,” dice Fleur. “In principio, erano uomini coi quali andavo a scuola, uomini di cui conoscevo la famiglia, ma alla fine erano uomini che non erano mai andati a scuola, che non avevano più né famiglia né madre e che non erano mai stati in chiesa.”

Ecco dove mi porterà la mia vita: nel seminterrato di una chiesa, ad ascoltare banalità? Sono un’artista, io. La mia vita non è mai stata come quella degli altri. Anche adesso, sono a Dubrovnik con Dart, e stiamo scendendo giù per una stradina di ciottoli, a bordo della Zastava. È mezzanotte. Luglio. Non riusciamo a trovare un albergo. Abbiamo bevuto il vino locale dalla bottiglia per tutto il giorno – e quando la macchina sbanda su una stradina quasi verticale, per un pelo non andiamo a sbattere contro le mura massicce di una fortezza. Lancio un urlo. “Un colpo mancato, anche se di poco, è sempre mancato,” dice Dart.

“Quando la polizia venne e trovò la mia bambina,” dice Fleur, “io ero in stato di incoscienza in camera da letto...”

Un bambino morì, mentre ero a Dubrovnik con Dart. Una femminuccia. Io ho due bambine. Cerco di ascoltare, ma non riesco proprio a concentrarmi sulle parole di Fleur.

Guardo invece la lista intitolata “I dodici gradini”.

1. Abbiamo ammesso di essere impotenti di fronte all’alcool e che la nostra vita era diventata ingovernabile.

2. Siamo arrivati a credere che una Forza più grande della nostra poteva ridarci la salute.

3. Abbiamo deciso di affidare la nostra volontà e la nostra vita alle cure di Dio, come noi Lo intendevamo.

Forse “Dio” è davvero la mente sana, penso.

“La mia bambina mi venne portata via e messa in un istituto,” dice Fleur. “Io fui mandata in prigione, dove tentai per tre volte di togliermi la vita e venni rinchiusa in un ospedale psichiatrico per detenuti, prima di diventare finalmente sobria e cambiare vita.”

Un attimo di tregua, penso, mentre le lacrime mi scendono per le guance.

“Perché proprio io? chiedevo furiosa a Dio. E perché mia figlia? Per anni non sono riuscita a trovare una risposta. Ubriaca, portavo estranei in casa mia. Avrei potuto ammazzare me e i miei figli in un incidente d’auto, o in un incendio o avrei potuto sparare loro per sbaglio con la pistola che tenevo per difendermi dagli intrusi... gli intrusi che io stessa invitavo in casa mia, con la scusa dell’amore.”

Voglio allontanare da me la storia di Fleur, e allo stesso tempo voglio ascoltarla. Sono inquieta, furiosa – e stranamente affascinata. Tra i brani della storia di Fleur e i sogni di Dart, tremo e mi agito. Mi alzo e vado a prendere una manciata di biscotti, poi torno al mio posto.

4. Abbiamo fatto un esame e un coraggioso inventario morale di noi stessi.

5. Abbiamo ammesso davanti a Dio, a noi stessi e a un altro essere umano l’esatta natura dei nostri errori.

6. Eravamo completamente preparati a dare a Dio il compito di eliminare tutti i nostri difetti di carattere.

Poi segue un lungo e noioso racconto dei gradini della guarigione di Fleur, che comprende anche i suoi tentativi per riavere l’ultimo figlio rimastole, un bambino che, credeteci o no, si chiama Donegal. Fleur è “sobria” ormai da dieci anni. La figlia che ha perso oggi avrebbe diciannove anni. Lavora in un ospedale per bambini al minimo della paga e trova un “particolare piacere” nell’occuparsi delle ragazzine. Dice di aver rinunciato al sesso per almeno sette dei suoi dieci anni di sobrietà – un attimo di respiro! – ma recentemente ha conosciuto “un uomo che l’ama per quello che lei ha sofferto e per la pace che ha trovato”. Lui le ha dato un’altra figlia, in cui vede la possibilità di “sfatare il suo destino”.

Gesù, come odio lo stupido ottimismo! E il peggio deve ancora venire.

