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Il pappa e la pittrice

Tesoro, non è che pensi che l’amore d’un uomo non possa mai durare. Ti amano fino alla morte e poi ti trattano come una cosa del passato.

Bessie Smith

Emmie, Dart e io facciamo colazione tutti un po’ a disagio. Emmie la prepara: panini tostati, marmellata, uova, caffè fresco e pesche. Anche se Emmie non impone la sua presenza tra Dart e me, tuttavia io la sento, e Dart pure. Emmie sta dalla mia parte. Non dice niente, non fa niente (si fa per dire, visto che ci ha preparato una colazione deliziosa), eppure Dart ce l’ha con lei, perché capisce che Emmie allenta la presa che lui ha su di me. Vorrebbe dirle di andarsene, ma ovviamente non può. Se sono sola in casa, aspettando che lui vada e venga a suo piacere, sono interamente alla sua mercè. Se c’è Emmie, invece, no.

Ecco il paradosso degli uomini deboli e delle donne forti: ci succhiano tutta la forza, nella speranza di bilanciare la lotta. Ma siccome non possono assimilare la nostra forza, ottengono solo il risultato negativo di togliercela. In una società che dà all’uomo il potere ufficiale, il confine tra violenza mentale e fisica è molto sottile. Come si fa a sapere dove comincia una e finisce l’altra? Dart non mi picchia (se non per gioco sessuale), non mi punta un fucile alla tempia, ma le armi che teneva in casa e il suo continuo e imprevedibile andirivieni, ottengono lo stesso scopo.

Emmie: “Allora, Dart, com’è New York?”

Dart (imbronciato): “Sempre la stessa.”

Emmie: “Di cosa ti sei occupato?”

Dart (risentito): “Oh, di questo e quello.”

Leila: “Dart, racconta a Emmie del tuo nuovo progetto.”

Dart (alzando gli occhi): “La mostra dei giovani artisti? La casa che stiamo costruendo?” (Dart ha sempre una dozzina di progetti in ballo, dei quali nessuno va in porto, ma tutti richiedono profusione di capitale – del mio capitale.)

Leila: “Qualsiasi.”

Dart: “Bene... la casa è una grossa spina nel fianco. Gli operai non si presentano mai in orario al lavoro, gli ispettori edili vogliono bustarelle sempre più gonfie e l’amministrazione comunale ci sommerge di ingiunzioni. Lo faccio solo per te, piccola.” (Occhiata piena di sentimento.)

Leila: “Lo so... e non credere che non l’apprezzi.” (Questa stupida affermazione mi sarebbe dovuta restare in gola, perché so bene che l’intero progetto è tutta una messa in scena: solo un inutile tentativo di rafforzare l’autostima di Dart.)

Emmie: “Deve essere eccitante rinnovare tutto l’edificio.”

Dart: “Sì, eccitante per te, forse, o per lei... visto che a nessuna delle due tocca stare là a occuparsene.”

Emmie: “Ma certo, a me piace il lavoro ingrato...” (Sguardo di rimprovero – al quale io reagisco con un senso di colpa. È stato Dart a volere che comprassi quell’edificio e adesso se ne lamenta. Finisce che sono io la responsabile tanto del suo ozio che della sua fatica, della sua fama e della sua oscurità, del suo successo e del suo fallimento.)

Leila: “Ma caro, sei così bravo, in quello che fai.”

Dart: “Voglio essere il migliore degli uomini, per te, ma tu non sei mai contenta. Qualunque cosa io faccia, non è mai abbastanza... Ogni vittoria, è una sconfitta.”

Leila: “Questo non è vero!”

Dart: “È verissimo, invece: sei sempre così critica, nei mei confronti. Non lo dici, ma io lo sento. Sempre.”

Emmie: “Credo che tornerò all’osteoporosi.” (Scivola via nella stanza degli ospiti.)

Leila: “Ma di cosa diavolo stai parlando, Dart?”