“Grazie al Programma,” continua Fleur, “sono felice di essere viva. Comincio sempre la giornata chiedendo a Dio di guidare i miei passi e ogni sera vado a dormire ringraziandolo. Il mio lavoro in ospedale consiste nel dare consigli alle adolescenti. Cerco di aiutarle a capire che l’amore comprende anche l’amore di se stesse e che ognuna di loro ha un giardino dentro di sé, che non devono avere un uomo per dare valore alla loro esistenza. Secondo me, anche in questa nostra epoca presumibilmente femminista, le ragazze ancora non lo sanno. Pensano di non essere niente, senza un uomo, e si sacrificano sull’altare dell’amore romantico, dell’amore sessuale... dimenticando Dio, dimenticando l’amore divino, dimenticando tutto, a parte la cieca necessità di sentirsi valorizzate dall’attenzione di un uomo. Cercano dovunque l’oggetto del loro amore, mentre non si accorgono che il più meritevole oggetto d’amore è lì, dentro loro stesse.”

“Andiamo a farci fottere fuori di qui,” dico a Emmie.

“Tra poco,” dice lei.

“Dopo tutti i miei tentati suicidi,” continua Fleur, “ho capito che potevo dare un senso alla morte della mia bambina, solo restando sulla terra dopo di lei e dedicando la mia vita al servizio di altre bambine. E in questo mio lavoro ho trovato una grande gioia – e anche dolore – che ha cambiato tutto quello che prima credevo di sapere. Non so perché Dio abbia deciso di infliggermi questa dura lezione, ma forse sono stata io ad attirarmela con la mia ostinazione. Perché io credo che siamo noi stessi a procurarci queste lezioni, secondo le nostre esigenze.”

Un attonito silenzio accoglie questo discorso. Poi lentamente la stanza ricomincia ad animarsi. A uno a uno, tutti si alzano e cominciano ad applaudire e ad abbracciare Fleur.

Ci sono cinque minuti di pausa per un caffè, prima che comincino gli interventi dei partecipanti.

“Sono così tutte le riunioni?” bisbiglio.

Emmie ride. “Nemmeno per sogno. Questa era fatta espressamente per te. Il Programma è come l’elisir di Mary Poppins: diventa la medicina adatta per qualsiasi male. Tu volevi la cura per la sesso-dipendenza? L’hai avuta.”

“È proprio l’ultima cosa di cui vorrei essere curata,” dico.

“Lo so,” ribatte Emmie. “Opporsi alla cura è il primo gradino della cura.”

“Devo parlare?”

“Solo se vuoi sentirti meglio.”

Durante quasi tutti gli interventi, tiro su dal naso e studio la lista dei Dodici gradini.

7. Abbiamo umilmente chiesto a Dio di eliminare i nostri difetti.

8. Abbiamo fatto una lista di tutte le persone a cui abbiamo fatto del male e ci siamo ripromessi di fare ammenda.

9. Abbiamo fatto ammenda con queste persone quando ci è stato possibile, a parte quando questo poteva ferire loro o altre persone.

10. Abbiamo continuato a fare l’inventario personale e quando avevamo torto, lo abbiamo ammesso subito.

11. Abbiamo cercato attraverso la preghiera e la meditazione di migliorare il nostro rapporto con Dio come noi lo concepiamo, chiedendo solo di sapere quello che Lui vuole da noi e di avere la forza di farlo.

12. Essendo arrivati al risveglio spirituale attraverso questi gradini, abbiamo cercato di portare questo messaggio agli altri alcolisti e di mettere in atto questi principi in tutto.

Alla fine, viene passato un cestino per le offerte e poco prima che la riunione venga aggiornata, Fleur si rivolge a me.

“La signora dai capelli rossi,” dice, indicandomi.

Guardo Emmie per sapere cosa devo fare. Forse in realtà è a lei che Fleur si rivolge.

Lei si stringe nelle spalle.

“Sono Leila,” dico, “e non bevo da un’ora.”

“Benvenuta,” dice Fleur. “Funziona, se lo fai funzionare.”

Quasi tutti nella stanza si girano e si mettono ad applaudirmi, come se fossi un’eroina.

Dopo la riunione, la gente indugia intorno al tavolo del caffè e dei dolcetti. Molte donne mi si avvicinano a darmi il loro numero di telefono. Prendo tutti quei pezzetti di carta e li infilo nel mio filofax, pensando di gettarli via appena arrivo a casa.

Se li prendo, almeno potrò andarmene da qui.

Mentre mi riporta a casa con la sua station wagon color argento, Emmie dice: “Sai che per tutto il primo anno non ho mai aperto bocca, alle riunioni? Me ne stavo lì in fondo alla stanza, e mi nascondevo.”

“Io ho dovuto dire qualcosa. Non so nemmeno perché. Per quasi tutto il tempo, non stavo nemmeno ad ascoltare. Fissavo la lista dei Dodici gradini e pensavo che somigliano molto al ‘Codice d’amore’...”