Dart: “Cerco di fare tutto quello che posso per te: poso per te, rimetto a nuovo la tua proprietà... e non è mai abbastanza. Mai. Non mi prendi sul serio. Sono anni che ti imploro di sposarmi, e tu niente. Come faccio a prendermi sul serio, se tu non vuoi sposarmi? Mi tratti come il tuo gigolò, non come il tuo uomo. Non c’è da stupirsi se mi sento un pappa, un mantenuto, uno stallone, una specie di principe consorte scopatore. Prima mi castri, poi te ne vai tutta festante a dipingere un’altra natura morta.”

Mi alzo e lo abbraccio. Le “Regole dell’amore” mi risuonano nella mente. “È sconveniente amare chi ti vergogneresti di sposare.” Come se avesse sentito queste parole, Dart mi allontana da sé.

Dart: “Vuoi sapere cosa mi è successo ieri? Stavo camminando per Harlem, dove dovevo procurarmi del materiale edile... [leggasi: droga]... e un omaccione nero mi grida. ‘Ehi, ragazzo, sei un pappa e manco lo sai. Sì, bianco, sei proprio un pappa nato.’ ”

Dart lo dice con un misto di orgoglio e di schifo: combinazione unica che ha imparato alla perfezione, emulando il padre.

Leila: “Tu non sei affatto un pappa, caro... tu sei il mio amante.”

Dart (con le lacrime che gli rotolano giù per le guance): “Sì invece, lo sono, lo sono, lo sono. Se non mi sposi, sono solo il tuo mantenuto, il tuo gigolò. Lo sanno tutti... vorrei tanto che lo capissi anche tu.”

Adesso sono anch’io sull’orlo delle lacrime. So che “pappa, mantenuto” è quello che Dart pensa di se stesso, ma cosa posso farci? Non posso rifargli l’immagine che ha di se stesso, non posso farlo sano, integro, onesto. Tocca a lui, farlo.

Mi prende per mano e mi trascina di nuovo in camera da letto. Chiude la porta a chiave. Sul letto di ferro bianco, col sole che inonda la sopraccoperta, comincia a farmi fare l’amore, leccandomi e stuzzicandomi e facendomi venire e venire. I miei orgasmi sono stranamente freddi e insensibili. Semplici riflessi condizionati. È robotica, non passione. “L’amore aumenta o diminuisce sempre,” dice la mia mente sana. Cerco di ricambiare, ma Dart non vuole che gli tocchi il cazzo. “No, baby, ...sono io che ho la mano sui comandi.” Dopodiché continua a farmi venire ancora e ancora.. finché diventa quasi doloroso e io lo prego di smettere.

Isadora: Basta!

Leila: Eppure una volta ti piaceva.

Isadora: A me piace quando è dolce e tenero, non un semplice massaggio.

Leila: Devi essere cambiata parecchio, dall’ultimo libro!

Poi mi fa mettere in ginocchio, mi dice di stringere un mucchio di cuscini e mi scopa pazzamente dal di dietro.

A un tratto si ferma, sentendo il mio diaframma col suo cazzo duro e arcuato, infila due dita dentro di me e lo tira fuori, facendolo volare per la stanza come un frisbee. Lancio un grido e faccio per correre a riprenderlo, ma lui mi tiene stretta, e mi scopa, mi scopa fino a venire in una convulsione violenta, riempiendomi del suo seme.

“Piccola, piccola, piccola,” geme, tirandomi giù sul letto con lui, coprendomi col suo corpo, umido di sudore e di sperma. Giaccio là con lui, dominata, conquistata, stremata – e intanto spero di non essere rimasta incinta e insieme spero di esserlo, perché ora la mia ambivalenza è completa. Con la mia chiarezza appena ritrovata capisco che il sesso è un’arma per lui, ma una remota parte di me lo accetta come il destino della femminilità.

Dart cade in un sonno profondo e io pure. Nel sogno, do la tetta da succhiare a un neonato, che alza gli occhi su di me e a un tratto diventa una piccola mucca di porcellana. Gli elementi della mia natura morta danzano nel mio sogno: uova, rose, gigli, menadi, coppa di cristallo e mucca... e sono immobilizzata sotto il peso di Dart, incapace di alzarmi e andare a dipingere. Deve essere questa la mia versione dell’inferno, penso: immobilizzata sotto un uomo, incapace di alzarmi e di andare a dipingere... per tutta l’eternità.