“Cos’è il ‘Codice d’amore’?”

“Le regole dell’amore dei poeti provenzali non sono altro che una complicata codificazione dell’amore. Sono state scritte secoli fa. Eppure non è cambiato nulla.”

“Allora, cosa ne pensi della riunione?” chiede Emmie.

“Noiosa,” dico. “Anzi, sarebbe meglio dire noiosissima.”

“So cosa vuoi dire. Certe riunioni sono noiose da morire. E ti dà fastidio il fumo. E le banalità... un atteggiamento di banalità, lo chiamo. Eppure, funziona. Come dicono loro, funziona se lo fai funzionare. Non so nemmeno perché funzioni. La grazia, suppongo.”

“Da quanto tempo lo fai, Emmie? E perché non me lo avevi mai detto?”

“Non me lo avevi mai chiesto.”

“Però avresti potuto dirmelo.”

“Perché? Se alcool e droga erano ancora un divertimento, per te, perché avresti voluto saperlo? In realtà non lo volevi sapere, altrimenti me lo avresti chiesto.”

“Da quanto tempo sei socia?”

“Circa una decina d’anni. Ho cominciato a Parigi, quando stavo in Boulevard Raspail. Ricordi il mio periodo di orge parigine? Ah, gli anni sessanta che stavano diventando gli anni settanta... prima che la droga ci intossicasse.”

Emmie aveva vissuto a Parigi dal 1969 al 1979, un bel periodo per stare a Parigi. Aveva scritto lì il suo primo libro, un libro sulla liberazione sessuale delle donne che in realtà era un libro sulla liberazione personale. A Parigi faceva parte di un giro di gente in continua bisboccia, che comprendeva tutti quelli che fossero qualcuno nel mondo del cinema e degli intellettuali e che si dedicava a tutto spiano a droga, sesso e rock and roll. Il modo perfetto per una ragazza uscita da una scuola di suore di trascorrere gli anni settanta. Io allora vivevo una vita diversa, prima con Thom, poi con Elmore, poi con Elmore e le gemelle, perciò la vedevo solo in occasione delle mie rare visite a Parigi. Non avevo mai saputo che si drogasse, pensavo che le sue uniche droghe fossero il sesso e la cioccolata. (La sua scorta d’emergenza arrivava a venticinque centimetri di Toblerone.)

Certo non rispondeva all’idea che io, o chiunque altro, potesse avere di un’alcolizzata.

“Così sei diventata sobria senza dirmelo. Sapevi che avevo un problema?”

“Sapevo che tu eri convinta di poter controllare tutto della tua vita. Che è già un problema, se non ci si riesce.”

“Credi che io sia un’alcolista?”

“Quello che penso io, non ha alcuna importanza. Tu pensi di esserlo? È una delle poche grandi malattie che ci dobbiamo diagnosticare da soli – come l’amore. Non importa quello che io, o chiunque altro, pensi. Forse tu sei una comune amore-dipendente e bevi solo con gli uomini. Io non lo so. Io so solo che il Programma mi ha salvato la vita.”

“Andiamo, Emmie, questo è delegare agli altri le proprie responsabilità.”

“No, non è vero, la verità è che non ti ho mai visto cadere per terra sbronza e la verità è che tu vivi la tua vita in modo abbastanza ragionevole, prendendoti cura di tutti, me compresa, ma non mi sembra che ti diverta molto. Eccoti lì, con le tue belle gemelle, una carriera fulminante, tutta la tua intelligenza, il tuo spirito e la tua vitalità, e sei pronta a gettare la spugna, solo per un giovanotto vizioso.”

“Un che cosa?”

“Un Dart qualsiasi.”

“Ma io amo Dart. Non avevo mai provato niente...”

“So benissimo che ami Dart. Ma quanto ami Leila?”

Colpita dalla domanda, rispondo: “Non molto.”

“Allora c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato. Perché Leila è amabile.”

“Tu dici?” chiedo, leccandomi le lacrime. “Dici sul serio?”

“Tesoro, ma perché mai pensi che sia stata qui tutto questo tempo? Perché sei una persona odiosa? Anche con tutta la tua follia, quella che tu chiami la tua mishugga, sei sempre la persona migliore che conosca. Tu dai, dai, e dai. A tutti. Meno che a Leila. Adesso tocca a lei.”

“Ma sono un’alcolista?”

“Non lo so,” mi risponde Emmie. “Chiedilo a te stessa, non a me.”