Scivolo in uno strano sogno sul professor Max Doerner, il cui libro I materiali dell’arte era molto decantato da un mio insegnante di Yale; lo stesso che mi fece conoscere “Le regole dell’amore”. Nel sogno però non è questo insegnante, ma Max Doerner in persona che mi fa lezione.

“I suoi quatti si tisintegrano,” dice il professor Doerner. “Lei afere abbandonato la tecnica dei fecchi maestri.” Cammina tutto impettito per lo studio. “Pigmenti! Gesso! Panni fecchi!” strepita. “Fecchia calce spenta infecchiata nella cava! Benozzo Gozzoli! Benozzo Gozzoli! Benozzo Gozzoli!”

Il professor Doerner è un nano: si apre la patta e si agita il cazzo davanti alla classe. “Fecchia calce grassa!” grida.

A un certo punto di questa sua tirata, mi sveglio (la luce del sole mi dice che deve essere circa mezzogiorno) accanto a Dart addormentato, e spero che il risultato della lotta di potere sessuale della notte scorsa non sia la gravidanza. È già abbastanza dovermi occupare delle gemelle. La sola idea di riuscire a destreggiarmi con Dart, le gemelle, un altro bambino piccolo e la mia arte, è illusione pura. Ogni tela che sono riuscita a tirare fuori dal mio caos, è stata fatta alle spalle delle divinità ctonie, che esigono sangue, sangue, sangue di donna e parto a ogni costo. Ogni donna che riesce a produrre qualsiasi dipinto, dovrebbe ricevere la paga da soldato – per quella battaglia combattuta in cielo tra Rhea e Zeus. Non ho mai abortito, perché nonostante le mie convinzioni politiche, ritengo che ogni ovulo sia una vita umana e non potrei mai distruggerne uno, come non potrei mai strappare una delle mie tele. Ma in un certo senso sono stata fortunata, perché non sono una donna dotata di eccezionale fertilità, perciò non sono stata afflitta dalla gravidanza come alcune.

Una sola gravidanza ha prodotto due belle bambine che finora mi hanno dato soprattutto gioia e allegria – e per il dolore che verrà, spero di essere preparata.

So che la lotta tra l’arte e la vita non finisce mai. È già abbastanza difficile per l’uomo, che non è vincolato alla sopravvivenza della specie. Per la donna, è un vero dilemma, un enigma senza soluzione – finché non arriva, forse, alla libertà della menopausa di cui parla Emmie. Devo crederle? Dopotutto, Emmie non è mai stata madre e non sa che la maternità ti rimodella il cuore. Ma io sono la madre di Dart – o delle gemelle? O di qualcun altro, che non ho mai conosciuto? Se avessi un figlio maschio, Dart non sarebbe mai rimasto tanto a lungo nella mia vita. L’idea comincia a girarmi per i meandri del cervello. Smettila, mi dico e mi riappisolo per un po’, nella speranza che il sonno dipani l’aggrovigliata matassa degli affanni.

Quando Dart si sveglia, è già ora di pranzo. Atterrita dall’idea di chissà quale prodezza inventerà oggi, mi sveglio di colpo, con un sobbalzo di paura, con una gran voglia di un drink, di una riunione, di qualsiasi cosa, che non sia Dart.

Dart si gira nel letto e sorride, coi suoi bugiardi occhi azzurri.

“Piccola, sei bellissima.”

“Davvero?”

“Sì.” Si strofina contro i miei capelli, i miei seni, il mio ombelico.

“Dio... ho mal di testa, la bocca asciutta, devo lavarmi i denti.”

Si alza barcollando e va in bagno a fare le sue abluzioni.

Divisa tra l’idea di restare ad aspettare che torni e mi scopi, e l’idea di balzare giù dal letto, resto lì stesa, perduta in me stessa, pensando che gli ultimi giorni senza di lui sono stati più facili della maggior parte dei giorni con lui.