Giriamo per il verde Connecticut a fare spese. Mazzi di fiori. Pomodori. Aglio. Pasta. Poi torniamo a casa mia e ci mettiamo a cucinare.

Facciamo sugo di pomodoro fresco per la pasta e bistecche di pesce spada ai ferri e pannocchie di grano fresco. Muovendoci indaffarate tra la cucina e la griglia in giardino, siamo assurdamente felici.

“E alle cinque,” dice Emmie, “ci facciamo focaccine e tè col miele.”

“Diventerò grassa come un porco.”

“Ne dubito,” dice Emmie.

Per un’oretta, seduta con Emmie e il cane nel verde dell’inizio d’estate del dolce Connecticut, sono in pace. Dopo pranzo, ci stendiamo sul fianco della mia collina e guardiamo le nuvole in cielo, dando loro un nome, a seconda dell’animale o dell’uccello cui somigliano. Sembra che ci sia qualcosa di drasticamente sbagliato, qualcosa che manca.

“Dart. Chissà quando avrò notizie di Dart.”

“Mai, spero. Ma dubito che riesca a starsene lontano.”

“Come fai a dirlo?”

“Leila, tu hai bisogno di Dart come un pesce di una bicicletta. È Dart che ha mille volte più bisogno di te, che non tu di lui.”

“Se ha tanto bisogno di me, dov’è adesso?”

“Lontano, a provocarti. Se tu smettessi di farti provocare, sarebbe lui a diventare pazzo. State facendo una specie di danza. Tu hai bisogno di stare in sospeso e lui ha bisogno di tenerti in sospeso.”

“E il sesso?”

“Già, e il sesso?”

“Non è mai stato così bello come con lui. La verità è che se comincio a essere così contenta di me, non permetterò più a Dart di strapazzarmi e se non permetto a Dart di strapazzarmi, lui non mi scoperà più...”

“Tu l’hai detto, non io.”

“Secondo me non è possibile avere un grande rapporto sessuale, senza un briciolo di violenza e di prepotenza... è come connaturato al sesso. Quando li adoriamo, cediamo su tutto. Tutto il mio intelletto si ribella a questa idea, eppure le mie kishkas, le mie viscere, sanno che è vero. Quando Dart mi scopa, sento di essere viva. Quando non lo fa, avvizzisco.”

“Hai mai pensato che queste sono sensazioni, non fatti?”

“Non ho mai vissuto senza un uomo. Ho bisogno del sesso per alimentare la mia creatività. Ho bisogno della carne viva, per arrivare a contatto con l’ispirazione.”

“Tu hai bisogno di te per alimentare la tua creatività. Dart ti allontana da te stessa. Dalle gemelle. Dal tuo lavoro. Se fai di te stessa il centro della tua vita, se smetti di dare via la tua forza, uomini di altro genere si sentiranno attratti da te – uomini tuoi pari, non dominatori e deboli.”

“Come chi? Thom era un debole. Elmore, nonostante tutte le sue chiacchiere sull’uguaglianza, era tanto un dominatore che un debole. Perfino le gemelle lo sanno. Quando le ho accompagnate all’aeroporto, Ed mi ha detto: ‘Mammina, perché dobbiamo andare da papà? Papà è solo un bambino grande. Sei tu che ci mantieni, che ti prendi cura di noi. Lui ci dà solo degli ordini.’ Allora le ho detto: ‘È vostro padre e voi lo amate.’ E Mike: ‘Ma sei sicura che sia nostro padre?’ ‘Sicurissima,’ le ho detto. ‘Okay, mammina,’ ha detto Ed, ‘ti crediamo sulla parola.’ ”

“Loro sanno che lui è un debole e uno smidollato. Loro sanno su chi possono contare e su chi no. Io cerco di dire loro quanto è grande Elmore, e loro mi ridono in faccia. Hanno dieci anni, ma sanno già tutto. Una volta mi hanno perfino chiesto se l’avessi mai fatto su un aereo. ‘Sì,’ ho risposto, ‘Umido o asciutto?’ Ci ho riflettuto un attimo, poi ho risposto ‘Asciutto.’ ‘Ah, ma allora non conta,’ ha detto Ed. ‘Noi pensavamo al Mile-High Club.’ ‘E che ne sapete del Mile-High Club, voi pisher?’ ho chiesto io. ‘Noi leggiamo,’ ha detto Mike. ‘E vediamo quei video che hai tu,’ ha detto Ed. (È stato uno choc, ma ho fatto finta di niente.) ‘Bene,’ ho detto, ‘se c’è qualcos’altro che volete sapere sul sesso, per favore chiedetelo a mammina. Non rivolgetevi agli estranei, d’accordo?’ ‘D’accordo, mammina,’ ha detto Ed, ‘ma sappiamo già tutto.’ ‘Già, anche il sesso pantrico’ ha detto Mike. ‘Vorrai dire tantrico,’ ho detto io, felice di quell’angolino di competenza. ‘Te l’avevo detto che non era pantrico,’ ha detto Ed a Mike. E sono corse via a giocare con la Barbie.”

Emmie ride e ride. “A cosa giocano?”

“Giocano alla Barbie che entra a far parte del Mile-High Club, suppongo. Con le gemelle, non si sa mai... hanno una loro vita tutta segreta.”

Durante la serata, la storia di Fleur mi torna alla mente. E in parte comincia anche ad avere un senso.

“Continuo a pensare a Fleur,” dico, “e alle donne che non sanno amare le loro figlie in modo sano, se non riescono ad amare se stesse in modo sano... capisci cosa intendo dire?”

“Sì, capisco.”

“E questo mi fa pensare a Theda, che certo non si amava – eppure è riuscita a darmi questo coraggio pazzesco, questa spavalderia, la sicurezza di poter fare qualsiasi cosa. E anche Dolph. Sono talmente figlia di mio padre. La follia di mia madre ha contribuito ad accendere la mia ambizione in uno strano modo. È come se volessi redimere la sua vita, fare in modo che il suo sacrificio sia valso a qualcosa. Se solo fosse riuscita a smettere di bere.”

“Parlami del ‘Codice d’amore’,” dice Emmie.

“Fammi trovare il libro.”

Corro in soffitta e mi metto a frugare sugli scaffali in cui tengo i miei libri del tempo di Yale. Eccolo: un volume verdognolo e polveroso. “Costumi sociali dell’Italia del Cinquecento” che ho conservato per tutti questi anni perché parla della tradizione dell’amor cortese e del suo ritorno nel Rinascimento.

Tiro fuori il libro, con grande cautela come fosse un’antica pergamena, sigillata in una tomba, rimasta isolata dal contatto con l’aria. Come per magia, il libro si apre proprio alla pagina intitolata “Codice d’amore”. Resto lì in piedi, da sola, in soffitta, nella luce polverosa del sole che spiove dagli abbaini e lo sguardo scorre sui fogli:

I. Il matrimonio non è una scusa per non amare.

II. Chi non è geloso, non può amare.

III. Nessuno può essere legato da due amori.

IV. L’amore diminuisce o aumenta sempre.

V. Ciò che l’amante prende dalla sua amata contro la sua volontà, non dà piacere.

VI. Un uomo può amare solo quando ha raggiunto la piena virilità.

VII. Un amante morto deve essere pianto per due anni dalla sua amata che gli sopravvive.

VIII. Nessuno dovrebbe essere privato dell’amore senza un valido motivo.

IX. Nessuno ama, a meno che non sia spinto dalla persuasione dell’amore.

X. L’amore è avvezzo a evitare la dimora dell’avarizia.

XI. È sconveniente amare chi ci si vergognerebbe di sposare.

XII. Un sincero amante non desidera godere dell’amore di nessun’altra, che non sia la sua amata.

XIII. Raramente l’amore risulta duraturo quando viene divulgato.

XIV. L’amore conquistato facilmente diventa disprezzabile; l’amore conquistato con difficoltà, viene tenuto caro.

XV. L’amante è avvezzo a impallidire alla vista dall’amata.

XVI. Il cuore dell’amante trema alla vista repentina dell’amata.

XVII. Un nuovo amore si porta via il vecchio.

XVIII. Solo la probità rende degni d’amore.

XIX. Se l’amore diminuisce, presto muore e raramente rinasce.

XX. L’amante è sempe timido.

XXI. L’affetto di un amante aumenta sempre per la vera gelosia.

XXII. Lo zelo e l’affetto dell’amante sono sempre aumentati dal sospetto dell’amata.

XXIII. Mangia e dorme meno chi è tormentato dal pensiero dell’amore.

XXIV. Ogni gesto dell’amante è dettato dal pensiero dell’amata.

XXV. Il vero amante pensa sia bene solo quello che piace all’amata.

XXVI. L’amore non può rifiutare nulla all’amore.

XXVII. L’amante non può stancarsi dei favori dell’amata.

XXVIII. Una lieve arroganza costringe l’amante a sospettare dell’amata.

XXIX. Non è preso d’amore chi è tormentato dalla lascivia.

XXX. Un vero amante sta nell’eterna contemplazione dell’amata.

XXXI. Niente impedisce a una donna di essere amata da due uomini e a un uomo da due donne.

“L’amore cresce o diminuisce,” dico ad alta voce. “Un amante morto deve essere pianto per due anni dall’amata.” Mi attacco a queste due frasi, neanche fossero i pilastri della mia mente sana.