Di colpo mi viene questa terribile idea: e se tutte le donne ammettessero con se stesse che gli uomini rappresentano un fastidio più grande di quanto non valga la pena? Pensate che liberazione, sarebbe! Ma che abissi di terrore, apre un’ammissione del genere! Se una donna autosufficiente, con tutti i figli che vuole, si sente ancora dipendente dagli uomini, allora deve essere proprio un’esigenza antica e insondabile. Non è solo un’esigenza sessuale. Può essere il bisogno di sentirsi valorizzate, in un mondo in cui essere donna non è abbastanza valorizzante in se stesso. E quando impareremo a valorizzarci da sole?

Dart torna a letto. Si tuffa nelle coperte, come l’ho visto spesso tuffarsi nel mare dei Caraibi.

Mi bacia il collo, le orecchie, i seni. Sembra voglia fare di nuovo l’amore, ma ci tratteniamo tutt’e due, come se fosse stata presa una decisione. Ricordo che una volta Dart mi ha detto: “Ce l’hai sempre a disposizione, piccola.” C’era un tono di risentimento, nella sua voce, come se il suo atteggiamento “non posso darti altro che amore, piccola,” irritasse anche lui. Ha sempre usato il sesso come un’arma, risentendosi del fatto che sia l’unica arma che ha.

Quando una relazione funziona bene solo a letto, alla fine tutt’e due i partner si innervosiscono. Diventano nervosi, perché non vogliono mai alzarsi dal letto. Diventano nervosi perché devono alzarsi dal letto... Diventano nervosi perché la Terra della Scopata è un luogo in cui si perdono tutti i propri limiti. La carne viva è quello che cerchi, ma che ti fa anche paura.

È come se Dart e io fossimo arrivati in fondo a una lunga e tortuosa strada. Il sesso comincia a venire a noia. (“Un amante non può mai stancarsi dei favori della sua amata.”)

“Piccola,” dice Dart giocando il suo ultimo atout, “dobbiamo smettere di bere e di drogarci. Sono pronto a provare con l’Anonima Alcolisti. E tu?”

Di questo argomento, Dart e io abbiamo parlato di tanto in tanto, ma non ultimamente. È come se Dart avesse intuito i miei discorsi con Emmie e fosse pronto a cercare di fare continuare la nostra Danza macabra. La mia risposta però non è altrettanto cinica.

“Oh, tesoro,” dico come un robot, “ma è meraviglioso!” E il guaio è che dico sul serio.

E così Dart, Emmie e io finiamo tutte e tre alla stessa riunione nella chiesa neoclassica.

Dart è a disagio, sta seduto tutto rigido sulla sua sedia e si guarda in giro disperatamente.

Anch’io mi sento a disagio e in qualche modo responsabile della reazione di Dart al Programma. E se la riunione non gli piacesse? E se dovesse rinunciare al Programma? Sarei tentata di rinunciare anch’io? Emmie ha ragione. Credo sempre di poter controllare tutto.

Da qualche parte nel profondo di quest’ansia, c’è la chiave del pasticcio che ho finito per fare della mia vita. Se solo potessi essere e smetterla di assumermi la responsabilità di quello che gli altri sentono. La resa, ecco quello che cerco. Credevo di cercare la carne viva, e invece cerco la resa, la capitolazione. L’accettazione dell’universo. Del fatto che è Dio e non Leila ad avere in mano le redini del mondo.

La riunione comincia col preambolo e la presentazione dell’oratore, un uomo sulla cinquantina, coi capelli bianchi, che fuma nervosamente e ha un tic all’occhio destro. Mi chiedo se Dart ha notato l’inquietante somiglianza di quell’uomo con suo padre.

Dart continua a scalpicciare per terra come un puledro. Sembra molto in ansia. Be’, e perché non dovrebbe esserlo? Non lo ero anch’io, alla mia prima riunione?

L’oratore si presenta come Lyle di New York e comincia il suo discorso.