Corro di sotto a leggere “Le regole dell’amore” a Emmie, che mi ascolta attentamente.

“Perché ti fanno venire in mente ‘I dodici gradini’?” mi chiede alla fine.

“Perché gli esseri umani hanno questo bisogno di codificare tutto, anche il crepacuore, anche la disperazione. ‘Le regole dell’amore’ e ‘I dodici gradini’ sono due universi paralleli. Sono come un relitto galleggiante per una persona che sta annegando. È consolante sapere che altri ci sono passati prima.”

“Intendi dire che non sei l’unico essere umano che incespica, l’unico amante che incespica?” mi chiede Emmie non senza ironia. “Intendi dire che ti è permesso essere imperfetta?”

“Esattamente,” dico, fingendo di ragionare con la mia mente sana. È una delle prime regole del Programma, che ho imparato da Emmie: “Comportati come se.” Se non riesco a trovare la mia mente sana, posso sempre fingere di averla trovata. Forse alla fine non fingerò più.

Emmie resta con me la notte e quella dopo, e quella dopo ancora. I primi tre giorni senza bere, sono duri. Ogni giorno alle cinque ho una tale voglia di vino, che ho la sensazione di non riuscire a vivere senza alcool, e invece andiamo a una riunione, poi torniamo a casa e ci abboffiamo di gelato.

Eppure sento che manca qualcosa, alla mia vita. I giorni mi sembrano lunghi tre volte più di prima. La casa mi sembra vuota senza Dart, senza le gemelle, senza il rito del bere.

Emmie e io portiamo tutto il vino in uno stanzino in cantina e chiudiamo la porta a chiave, poi seppelliamo la chiave da qualche parte, vicino al mio studio.

“Se mai volessi bere, ti toccherebbe chiamare un fabbro,” dice Emmie. “In teoria dovremmo buttare via la chiave... ma potresti dovere dare una festa e avere bisogno di quella roba.”

“Quanto ci vorrà, prima che mi passi questa voglia di vino ogni giorno alle cinque?”

“Credo che tu sia come molte altre donne: bevi con gli uomini.”

“E dato che non c’è sesso nella mia vita, non avrò bisogno di bere, giusto?”

“Non ho detto che non ci sarà mai...”

“Oh, Emmie, perché diavolo mi hai trascinato a quella maledetta riunione?”

“Trascinarti? Sei stata tu a trascinare me. Non penserai che abbia fatto tutta questa strada per una riunione!”

Il quarto giorno vado nel mio silo e comincio una natura morta. Emmie è nella stanza degli ospiti stesa sul letto ad acqua a leggere una mezza dozzina di libri sull’osteoporosi, mentre tende orecchio e naso agli ettolitri di salsa di pomodoro che sta facendo in cucina. Tutta la casa odora come un ristorante italiano. L’odore di cibo mi è di conforto – e anche la presenza di Emmie.

Nel mio studio, preparo la mia natura morta. Scelgo con cura gli elementi: una dozzina di uova bianche formato gigante in una coppa di cristallo Lalique con menadi che danzano intorno al bordo, un uovo di cristallo trasparente, una lattiera di porcellana bianca a forma di mucca, un vaso a cilindro di vetro trasparente pieno di rose bianche e di calle, e sotto una tovaglia di pizzo bianco antico, che drappeggio, in modo che sembri una catena di montagne innevate.

Drizzo il mio cavalletto portatile vicino alla natura morta, ci appoggio sopra una tela nuova, strizzo i colori a olio: ambra, ocra, blu, verde e tutte le sfumature del bianco e comincio a perdermi nella sfida di trovare il caleidoscopio di colori che stanno nella parola “bianco”.

Appagata, felice, mi sento come se avessi dieci anni e avessi riconquistato il mio vero io, quello che conoscevo prima che cominciasse la danza del sesso, prima che le ondate di ormoni si abbattessero sulla mia vita. Sono felice, più felice di quanto non mi sia mai sentita da anni.

Le cinque arrivano e passano senza che io senta il bisogno di bere o della riunione. Dipingo come in trance, completamente assorta nel dramma della tovaglia bianca, degli angoli di luce mutevoli sul cristallo, delle menadi che danzano come hanno danzato per secoli, degli ovuli femminili, della mucca piena di latte, delle nubi piene di pioggia e del cielo che si scurisce.

Per una volta, non m’importa che il sole tramonti, perché non sto dipingendo la mia natura morta alla luce naturale, ma alla luce della mente. Accendo le potenti lampade che uso per le mie fotografie e continuo a dipingere. Le vallate della tovaglia bianca scintillano come se fossero coperte di neve delle Alpi. Le uova mostrano piccole protuberanze calcificate, come ovaie che stanno per emettere i loro follicoli. L’uovo di cristallo sembra trattenere il futuro nelle sue profondità. Le rose e le calle si schiudono davanti ai miei occhi.

In trance, dipingo e dipingo. La mente chiara, il cuore che mi canta nel petto, sono in estasi.

Verso le undici di sera, Emmie arriva nello studio con un piatto di pastasciutta, un bicchiere di tè freddo alla camomilla col miele e una coppa colma di pesche affettate.

Ci sediamo al mio tavolo da disegno e lei mi guarda mangiare.

“Quattro giorni di sobrietà,” dice Emmie. “Complimenti. E la dea bianca ti ha mandato un dono per festeggiare.”

Ci voltiamo tutt’e due a guardare la natura morta, che sembra effettivamente finita. Ha una chiarezza, che il mio lavoro non aveva mai avuto prima. So di stare facendo qualcosa di nuovo, qualcosa che va oltre i cowboy o gli autoritratti, qualcosa di puro, limpido, adamantino complesso e scintillante come la neve.

Le chaim!” Cin cin, dice Emmie, brindando con me col suo bicchiere di tè alla camomilla. Facciamo tintinnare i bicchieri e ridiamo, ridiamo.

Dart mi chiama quella notte tardi. È circa l’una e Emmie dorme.

Quando sento la sua voce al telefono, il mio cuore fa una piccola buffa danza. Credevo di desiderare tanto che mi chiamasse, ma adesso sono un po’ sconcertata. Voglio conservare la mia nuova chiarezza.

“Baby, cosa stai facendo?”

“Oh, niente, solo dipingendo,” dico. “Il solito.”

“Ti manco?”

“Certo.”

“Anche tu mi manchi terribilmente, baby,” dice con voce incrinata. “Non c’è nessuna come te, nessuna così dolce, folle, selvaggia e sexy. Tesoro, torno a casa.”

In quattro giorni, sono diventata una regina. Ora, di colpo ridivento pedina. Quando compare Dart, Leila scompare.

Mi giro e mi rigiro nel letto, aspettando, senza riuscire a dormire. Mi alzo e mi trucco, mi profumo e mi metto la camicia da notte di seta, mi metto il diaframma e torno a letto. Vorrei essere tanto forte da dirgli di non farsi più vedere alla mia porta, ma non lo sono. Emmie dorme nella stanza degli ospiti; la mia tela umida scintilla nello studio. Aspetto a letto che un diavoletto venga a reclamarmi. Fuori della mia finestra, una luna piena circondata dall’alone fluttua sulle colline. Vado alla deriva nel sonno e mi sveglio per scoprire che sono le tre. Mi alzo, mi lavo la faccia, mi lavo i denti, mi metto un pullover sopra la camicia da notte ed esco sulla mia collina.

La luna ha quasi completato il suo arco. Non ha più l’alone e sta bassa sull’altro lato dell’orizzonte. La fisso, poi chino la testa nove volte, cercando di pensare al mio più grande desiderio. Prima, il desiderio era sempre lo stesso: Dart. Adesso il desiderio è per me. Esprimo il desiderio di riuscire a conservare la chiarezza che questi quattro giorni mi hanno portato.

Ho appena espresso questo desiderio, che sento lo scoppiettio del motore della moto di Dart e lo scricchiolio della ghiaia sul viale. Il cane abbaia. Mi inginocchio sulla collina e tendo le mani alla luna.

Per cosa sto pregando? Credo di stare pregando per il ritorno della mia mente sana.

Sono in ginocchio davanti alla luna, quando lui entra in casa, usando la sua chiave, e si precipita in camera da letto a cercarmi, poi si precipita fuori, in direzione del mio silo.