“Se volete davvero sapere quanto bevevo in confronto a quanto sono sobrio adesso, vi dirò solo che vivevo su un’isola al largo della costa del Maine con la mia prima moglie e i miei sette bambini. Per raggiungere il continente, c’era solo un piccolo motoscafo. La mia idea del divertimento era prendere il motoscafo e andarmene per settimane per conto mio, lasciando a terra la mia famiglia. Ogni volta che mia moglie si lamentava di questo trattamento, la mettevo al tappeto con un pugno. Non ne sono fiero, ma la verità è che tornavo a casa, prendevo tutti a pugni e me la filavo un’altra volta. Erano miei prigionieri, capite, e io mi immaginavo che loro dovessero accettare il fatto, perché ero io a pagare i conti. Non sono orgoglioso di dire che li trattavo tutti come fossero mia proprietà.”

Dart ascolta attentamente, ma non riesco a immaginare quale sia la sua reazione.

Emmie bisbiglia: “Smettila di cercare di immaginare cosa prova Dart. Tu cosa provi?”

“Rabbia,” dico. “Disgusto.”

Lyle continua con la sua saga di violenze alla moglie, ai figli, violenza psicologica e violenza mentale. Il mondo è così pieno di violenza di tutti i generi. Se fossi Dio, la spazzerei via tutta quanta e ricomincerei da capo. Mi infurio, a stare ad ascoltare questo decalogo dell’ubriacone. Non mi identifico con niente di tutto questo. Gli uomini del Programma sono dei tali delinquenti, penso. Le donne sono vittime e gli uomini delinquenti. E io, cosa sono? Un po’ di tutt’e due?

La storia di Lyle finisce che lui va a disintossicarsi in una costosa clinica per matti, lascia la sua prima famiglia e ne inizia una seconda, segue il Programma da dieci anni e se questi dieci anni non hanno fatto di lui un uomo migliore, perlomeno ne hanno fatto un uomo corrotto, che però non picchia più moglie e figli.

Durante gli interventi dei presenti, resto ammutolita dallo stupore davanti al numero di uomini che affermano di identificarsi in Lyle. Lo odio, odio la sua violenza, la sua presunzione. Quest’odio è un’emozione straziante, nell’atmosfera di sospensione del giudizio che regna alla riunione. Ma confessare un comportamento corrotto, serve forse a redimerlo?

Dart alza la mano. “Sono Dart, drogato e alcolizzato,” dice, “e questa è la mia prima riunione. La tua storia mi ha fatto pensare a quella volta in cui mio padre mi tenne con la faccia sott’acqua e cercò di annegarmi, perché avevo osato rispondergli male. Sono pieno di sentimenti contrastanti, ma sono felice di essere qui. Desidero diventare sobrio con tutto il cuore.” La gente guarda Dart come se la sua confessione avesse scatenato qualcosa di potente dentro di loro. Quanti alcolizzati in questa stanza hanno lottato tra annegamenti e botte per arrivare fin qui, nel seminterrato di questa chiesa nelle campagne del Connecticut? Penso a tutte le probabilità che sono contro di noi e gli occhi mi si riempiono di lacrime.

Abbraccio Dart. “Tesoro, sono così fiera di te,” dico, rivedendo all’improvviso il mio giudizio sulla storia di Lyle. Se ha potuto suscitare questa reazione in Dart, deve esserci qualcosa di buono. Decido di sospendere il giudizio sulla razza umana e di non sparare a zero su tutti. Non ancora.

A quanto pare, sto ancora pensando di essere Dio. E la mia mente sana, lontanissima, quasi impercettibile, sussurra: “Leila, sei una persona amabile, lo sei davvero, non devi stare qui a sorbirti tutta questa merda.”

Isadora: Non mi piacciono i capitoli in cui parli del’Anonima Alcolisti. L’Anonima Alcolisti è una cosa di cui non si può scrivere. Quello che succede suona banale, anche se in realtà non lo è. Una terapia di gruppo non può essere trasferita sulla carta.

Leila: Allora cosa suggerisci di fare? Lasciare la nostra eroina alcolizzata, disperata, senza speranza? L’Anonima Alcolisti a me è servita.

Isadora: Lo so. Dopotutto, ti ci ho mandato io. Ma in fondo è solo una delle tante strade che portano alla conoscenza di se stessi... Se si comincia a capire che la risposta è dentro di noi... se si smette di dare la colpa agli altri...

Leila: Ssst. Questa è la mia storia.