Mi sento afferrare dal panico: non so perché, ma sono convinta che se lui entra e vede la mia natura morta cristallina, la distruggerà, perché capirà subito di essere stato soppiantato da un’altra musa. Gli corro dietro, chiamandolo: “Dart! Dart!” e lo raggiungo proprio un attimo prima che entri nello studio.

Lo abbraccio, lo trascino verso il pendio erboso. Lì, sotto la luna beffarda, ci accoppiamo come strega e maliardo, gridando e urlando nell’erba rugiadosa, rotolando, ridendo come pazzi, rotolando giù per la collina fino al limitare del mio steccato interrato. Qui ci fermiamo sul lato del fossato e scopiamo ancora, eccitati dalla luna piena e azzurrognola.

“Baby, tu sei pazza, pazza...” dice Dart, senza capire che tutta la mia follia era solo per tenerlo lontano dalla mia natura morta, che nelle mie grida e nel mio venire, trattengo un pezzetto del mio cuore – un sobrio angolino sano, che non potrà più darsi.

Conduco a letto Dart, che vi crolla esausto, tenendo le braccia attorno a me e dormendo sul mio seno, come un bambino. Immobilizzata, giaccio sveglia e guardo la luce rosea dell’alba che comincia a levarsi oltre i miei alberi. Da una parte della mia camera da letto, cala la luna; dall’altro lato, sorge il sole. Io sto nel mezzo... Iside con Orus tra le braccia, Astare con Adone, Rhea con Zeus, destinato a detronizzarla.

Ma potremo mai detronizzare la terra? La terra è sempre lì, qualunque cosa facciamo. Basta che ci togliamo le scarpe e ristabiliamo il contatto delle nostre piante dei piedi con il terreno.

Dart geme e si gira, lasciando la presa, e di colpo sono libera di respirare. Mi stendo supina, mentre la mia mente galoppa. So che dormirà per ore, so che ha un bisogno infantile di sonno, specie dopo il sesso.

Scivolo fuori dal letto, mi metto tuta e pianelle e torno nello studio. Chissà se la mia natura morta è davvero così bella come la ricordo.

Lo studio puzza di trementina, l’odore silvestre della terra. Accendo la luce... e là, sul cavalletto, c’è il mio scintillante testamento di una nuova vita.

“Grazie, luna,” mormoro.

In un impeto d’eccitazione, lavo i pennelli, raschio la tavolozza, appoggio una nuova tela sul cavalletto e metto l’altro dipinto ad asciugare. Sistemo di nuovo gli elementi cristallini della mia natura morta e comincio una seconda versione di questo studio albino – stavolta più fantastico e astratto, con la luna che tramonta dietro le menadi danzanti e le uova trasformate in piccoli pianeti roteanti, e la mucca che spruzza latte nell’universo stellato.

Dipingo e dipingo, rapita, felice, immaginando tutta un’intera serie di quadri basati su questo tema cristallino, con ciascuno di questi elementi, luna, menadi, uova, mucca, latte, che diventa un emblema di una nuova vita per le donne, per i bambini, per il pianeta. Le chiamerò “Vite albine” I, II, III e così via fino all’infinito e farò anche grandi tele di uova, di menadi, di rose bianche... prendendo sempre questi stessi temi e guardandoli da tutti i punti di vista, in tutte le dimensioni.

Vedo una nuova mostra, un nuovo periodo, un nuovo modo di rispecchiare la mia vita. Alle otto del mattino, sto ancora dipingendo, con la mente che galoppa e il cuore colmo... quando arriva barcollando Dart con una tazza di caffè in mano.

“Che succede, baby,” mi dice, “non ti piace più dormire tra le mie braccia?”

Mi volto a guardare lui, le sue palpebre rosate, i riccioletti biondi, quell’uno e novantotto di mascolinità pura... e sono leggermente seccata di essere stata interrotta. E sono anche un po’ spaventata.

“Cosa ne pensi?” gli chiedo indicandogli la mia nuova tela.

Dart indietreggia barcollando di qualche passo (che sia un po’ fatto?).

“Lo vuoi proprio sapere, piccola?”

“Sì,” mento.

“Be’,” dice lui, “lo sai che io penso che tu dipinga meglio di chiunque altro, dopo Michelangelo, ma ricordo ancora il tempo in cui dormivi tutta la notte tra le mie braccia e niente poteva strapparti via di là.” Fa graziosamente il broncio, pensando che io sia punta dal senso di colpa – come se questo caos di rapporti spezzati fosse tutta opera mia. Poi si volta e esce con passo deciso dalla stanza, facendomi ammirare la forma perfetta dei suoi bei polpacci.